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Autore: L0g1c1ta    22/01/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Riapre gli occhi.

Il cielo è azzurro, ci sono poche nuvole. Dei fili d’erba lo abbracciano. Si alza in piedi. Le cortecce degli alberi si levano verso l’alto. Il vento scompiglia le loro foglie, le accarezza e ci gioca. Il lettone riconosce il luogo. Il ragazzino è a casa sua, nella sua Nazione, in Lettonia.

Corre per i boschi e le praterie. Vuole rivedere le colline, vuole rivedere le città, vuole rivedere il mare. Dimentica Russia, Estonia e Lituania. Dimentica che non dovrebbe stare lì. Dimentica la promessa fatta a Lituania. Non gli importa nemmeno, è solo troppo felice di essere ritornato a casa, dopo tanti anni al freddo.

Raggiunge un’alta collina, verde e pulita, florida per il sole estivo. Gli steli d’erba sono alti quanto lui stesso e più. Sente il suo naso solleticato da quei fusti. Ride, si diverte. Il sole lo abbraccia, caldo e forte. Non ricorda di aver mai fatto un sogno così bello. È felice di essere ritornato nel suo paese. E’ felice di essere al caldo. È felice di non vedere nemmeno un po’ di neve. È felice di non avere problemi.

Vede in lontananza una figura che cammina tra l’erba, leggiadra ed elegante. Lettonia pensa di andare da lei, vuole giocare con qualcuno. È bambino nel cuore e nell’anima. Di soppiatto si avvicina lentamente, il cielo bucherellato da steli verdi e folti. Continua a camminare pian piano, volendo fare un buon attacco a sorpresa. Riconosce la figura ad un palmo dal suo naso, anch’essa è verde dai vestiti. Scatta su di essa e tenta di farla cadere, ma quella non cede e rimane ancora fissa al terreno.

“Ti ho preso!” esclama, vittorioso. Il vento gli fa ondeggiare i riccioli biondi. La figura ha una voce. È piuttosto ruvida, la figura. Non capisce perché abbia una divisa militare. Non comprende perché ci dovrebbe essere un soldato non lettone nel suo territorio. Ma ora non gli importa, almeno è morbida e calda, la figura, anche se molto magra.

“Lettonia, cosa stai facendo…?” chiede, con voce incredula e turbata. Lettonia la riconosce, quella voce. Timidamente, alza il capo verso di essa. I suoi occhioni blu si riflettono nei suoi smeraldini. Quegli occhi non dovrebbero stare nel suo bel sogno, sono troppo… sconvolti. Lettonia lascia la presa e arretra di qualche passo. I fili d’erba sbattono contro il suo corpo. Ha avuto un colpo, gli batte forte il cuore.

“Polonia? Ma cosa…?”

“Ma che stai facendo qui?!” urla il polacco, con le iridi puntate sulle sue. Sono quasi accusatorie, quelle iridi. Le sopracciglia del lettone si abbassano, spaventate. Il vento continua a sferzarlo. I capelli di Polonia si ribellano e combattono contro l’erba alta.

“C-Cosa? Tu cosa ci fai qui? Dovresti…” Lettonia ricorda, ma poco “…essere morto” a Polonia sembra non importare quello che gli sta dicendo. Sembra del tutto agitato. Le sue mani stringono il suo petto esile, come se avessero timore che possa cadere. I capelli lunghi continuano a ribellarsi al vento. Gli occhi sbarrati e increduli. La felicità di Lettonia scompare del tutto. Vedere Polonia così angosciato fa angosciare lui stesso. In qualche modo sente tutte le sue emozioni.

“Lettonia, devi andartene da qui” dice, anzi, supplica “Liet… Lituania sta morendo, devi salvarlo!” esclama, anzi, urla. Lettonia ricorda Lituania, con non troppi particolari. Ma è poco importante ora. Non vuole tornare indietro, la sua casa gli era mancata troppa. E poi, chi è Polonia per impedirglielo? Il cuore smette di sbattere in petto.

“No, voglio restare qui! Se vuoi, puoi restare anche tu…” il polacco fa un passo in avanti, un passo pesante, come se fosse arrabbiato. Lettonia indietreggia, incredulo. Non ricorda di aver mai visto Polonia con quegli occhi sbarrati. In realtà, non ricorda nemmeno quand’è stata l’ultima volta che l’ha guardato in faccia. Ma è passato troppo tempo per aver presente qualcosa di simile. E, comunque, Lettonia è ancora immerso nel suo sogno.

“Lettonia, devi andartene via! Svegliati! Devi svegliarti!” supplica. Lettonia si preoccupa per davvero quando si rende conto che Polonia sta quasi per piangere. Forse l’ha già fatto anche prima, pensa, notando i suoi occhi rossicci. Rossicci come quegli di Lituania. Ricorda, ma non vuole andarsene, sta bene lì, lontano dal freddo e dalla neve. Non vuole andarsene. Il cielo si rabbuia, i fili d’erba sono delle verghe guidate dal vento.

“No, voglio restare qui. Forse sarà Lituania che verrà da noi…” Polonia si getta in avanti, alla sua altezza. Gli artiglia le spalle e comincia a scuoterlo. Lettonia ora è terrorizzato e anche molto perplesso. Una scarica potente e disperata percorre il più piccolo. In qualche modo sente tutte le emozioni del polacco. Sente paura, terrore, orrore. Non capisce l’orrore, ma comprende la paura. Lettonia ricorda Lituania e la sua promessa. Ora è orrore per il più piccolo. Polonia sembra molto più spaventato e bisognoso.

“Lettonia, devi svegliarti! Vai da Liet!” le sue urla sono panico di puro. Lo supplica in ginocchio. Lettonia sente quest’urlo ripetuto più volte, dentro la sua testa. Fa male, la sua testa. Fa così male che non vede più niente.

Polonia è sparito, non c’è più.

Lettonia si sveglia, il suo busto si alza prima di aver aperto gli occhi completamente. Fa dei respiri profondi, gli tremano le mani. Non è la prima volta che si sveglia in questo modo, ma è come se gli fosse accaduto per la prima volta dopo anni e anni. Si passa una mano sui capelli, molto più tranquillo di pochi secondi fa. Si sveglia del tutto. Avrebbe dovuto passare un'altra notte a camminare per la casa… Si volta al suo fianco e nota che Lituania non c’è. Tasta il posto dov’era, come per sperare che i suoi occhi lo stiano ingannando.

 

“Lettonia, devi svegliarti!”

 

Polonia gli urla nelle orecchie, ancora. Lettonia cade fuori dal letto, chiama Lituania, ma nessuno risponde. Entra nel panico. Apre la porta ed esce fuori. Chiama ancora Lituania, ma non sente nulla. Non gli importa più se qualcuno si sveglia. Non gli importa se disturberà Russia. Ha paura, tanta paura. Corre per il corridoio. Inciampa nei tappeti, rischia di scivolare giù dalle scale, come se fosse inseguito da qualcuno. Gli occhi di Polonia amplificano il suo terrore.

 

“Vai da Liet!”

 

Lettonia cerca Lituania. Lo cerca ovunque: stanza da pranzo, cucina, salotto, di nuovo la camera da letto, l’entrata, le stanze per gli ospiti, anche nelle stanze che usano di solito le sorelle di Russia. Corre per i corridoi e per le stanze, disperato. Cerca, ora urla. Dove sei Lituania?!

È disperato e sgomentato. Non capisce, per questo piange. Lituania è sparito e non viene fuori. Lo cerca anche fuori dalla casa, tra i giardini seccati di Russia, nel capanno degli attrezzi. Non lo trova. Fa due giri attorno alla casa, due giri strazianti per il suo cuore. Per lo sforzo, cade in ginocchio e continua a piangere, a pieni polmoni, incurante degli abitanti e del padrone di casa. Ha paura per Lituania.

 

 

 

 

 

Estonia odia Lituania.

Lo odia.

“Parla ancora al telefono con lui…” afferma, senza voler essere realmente ascoltato. Gli basta solo sfogarsi un po’ “…col polacco effeminato” non sa nemmeno che numero di dispregiativi ha raggiunto nel non usare quel nome. Ormai deve aver passato la trentina. O quarantina, chi lo sa? Ma non vuole nemmeno contarli, non ne vuole sapere niente. Odia anche Polonia che riesce a dare amore a Lituania più di quanto faccia lui stesso. Odia Lituania, che ascolta quel principino, senza pensare a lui. A loro. Per fortuna Lettonia è abituato ad ascoltarlo e a non aprir bocca in questi suoi dialoghi con sé stesso. Almeno fa qualcosa di utile.

“Pensa, anche durante la riunione con Prussia. Lo so, è accaduto solo ieri, ma questa cosa continua a farmi male” ma, in realtà, ad Estonia fa male tutto di Lituania. Soprattutto se, col suo nome, si aggiunge anche quello del bastardo biondo. Lettonia non dice ancora nulla, si tiene a distanza. Nemmeno si fa vedere, affianco a lui, a sbucciare le patate. Anche Estonia ha un coltello. Sfregia la pelle del tubero, come se fosse quella del fratello.

“E sai che cosa ha fatto? La spia. Esatto, una cosa proprio da lui” dice, ironico. Aveva ascoltato, l’altro giorno, dietro ad un muro, il fratello. Ogni parola rivolta al microfono era veleno per lui. Ha dato più importanza al polacco che a loro due. Odia Lituania, perché è egoista. Perché pensa a qualcuno che non vede da decenni, invece che a loro due, suoi fratelli. È un maledetto egoista e per questo Estonia è ancora più arrabbiato. Il tubero fra le sue mani vuole scivolare via, spaventato dalla forza che usano le sue dita. Lettonia è ancora muto, continua il suo lavoro, imperterrito.

“Deve aver ascoltato la riunione tra Russia e Prussia. Vogliono andare a distruggere Varsavia, per dei territori perduti… o quel che sono” poco gli interessa quel che si siano detti, l’unica cosa che brucia è solo il tradimento del lituano “E sai una cosa? E’ scappato di corsa a dirglielo, a quella carogna” strappa la buccia della patata con uno strattone “E’ scappato al telefono e gliel’ha detto! Mi ha gettato fra le mani il suo lavoro e se n’è andato da lui, a dirgli che sta per essere ucciso. E vuoi sapere un’altra cosa? Non gli ha creduto. Ha riattaccato dopo un po’ e lì è finita” Lettonia pare più lento col braccio, ma non gli importa “E sai un’altra cosa? Meglio così. Ci sarà una Nazione inutile in meno a questo mondo” un altro strattone e la pelle quasi nera del tubero cade per terra. Meglio così.

Sa che in realtà quello è un sogno. Sa quel che accadde in seguito. Sa come sta Lituania, fuori da questo breve ricordo. Estonia odia Lituania. Lo odia. Lituania lo ha imbrogliato. Gli ha fatto credere che ci sia un lato bianco in quel nero che è la casa di Russia. Lo ha convinto che, in futuro, loro tre avrebbero potuto avere l’indipendenza e scappare da lì, per tornare a casa.

Lo ha ingannato ed Estonia lo odia. Gli ha fatto credere che Lituania sia un angelo, venuto in quella casa solo per consolarli e per farli sognare. Era tutto falso. Lituania non è un angelo. E’ un essere umano come tanti, in quella villa nera. Non ha un cuore d’oro, ma un cuore fragile e delicato. La morte di Polonia lo ha spezzato in due. Lo ha odiato, Estonia, perché gli ha gettato sulle spalle il suo desiderio di scappare e di avere una vita più calda e felice. Gli ha sbattuto sulle spalle il compito di dare speranza a loro tre. Estonia non è bravo in questo, non lo è mai stato. Per questo non ha preso l’incarico dato e il non averlo fatto lo fa sentire in colpa. Ma ora è solo preso dal ricordo, di cui ricorda pochi frammenti, ma che vorrebbe che continuasse, per sfogarsi. Lettonia continua il suo lavoro, in silenzio.

“Secondo me Russia dovrebbe saperlo” getta lì, un’altra buccia di patata, altre parole rabbiose “Dovrebbe sapere che Lituania ha fatto la spia, così potrà punirlo e starà fermo al suo posto” così non penserà più a Polonia, così non si sentirà troppo male quando lo uccideranno “Sarebbe meglio per lui, si renderà conto di aver sbagliato. Non avrà niente di cui lamentarsi se lo pesterà come ogni santo giorno. Potrebbe anche abituarsi” così non s’illuderà e si sentirà meglio “Sai che ti dico? Mi sa che glielo vado a dire, prima che se ne accorga troppo tardi” così Russia non gli farà troppo male, quando lo picchierà “Sarebbe meglio per lui smettere di rispondere sempre al telefono” così accetterà la realtà così com’è, anche se brutta. Gli farebbe bene. Estonia si alza dalla sedia. Si spolvera i vestiti e si aggiusta gli occhiali “Anzi, ci vado proprio o-…”

Estonia si è voltato, ha visto la porta. Nonostante ripercorra un ricordo, rimane comunque scosso. La porta è socchiusa, buia. Luccicano degli occhi violacei, una sciarpa bianca, un guanto nero tocca lo stipite. Estonia sente il vuoto dentro di sé. Si sente freddo, congelato, i piedi gelati sul pavimento, il cuore fermo. Non riesce a riflettere, non riesce a pensare. È come una macchina lasciata per una notte al freddo. Non riesce ad accendere nulla nel suo cervello. La figura gli sorride, dolce, fa un cenno di saluto col capo. La porta si chiude. Il freddo si scongela, ma dopo qualche minuto. I piedi incastrati riescono a muoversi, cadono, inciampano per terra. Il corpo si piega, non ancora decongelato. Lo sa, pensa solo a questo. Il collo e la testa sono di pietra, non si muovono nemmeno gli occhi.

Il ricordo si sbriciola nella sua mente. Ricorda ciò che avvenne in seguito. Lituania non venne punito in quei giorni: Russia ha dovuto preparare l’attacco, non aveva tempo. Lo ha spezzato mesi dopo, quando è giunto nella loro stanza e gli aveva chiesto di aiutarlo con i documenti. Russia voleva già punirlo, voleva già fargli del male. Estonia l’aveva realizzato giorni dopo l’avvenimento. Aveva guardato Russia e aveva compreso ogni cosa. Era stato programmato già tutto, tutto era già pronto. E lo strumento che ha fatto cadere i pezzi del domino è stato lui.

Estonia si odia, perché è debole. Perché potrebbe tenere la bocca chiusa e non arrabbiarsi sempre. Perché avrebbe potuto salvare Lituania e non l’ha fatto. Non ha il coraggio nemmeno di piangere. Si sente semplicemente bloccato. Lettonia ferma il coltello. Sente i suoi movimenti alle sue spalle. Capisce che si alza e si avvicina a lui. Estonia ricorda. Ricorda che il ragazzino, in seguito, aveva pianto, sì, eppure lo aveva consolato. Ci aveva provato, almeno. Vede la sua ombra protendersi su di lui, oscurandolo. Aspetta i suoi singhiozzi, aspetta la sua rabbia gorgogliare nello stomaco. L’ombra è molto lunga, lo oscura totalmente. I passi di Lettonia sono troppo pesanti.

“Questo spiega tutto…” Estonia sobbalza, gli occhi si scuotono “Ora tutto è molto più chiaro…” questa non è la voce di Lettonia. La famigliarità e la consapevolezza di chi sia lo fa gettare nel panico. C’è silenzio, il ragazzo ode il proprio cuore. Ricorda ciò che ha detto riguardo Polonia e si sente in pericolo. Ricorda che è morto, eppure non gli pare un’illusione quella che ha udito proprio ora. Sente la stanza chiudersi su sé stessa, oscurando del tutto ogni cosa che vede. Non c’è più luce, c’è solo l’ombra di Polonia, infame e fredda. Estonia sente altri passi, sente della stoffa ruvida sfiorargli i capelli e il collo.

“Quindi, per colpa della tua lingua, Lituania è stato rinchiuso per due settimane, al freddo, in una casetta in mezzo al bosco” lo dice come se fosse una considerazione che ha fatto da tempo dell’estone, una crudeltà che bruciava sulla sua lingua da molto, molto più tempo di quel che pensa l’occhialuto. Ad Estonia manca il fiato in gola: Polonia ha iniziato a passare le dita tra i suoi capelli. Pulsa con più forza, il cuore dell’estone. Vede i movimenti della mano freddi, ritratti sull’ombra di fronte a sé. Le falangi paiono le zampette di un grosso ragno, che si muove sopra la sua testa, imperterrito dei suoi tremiti. Estonia vorrebbe drizzarsi in piedi, ma non si muove.

“Sai cos’è successo là dentro?” Estonia è pietra, è un cuore battente, è un tremore nell’anima. Ha paura di Polonia e si vergogna tanto di quel che ha detto su di lui. Ha parlato male di un morto. Si sente un miserabile, mai quanto lo sia stato nella sua vita. Le dita di Polonia viziano le ciocche dei suoi capelli. Percorrono, lente, la cute. Lasciano dietro di sé dei brividi di terrore. La gentilezza di quelle falangi lo sconvolge. Vorrebbe che non lo toccasse. Polonia è crudele, per questo continua. Dall’ombra di fronte a sé vede la sua figura abbassarsi verso il suo orecchio. Gli occhi di Estonia non riescono a smuoversi dalle ombre di fronte ai suoi occhi.

“Lituania è stato sfracellato ogni mattina e spezzato in due ogni sera” la sua voce è armoniosa e tenue. Non ha niente di maligno o crudele. Estonia ha paura dell’oro che vede scintillare vicino al suo occhio, della pelle bianca e delle labbra sottili. È scosso dall’unica frase che ha pronunciato.

“L’ho visto coi miei occhi, Estonia” il suo nome, pronunciato dal polacco, pare quasi una bestemmia. C’è più rabbia nelle sue parole “E’ stato gettato contro i muri” le dita si fermano, premono forte sulla cute. Il ragazzo sente dolore, ma non geme “È stato bastonato” le falangi stingono le ciocche bionde. Sente odio lì, incastrato nelle dita “Gli ha strappato pezzi di carne e unghie. Ha portato anche una tenaglia per levargliele” Estonia sente le ciocche implorare pietà, ma non riesce ancora a muoversi. Solo il suo corpo è pieno di tremiti. Estonia ha paura del fantasma, ha paura della sua voce. I morti non dovrebbero parlare. Continua a tremare e a sussultare, non riesce nemmeno ad alzarsi in piedi.

Un fischio percuote le sue spalle. Anche Polonia sobbalza per la sorpresa. Estonia non ha il coraggio di voltarsi. Vede, ritratta nelle ombre, la figura luminosa di un volatile. Sbatte le ali, drizza il becco, fa sussultare l’estone. Il cuore si riempie di calore. Si sente al sicuro. Qualsiasi cosa sia quell’apparizione, lo fa sentire calmo e rilassato. Un altro fischio più acuto e potente. Polonia si volta, Toris lo sta chiamando. Ha poco tempo. Sbuffa, ricordando il suo compito, ma desiderando una piccola vendetta che non potrà mai avere. Ritorna il terrore, sobbalza di nuovo, Estonia: Polonia si è ritratto di scatto in piedi e, con passo fermo e incredibilmente adulto, si ferma di fronte a lui. A faccia a faccia, con le ginocchia posate sul pavimento. Estonia, d’istinto, abbassa la testa di fronte al suo sguardo. Hanno qualcosa di raro e terribile i suoi occhi. Brillano di una rabbia ben controllata che ad Estonia ricorda quella di Russia, ma senza sorriso.

“Vorrei spaccarti totalmente la faccia, proprio ora” Estonia abbassa la testa quasi fino al proprio grembo. Vedere Polonia fa male. Vederlo arrabbiato e deluso fa ancora più male. Si sente colpevole, senza sapere con precisione per cosa. Una raffica furibonda esce dalle labbra del polacco. Tremiti di terrore, Estonia si chiude a riccio. Ha paura. Sente di nuovo la mano di Polonia sui suoi capelli. Li strattona all’indietro, forte, veloce, straccia il suo fiato in due. Estonia ritrova di nuovo gli occhi di fuoco, lo sguardo severo e maligno di principe. L’ha già visto tanto tempo fa, ma non ricorda quando. Ricorda che ha avuto paura anche all’epoca. Tremiti più forti, un gemito striscia sulla sua gola “Quando ti parlo, voglio che tu mi guardi” Estonia deglutisce, ha gli occhi intrappolati negli smeraldini di Polonia. Non potrebbe nemmeno abbassare lo sguardo: le iridi del principe sono calamite di fuoco. Estonia ha il fiato corto e il cuore nelle orecchie. Il suo petto è fermo, dimentica di respirare.

“C-Cosa vuoi?” Polonia ha gettato uno sguardo dietro il ragazzo. Toris pretende attenzioni e sbatte le ali, severo nello sguardo. Non c’è tempo. Quasi ne è dispiaciuto. Se non fosse per Liet, avrebbe già regalato il primo pugno ad Estonia dall’inizio del sogno. Meglio non pensarci, non c’è veramente tempo. Respira ed inspira, la calma ritorna e la rabbia scema. Ricorda il suo amico e il suo compito. Anche i suoi occhi sono calmi. Ricorda il sangue e l’ansia ritorna. Estonia li guarda, ma vede ancora la severità di un nobile e questo continua a terrorizzarlo. Polonia si strappa via anche questa maschera e ridiventa ragazzo. L’estone non ha più paura. Riconosce Polonia e ne vede il volto sofferente. Un brillo di meraviglia zampilla nel suo petto. Il polacco molla la presa sui suoi capelli.

“Devi salvare Lituania, subito!” da ragazzo muta in bambino, d’un colpo. Polonia sembra un piccolino supplichevole che prega il fratellone di aiutarlo per una marachella finita male. Estonia continua a riconoscere Polonia e la paura scivola via come un fiumiciattolo pieno di rifiuti. Si sente più leggero, ma l’angoscia con cui lo guarda è tale da farlo ritornare pesante e pensieroso. Si sente preoccupato per lui. Scuote la testa, non capisce.

“Cosa? Che c’entra Lituania?” le iridi smeraldine si sbloccano dal magnetismo e vagano dagli occhi blu di Estonia alle sue ginocchia. L’occhialuto ha un brivido di panico quando il polacco, ritornato con più calma e pace, gli afferra le spalle. Estonia sobbalza. Sente i tremiti di ansia del ragazzo ad un palmo da sé e la cosa lo terrorizza. Polonia è pur sempre un fantasma e lui ha pur sempre parlato male di lui.

“Lituania sta per morire” uno sparo, un botto centra in pieno petto Estonia “Devi salvarlo, prima che sia troppo tardi” l’estone guarda Polonia e si sente leggero, come se quel forte dolore al cuore lo abbia veramente ucciso. Ritorna in vita: Polonia lo ha spinto e ora sta cadendo nel nulla, nel bianco, nella carta e nell’infinito. Si sente un macigno pronto a schiantarsi contro qualcuno. Vede il panico di Polonia e lui lo assorbe tutto, terrorizzato anch’egli.

Ora!

Estonia si sveglia. I suoi polmoni pretendono l’aria che hanno trattenuto per tutto quel tempo. Esce fuori dal capannone degli attrezzi. La sua testa è ancora presa dal sonno, ancora addormentata e leggera, le ferite alle mani sono guarite in poche ore. Inciampa e si trascina fuori. La neve e il gelo lo stringono in un abbraccio troppo freddo per lui. Rabbrividisce, gli occhiali tremano sul suo naso, insieme al collo. Ritorna l’equilibrio, ritorna la consapevolezza di ciò che dovrebbe fare in quel momento. Gira fuori dalle mura della casa. L’uniforme non è per niente utile per togliere di dosso il freddo. Si sente male per questo. Estonia svolta per un altro sentiero del giardino morto. Pianto sommesso, brivido di ansia, Lettonia sta tremando lì, in mezzo alla neve. Estonia non ha tempo, non riesce a capire bene ciò che lo circonda, né lo vorrebbe fare. Sa solo che non ha tempo. Corre, si accovaccia vicino al fratellino. I suoi ricci biondi paiono quasi mori, senza vita né desiderio di vita. Estonia lo scuote.

“Lettonia, perché piangi?” Estonia lo costringe in piedi. Non c’è tempo, non c’è proprio tempo. Lettonia ha il visino rosso, le maniche troppo lunghe per lui, il moccio al naso e gli occhi umidi.

“L-Liet…!”

“C-Chi?”

“Lituania!”

“Cosa? Dov’è?!”

“Non lo so! È sparito!” Estonia ha la bocca asciutta “L’ho cercato ovunque, in tutta la casa! N-Non c’è!” esclama, infine, e ritorna a piangere. Estonia rimane muto. Lettonia continua a piangere e a lamentarsi. Non c’è tempo, non c’è proprio tempo. Ricorda Polonia e la sua ansia. Ricorda il suono della sua voce e il suo sguardo di principe. Ritorna l’umiliazione e la paura. Non c’è assolutamente tempo. L’occhialuto punta lo sguardo verso il cancello della villa.

“Il cancello è aperto” entrambi si guardano negli occhi, presi, morsi, sbranati da un brivido. Hanno lo stesso pensiero, hanno lo stesso desiderio di correre.

“Andiamo, Lettonia!” il ragazzino segue Estonia e corrono fuori, toccano e oltrepassano il cancello. D’istinto, gli occhi iniziano a vagare attorno a loro, voraci, desiderosi di indizi. Non c’è bisogno di cercare molto: Lettonia sobbalza nel vedere delle impronte, non troppo grandi, sulla neve. Fa un cenno con la manica al fratello. Estonia si aggiusta gli occhiali e getta gli occhi dove gli ha posati il più piccolo. Seguono con lo sguardo la traccia, vedono dove conduce. Deglutiscono. La foresta è nera, cupa, senza stelle e con solo metà luna. Sentono il freddo pungerli la schiena e la paura strisciare nei loro stomaci. Temono quella foresta, la odiano. Lettonia, però, rivede di nuovo Polonia tra l’erba alta della sua terra. Pensa che si odi più di quel posto cupo. Pensa che non sia giusto il suo cuore, in quel momento.

Per questo poggia un piede all’interno della neve fresca, di fianco all’orma di Lituania. Sembrano così piccoli i suoi piedi in confronto a quelli del fratello… Lettonia continua il suo passo, diventato più veloce. Corre tra gli alberi. Estonia pensa che non sia giusto nei confronti del fratello maggiore. Raggiunge, oltrepassa il lettone.

Il gelo punge, la paura striscia, loro due non sono coraggiosi, eppure non gli importa. Si chiedono solo dove sia Lituania e perché sia in pericolo.

 

 

 

 

 

Come un furfante si nasconde, il tagliagole, l’assassino, il boia, il mostro. Dietro ad un albero si cela, dietro al confine invisibile che divide la sua terra con la loro. Si rende conto, dopo un po’, che non vi è alcuna necessità nel nascondersi: non può vederlo ugualmente, troppo concentrato ad altro, il bambino. L’autunno ha tinto i suoi alberi di arancione. Presto verrà il Grande Generale a fargli visita, ma non ha voglia di prepararsi. Si sente triste. Si sente semplicemente molto infelice. Non sente il vento d’Inverno, troppo preso dallo sconforto.

Il suo piccolo angelo è felice, nella sua reale terra. Non avrebbe dovuto sradicare il suo piccolo fiore dalla propria patria. Il suo territorio, dopotutto, è troppo freddo per ospitare dei fiori lucenti come Lituania. Il grano è giallo, maturo, cresce forte. Il suo angelo ne mangiucchia dei semini, iniziando a raccoglierne dei giunchi. Vede perle bianche uscire dalle sue labbra. È roseo e bello, il piccolo fiore. Ha ali d’argento il suo cuore, vola spensierato per i campi gialli. Russia è ancora più triste. Non avrebbe dovuto farlo. Avrebbe dovuto lasciarlo crescere lì, al caldo, al sicuro.

Non sente la voce, ma l’avverte. Volta leggermente gli occhi e vede una testolina dorata, occhietti di volpe e sorriso dolce. Per un attimo anche Polonia gli pare bello. Il suo angelo lo saluta. Si avvicina, il più piccolo, lo abbraccia forte. Il suo angelo gli regala un bacio, sulla guancia. Nel cuore di Russia si forma una crepa. Non ha mai baciato Lituania in vita sua. Polonia, invece, l’ha preceduto di mille anni. Si sente inferiore a lui. Si sente sporco e cattivo. Si vergogna di sé stesso. Si chiede perché stia ancora lì a guardarli. Non dovrebbe uscire allo scoperto, non dovrebbe distruggere i loro cuori. Preferisce restare lì, dietro alla piccolissima linea di confine che separa le loro due terre. Polonia ricambia, si alza sulle punte e lascia un bacio sotto l’orecchio di Lituania. Russia pensa di voler morire.

Continua ad osservarli, continua a stare lì. Per la seconda volta, parte di lui, la più rabbiosa e malata, si chiede perché stia ancora lì. Non ha più voce, quel frammento di sé. L’ha rinchiuso in una gabbia, lontano dal proprio animo e dalla propria mente. Non vuole più ascoltarlo. Ogni parola che gli sussurra non ha creato altro che male. Russia vorrebbe soffrire, per questo resta ancora lì. Pensa che meriti lui stesso una punizione per tutto ciò che ha fatto. Lituania non è solo l’unica vittima per cui doversi penare. Pensa che la morte sia troppo gentile come castigo, per questo continua ad osservarli, infelice e depresso. Dimentica di sorridere, non ne ha le forze, né la volontà. Polonia è stato lì, sin dall’inizio del sogno. Guarda ciò che guarda Russia e sente il suo stesso dolore, anche se un po’ diverso.

“Eravate bellissimi…” sussurra, rauco, adulto, il mostro. Polonia alza leggermente gli occhi, sa che Russia l’ha visto. I due ragazzini continuano a giocare, più spensierati, più allegri. Russia sa che non sono felici grazie a lui e per questo sospira “Eravate perfetti insieme. Eppure ho voluto separarvi… non l’ho fatto solo per un ordine dei miei sovrani” un altro sospiro, Russia non riesce a parlare bene, ma non se ne vergogna “Vi vedevo sempre qui, sempre alla linea di confine. Nessuno si accorgeva di me, quindi restavo a guardare” Polonia sente un mantello di tristezza cingergli il collo che scendere sino alle caviglie. Russia inclina la testa, ancora triste “Pensavo che avrei potuto prendere il tuo posto. Pensavo che ti avrebbe dimenticato e che sarebbe diventato mio…” volevo un fratello o un figlio, per questo ho scelto Lituania, per questo ora soffre così tanto “Invece è accaduto ciò che è accaduto. Lituania sta appassendo e tu sei morto” conclude, sospira, il cuore spezzato da troppe crepe.

Lituania non è stato la sua unica delusione, eppure è quella che lo ha annullato del tutto. Sia maledetto il suo cuore troppo speranzoso! Avrebbe dovuto immaginarlo sin dal principio che un piccolo angelo come Lituania non avrebbe mai potuto amare lui. E’ stato talmente ovvio che se ne vergogna. Polonia è triste, il mantello che gli ha posato sulle spalle Russia è troppo pesante e lo fa sentire male. Aveva tante cose da dirgli, ma non riesce a pronunciarne nemmeno una. Non ne ha il coraggio. Si rende conto che Russia abbia qualcosa che nessuno ha mai visto prima in lui. Si rende conto di quanto la sua pietà sia sbagliata, ma non riesce a scrollarsela di dosso. Russia è disperato quanto lo è stato lui stesso nel voler riavere indietro Liet. Ma lui era felice, aveva delle possibilità. Russia è un’anima triste: per lui non c’è alcuna speranza. Polonia deglutisce e alza gli occhi. Russia è perso nel ricordo, nel piccolo Polska e nel suo angelo, di fronte a loro. Non cede lo sguardo, deciso a punirsi.

“Da quanto tempo, Russia…?” la sua voce è un filo di emozioni. Vorrebbe urlare, ma non ne ha le forze, troppo schiacciata dalla malinconia. Vorrebbe essere sdegnata, ma la pietà per il suo assassino taglia in due la sua gola. Vorrebbe anche essere ferma, e per fortuna ci riesce. Almeno questo privilegio gli è consentito. Gli occhi di Russia sono ancora persi nel giallo del grano e nel sorriso del suo angelo.

“Da prima che vi conosceste” a Polonia fa male il cuore “Ero un ragazzo, ero cresciuto molto in pochi anni. Lituania era ancora un bambino. Avresti dovuto vederlo: era una cosina così piccola e innocente…” sembra provato dal ricordo. Il mantello di Russia è diventato freddo, non preme più troppo forte, ma continua a fargli del male. Ma Russia è comunque più freddo. Sembra un fantasma, leggero, abbandonato al proprio destino. Polonia ha pietà e misericordia, ma vorrebbe non averne. Sarebbe tutto molto più facile, se non ne avesse.

“Perché…?” questa sola parola è un macigno incastrato per mesi nella propria gola. Polonia avrebbe voluto chiederglielo subito. Perché l’ha ucciso? Perché ha iniziato tutto questo? Perché Russia è diventato così malato? Russia sorride. È un sorriso di rassegnazione e sconforto. Quella sola parola, quella sola domanda, se l’è posta molte, troppe volte. E la risposta, dopo ricerche disperate, l’ha trovata.

“Perché sono egoista, Polonia” è un dolce veleno, quello che gli hanno iniettato queste parole “E anche perché preferisco illudermi sempre…” un sospiro più forte degli altri si leva, lascia le labbra sottili del malato “…desidero ciò che non potrò mai avere. Devo avere qualche maledizione. Forse è l’inverno che me ne ha lanciata una, probabilmente fin dalla mia nascita. Forse è per questo che nessuno mi vuole” volta il capo, il generale russo. Polonia vede i suoi occhi, brillano violetti, umidi, quasi blu, schiusi e umili. Non vede le labbra, nascoste sotto la sciarpa, eppure Polonia sa che sorride “Dopotutto, è sempre stata così la mia vita, da?” Russia inclina dolcemente la testa, si sente un bambino diventato d’un tratto adulto, reso conto di molte cose, accettato altre che non riteneva credibili o possibili. Ora Russia ha aperto gli occhi e pensa che sia meglio così. E’ il suo giusto castigo. Sospira e ritorna dritto col capo, anche se con occhi chiusi e con le labbra piegate all’insù.

Polonia vede il mondo attorno a loro diventare bianco, screpolato, tagliato con fogli di carta. Il suo doppione, insieme a quello di Liet, sono scomparsi da tempo, eppure sente la loro mancanza proprio ora, soltanto ora. Toris, sulla sua spalla, gli bacchetta con la punta del becco la tempia, cercando di farlo parlare. Polonia non ce la fa, ha la gola bloccata. Il dolce veleno nel suo cuore continua a scorrere, imperterrito.

A Russia non importa del bianco, continua a sorridere, infelice. Polonia, di fianco a lui, si chiede come faccia ad avere compassione per il suo stesso assassino.

 

Scarponi infangati nella neve corrono per il sentiero invisibile. Scalciano i rimasugli di terra, pestano le radici dei grandi alberi neri. Non hanno tempo, le impronte stanno per scomparire. I fiocchi di neve, impiccioni, cadono sopra le tracce degli stivali e cercano di nasconderle. Estonia e Lettonia sanno solo che non hanno tempo, non solo per le impronte quasi completamente bianche. Le tracce hanno proseguito per troppo tempo ormai. Temono il peggio.

 

“Potresti rompere la tua maledizione, Russia” il bianco è ai loro piedi, il paesaggio è carta da colorare per un bambino infelice. Russia si volta, i suoi occhi brillano calmi e pacati. Il viola screpolato accarezza il forte smeraldino. Prende le parole e le segue col cuore.

“Come potrei, Polonia? Questa mi perseguita da anni, per troppi secoli. Non c’è più speranza, piccolo demone” non era un dispregiativo e Polonia lo capisce. Russia lo vede semplicemente così e lo accetta. Lui stesso si definisce un demone e non solo per i suoi occhiacci.

“Salvando un’anima infelice, Russia”

 

Saltano tra i rami più bassi, strappano i cespugli di rovi. Lettonia inciampa in una radice troppo spessa, s’incastra la sua caviglia in un fosso. Lettonia è furioso con sé stesso. Non ha lacrime e non vuole gettarne alcune. Morirebbe dalla vergogna, se lo facesse. Estonia era di fronte a lui. Si accorge del fratellino e ritorna indietro. Lettonia scalcia più forte col piede, indignato di sé stesso. Estonia non è arrabbiato, ha fretta e non riesce ad arrabbiarsi. Aiuta il suo piccolo fratello. Lo libera. Lettonia è meravigliato, ma non lo ringrazia: Estonia lo fissa ansioso, lo prende per mano e continuano la corsa.

 

Russia ora è interessato. Sotto i suoi piedi sente il terreno più molliccio, più cigolante. Russia è rapito dagli occhi forti di Polonia, dal suo sguardo nobile e serio. Non ricorda di aver mai visto occhi più luciferi di questi “Chi?” chiede, il terreno cede. Cade giù, nel bianco, nella luce. Russia vede la sua sciarpa tendere verso Polonia, il suo corpo precipitare, i suoi occhi cercare dei capelli d’oro.

Il ragazzo demone urla il nome. Russia sbarra le iridi d’ametista, adulte e sagge.

 

Lituania!

I due Baltici raggiungono un grosso albero, una betulla ricoperta di neve e brina. I grossi rami si stringono verso il tronco e raggiungono l’alto del cielo. Accolgono nelle foglie e nelle punte i fiocchi di neve, lasciandoli riposare tranquilli. Ai piedi della betulla, tra le radici, sdraiato tra le radici, c’è il loro fratello. Dorme calmo, bianco è il viso. I fiocchi cadono su di lui, gli baciano le guance e la fronte, si posano sui capelli scuri. Lettonia ha il cuore fermo, abituato di nuovo al camminare e non al correre. È sollevato che il fratello stia bene.

“Eccoti! Ti abb-…!” Estonia lo afferra per la spalla. La stringe forte, ma non tanto per fargli male. Lettonia chiude di scatto gli occhi, attende un ceffone, l’istinto fa cadere la sua testa fra le spalle. Estonia non si muove. Il più piccolo riapre le palpebre e alza gli occhi sull’estone. L’occhialuto ha uno sguardo freddo, gli occhi sono di ghiaccio, la pelle tesa in un’espressione angosciata. Vede qualcosa che il più piccolo non è riuscito a vedere. Estonia vorrebbe far reagire il corpo in qualche modo, ma non ci riesce. Sente solo il suo cuore congelato, il sangue fermo nelle vene, freddo. Non riesce nemmeno a togliere la mano dalla spalla di Lettonia.

Il piccolo non vede ancora nulla, né comprende. Confuso dagli occhi del fratello, fa un passo avanti, verso Lituania. Non porta i suoi stivali, solo ora si accorge di essere senza scarpe, solo con un paio di calzini bianchi. Per la fretta non si è accorto di nulla, nemmeno di essere in pigiama. Il piede calpesta qualcosa di caldo. Non sobbalza: è solo del liquido. Fa cadere gli occhi su quel che pare una pozza, grossa, nera. Lettonia, disgustato, indietreggia e strofina il piede sulla neve, per togliersi di dosso quello schifo. Estonia, al suo fianco, è ancora fermo e freddo.

Lettonia riesce a levarsi dal piede quella cosa. La neve con cui si è asciugato è diventata rossa. Il lettone è incredulo e perplesso. Si chiede cosa diavolo sia quella cosa disgustosa. Poggia l’indice nella pozza. Il liquido, caldo, lo annusa. Non ha alcun odore, constata. Con la punta della lingua, lo assaggia. Non comprendendo bene il sapore, infila l’intera falange in bocca. Sente ferro fuso, metallo ghiacciato. Vorrebbe sputarlo, ma non ci riesce. Ingoia quel liquido, non capendo ancora. Si volta verso il maggiore, chiede spiegazioni con lo sguardo. Estonia è ancora più freddo, paralizzato nel suo corpo. Non riesce neanche ad aprir bocca.

Lettonia volta, allora, il capo verso Lituania, ancora dormiente. Si chiede perché indossi il suo completo da festa e perché sia molto più pallido di quella mattina. Gli occhi, involontariamente, cadono sulle braccia del moro. Strabuzza gli occhi, vorrebbe non capire, ma non può. Lituania ha profondi tagli su entrambe le braccia. Il manico della divisa del braccio destro sembra essere sfregiato brutalmente, il sinistro attorcigliato e comunque massacrato. Dev’essere stato molto disperato. Il cuoricino di Lettonia pulsa nelle sue orecchie. Vede i fiumiciattoli del sangue di Lituania congiungersi alla pozza che ha calpestato poco fa.

Il suo petto ha un singhiozzo. Sente il corpo pesante, i piedi incastrati nella terra, cemento armato sopra dell’acciaio freddo. Un altro singhiozzo lo percuote e sconvolge tutto il corpo, gambe incluse, liberate dalla paralisi di ghiaccio. Si trascinano, i piedi, sopra la pozza rossa. E’ ancora calda, si macchia i calzini, fino alle caviglie, anche un po’ i bordi del pigiama. A Lettonia non importa. Le ginocchia cadono di fianco a Lituania. La sua pelle è grigia, vero grigio, quello degli scarabocchi di un bambino, della cenere del camino, delle unghie dei corpi morti. Lettonia viene percosso da un altro singhiozzo. Geme, gli ha fatto male questa scossa. Le dita delle mani hanno paura di toccare la spalla di Lituania, di spingerla, anche se dolcemente. La gola va in fiamme.

“Lituania, svegliati…” il piccolo Lettonia è un ridicolo sussurro, uno stupido venticello sulle spalle. Nessuno potrebbe svegliarsi con delle mani così discrete. Ma il ragazzino è troppo provato. Tenta comunque di usare più forza “Lituania, dobbiamo andare a casa... Devi svegliarti…” Il corpo di Lituania è freddo, la pelle continua ad essere grigia. Il cuoricino di Lettonia batte forte, distrugge le sue orecchie. Le lacrime non hanno il coraggio di scorrere sulle guance rosse, non solo dal freddo. Lituania è fermo, immobile nel suo corpo. Il fratellino si sente in trappola. Non vorrebbe che sia vero. Estonia è ancora fermo, un fantoccio inespressivo che osserva la scena.

Lettonia si alza, il cuore sbatte troppo forte sulle costole e sulla gabbia toracica. Fa un male cane là dentro e fa anche troppo caldo. Scuote il corpo con più forza, ma nulla, Lituania è ancora addormentato. Il cuore è in allarme. Il ragazzino non sa cosa fare. Vi è l’Inferno dentro al suo petto: fa troppo caldo, il cuore batte troppo forte, le costole si chiudono su sé stesse, imprigionando il povero cuoricino impazzito. Le lacrime sono bollenti, il naso inizia a gocciolare. Lettonia si sente confuso da tutto quel che sta succedendo. Non sa perché Lituania non si svegli. Forse si sente male. Alza gli occhi su Estonia, cerca aiuto dal più grande. Non ne riceve alcuno. Vuole aiuto, non sa cosa fare.

“Aiuto!” è bassa, troppo bassa la sua voce “Aiutateci!” ora è molto più forte, ma gracchiante come quella di un corvaccio. È orribile l’eco che percuote la foresta nera, non più silenziosa “Aiuto!” lacrime di bambino, voce di neonato. Lettonia odia la sua voce, ma è troppo confuso e ha troppa paura per moderarla “Aiutateci! C’è qualcuno!? Aiutateci, ve ne prego!” urla molto più disperate percuotono la foresta. Lettonia sente dolore al petto, gli fa troppo male. Anche lo stomaco si stringe su sé stesso, crea una morsa troppo forte. La saliva nella sua gola è troppo dolce. Ha una forte nausea, d’un tratto. Continua comunque a chiamare aiuto, disperato e straziante.

Estonia guarisce, le sue gambe hanno il coraggio di muoversi. Sono comunque pesanti, i suoi piedi, ma riesce a circondare la pozza rossa e nera. Si avvicina ai resti del fratello. La luna tocca le sue labbra, le carezza dolce, rivela un sorriso calmo sulle labbra di Lituania. Il cuore di Estonia da tempo dimentica di dover battere, il sangue congelato nel corpo non si muove. Ai piedi del moro c’è un libro. La mente dell’occhialuto è anch’essa fredda. Estonia si sente tradito da Lituania, forse è per questo che non sente nulla. Apre le pagine segnalate con un foglietto lungo e stretto. Legge le frasi sottolineate lievemente a matita.

Lettonia ha la voce molto più gracchiante e pericolante. Non ha nemmeno più la forza di chiedere aiuto. Le lacrime sono sale sulle guance. Pizzicano e le tirano, le strappano e gli fanno altro male. La gabbia attorno al cuore si è un po’ liberata, ma stringe ancora forte. La confusione gli fa girare la testa e lo stomaco. Sente di star per vomitare. Estonia smette di leggere. Le lacrime si liberano, il corpo si scongela, il cuore ritorna a battere, forte e maledetto. La sua mente è assente, presa dal dolore. Fa troppo male quel che sta provando. Il corpo si lascia andare. Si getta di fianco al fratello, ai suoi piedi. Le mani cercano un appoggio, lo trovano nel ginocchio del corpo morto. Le falangi stringono forte, dimentiche della rabbia, del tradimento, della frustrazione. Estonia ha solo dolore e non riesce a mandarlo via. Vorrebbe sbarazzarsene, fa troppo male. Lettonia si trascina vicino a lui.

“E-Estonia, cosa sta succedendo?” la voce stridente è piegata, si ode a malapena. Il fratello, comunque, sente la confusione e l’angoscia del piccolo. Il petto di Estonia cade verso terra, deve tenerlo fermo con le braccia per non far precipitare tutto il suo dolore.

“…è morto” mormora, con più forza di quel che credeva di poter usare. Non vede Lettonia, ma sa di sentire il suo stesso dolore. È bollente e brucia l’anima di rosso. Estonia non riesce più a piangere, troppo provato anche solo per sfogarsi. Nasconde il volto nel proprio grembo, si vergogna di farsi vedere così a Lettonia. Nello stomaco del più piccolo ritorna il freddo pungente. Dura poco questo sollievo, ritorna subito il caldo e il male al cuore.

“Ma cosa dici…!?” esce vapore bollente dalla gola del lettone. C’è una caldaia dentro di sé. Questa risposta lo ha reso più confuso che mai. Non è una risposta che lo soddisfa. La confusione è troppa, il desiderio di sapere è tanto. Quella è una bugia, è certo che sia una bugia “Che significa!?” Estonia non riesce e non vuole arrabbiarsi. Dentro di sé si è sciolto tutto e macchia di sangue bollente ogni piega del corpo. Si sente rotto e infuocato.

“E’ morto, Lettonia” la gola pizzica, le lacrime cadono nella neve, la sciolgono “Non tornerà mai più…” i denti del ragazzino si scoprono, la bocca è stata caricata troppo di saliva “Lo abbiamo perso per sempre…” qui la voce di Estonia smette di funzionare e il dolore prende il sopravvento su di lui. Lettonia ha le ginocchia molli, cadono di fianco al morto. Geme, la gola pretende di liberarsi. Se potesse, urlerebbe come ha fatto prima, ma i polmoni non hanno più aria. Si accascia vicino al braccio sfregiato del moro. Stringe quell’arto a sé, vorrebbe che il freddo di quella carne possa far smettere al suo petto di dargli così tanto dolore. Invano, l’effetto è il contrario. Il caldo e il dolore lo cingono.

Il rimorso si poggia sulle spalle di Estonia, seduttrice e maligna. Lo tormenta e lo azzanna lì, al collo, vicino alla testa. Per un attimo diventa sordo di entrambi gli orecchi, tanto è potente la sua angoscia. Tanto l’ha spezzato, tanto gli fa male. Si rivede riflesso nella pozza rossa. Rivede l’ultima volta in cui ha parlato col fratello, la prima e l’ultima volta che si sono picchiati. Si odia, Estonia, con tutto il suo cuore.

 

“Bene! Ti odio anch’io, spero che muori in fretta!”

 

No, ti prego, no… Non posso avergli detto questo. Non posso avergli fatto così male. Non posso essere stato io. Io non l’avrei mai fatto, mai a Lituania. Mai… Estonia scuote la testa, non credendo nemmeno ai suoi ricordi. Il rammarico è seduttrice, continua a morderlo coi suoi canini. Lo trafigge con la sua lama ramata. Le labbra del ragazzo sono ricolme di saliva, gocciola fuori, sulla neve, fa compagnia alle lacrime.

 

“Che Polonia ti porti via!”

 

Non gliel’ho detto io… Estonia continua a piangere, piegato sulle ginocchia del fratello morto. Non avrebbe mai giurato di avergli fatto così male. Guarda i tagli sulle braccia e si chiede quante volte si sia tagliato e perché abbia voluto farsi ancora più male. Probabilmente la disperazione del moro di non poter morire è stata tale che deve averlo fatto impazzire. Taglio dopo taglio, goccia dopo goccia. Così fuggiva e bruciava tra le fiamme la vita del fratello. Estonia non può ancora credere che possa aver detto quelle parole, che possa averle pronunciate proprio quel giorno, quella mattina.

Il cuore di Lettonia, chiuso per troppo tempo nella gabbia di ossa, si è rotto. Gocciola via il sangue bollente, non più tanto caldo. La confusione, collassata troppo, ritorna verso lo zero, ritorna normale. Il dolore c’è, ma è più controllato. Le lacrime, però, non potrà mai toglierle. Estonia prova ciò che prova il fratellino, ma il rimorso non potrà mai andare via. È sempre poggiato sulle sue spalle, continua a graffiarlo e a morderlo. Non ha detto quelle parole per davvero. Non può averle nemmeno pronunciate. Ora che Lituania è un vero angelo, cosa ricorderà di lui? Lui cosa ricorderà di Lituania? Quegli ultimi momenti saranno i soli che verranno impressi nella sua mente? L’unica cosa che ricorderà di suo fratello è il non avergli mai detto che gli voleva bene? Estonia piange, il dolore passa, ma il rimorso preme ancora nel suo cervello.

Estonia alza gli occhi, leggermente. Uno scintillio d’argento fa attirare i suoi occhiali alla mano di Lituania. Ora alza la testa, colpito, gli fa male la carne tra le ossa. Quello che stringe è il suo coltello. L’arma che ha usato è sua. La mascella cade, troppa è la sorpresa e la saliva tra i denti. Apre le dita fredde del fratello, prende la lama sporca. Le sue unghie stringono, tremanti, il coltello. Osserva il sangue freddo addossato su di esso. Il cuore scoppia, infelice, provato. Si preme, leggermente, una mano proprio lì, al centro del petto. Un’altra volta è stato la pedina che ha fatto cadere la vita di Lituania. Il senso di colpa è troppo forte. Geme. Gli fa male la gola. Non ha più rabbia, ne è sgonfio ormai. Il cuore non si ripara, non ritorna come prima. Gli tremano le dita attorno al coltello. Non vede dove, ma lo scaglia lontano. La lama luccica lontano, oltre i rami, tocca la luna e non si vede più. Estonia non la vuole più vedere. Continua a piangere.

Abbassa lo sguardo dal cielo, vede un bianco diverso. La divisa di Russia è sporca, in confronto alla neve. Estonia guarda il suo padrone, ma non lo vede. Si vergogna, abbassa la testa, non solo per il disagio. Ha ancora male al cuore. Russia ha occhi statici, spenti, opachi. Guardano anche loro, vedono chiaramente. È freddo, paralizzato nel suo corpo da gigante, dentro di sé il nulla. Il cuore fermo e il sangue immobile. La neve, i fiocchi, toccano la sua pelle e non si sciolgono, troppo fredda. Il vento è calato. Estonia ha gli occhiali bagnati e appannati, non vede bene. Sa che Russia si è avvicinato a loro tre, capisce che si china, rigido, sul libro. Ancora con sguardo basso e con gemiti in gola, avverte pagine mosse, dita lente e precise. D’un tratto, il gigante ritorna calmo, si scongela, ritorna autoritario. Le guance ridivengono calde, si sciolgono i fiocchi di neve sulla pelle bianca. Il libro scompare nella giubba bianca. Una mano senza guanto tocca il mento grigiastro del piccolo angelo. Lo alza leggermente. Se potesse, Lituania vedrebbe occhi umidi.

“Piccolo, sai meglio di me che non funziona” afferma, dolce, tranquillo, ma provato. I due fratelli alzano lievemente gli occhi sulla sua grande figura. Lituania non si muove ancora. Il tempo non scorre, i fiocchi si fermano. È diventato tutto statico, freddo, eppure, in qualche modo, confortevole. Ad Estonia la presenza di Russia conforta. Il sorriso del gigante bianco si spegne, amareggiato. Gli occhi caldi e umidi. Russia getta indietro le lacrime. Un battito di ciglia, all’unisono, prende i tre. Il tempo scorre ancora. Russia, ancora calmo, si fa spazio fra Lituania ed Estonia, quest’ultimo viene gentilmente spinto via. Poggia le mani dell’angelo in grembo, riesce a tenerle ferme. Una mano dietro la schiena, un braccio sotto le gambe. Il generale alza il corpo e inizia a camminare lontano, verso una direzione già conosciuta. I due Baltici, goffi, lo seguono, tristi.

“Signore, ve ne prego di lasciarcelo seppellire, in futuro…” Russia non apre bocca. Gli scarponi affondano, crudi, nella neve. La comprimono e la forzano per lasciarlo camminare. Russia è severo anche coi propri piedi. Estonia attende la risposta, aggiustati gli occhiali sul naso, puliti subito dopo. Lettonia è stanco, pensieroso, col cuore in gola. Non hanno più paura di Russia. Sanno di poter parlare con lui. Il generale si riprende. Continua il cammino, imperterrito. Sospira un attimo, non per lo sconforto.

“Estonia, perché dovrei seppellire un vivo?” Lettonia alza gli occhi. Brillano di un azzurro vivo, ceruleo e limpido. L’anima ha un dolce sobbalzo all’interno del corpo. Si muove, tocca le pareti della sua calda gabbia, eppure è un brillo di felicità. Batte forte il cuore, deve tenerlo fermo con le mani per non farlo cedere. Le guance supplicano di aprire un sorriso. Estonia ha l’anima crepata, dentro la propria gabbia troppo fredda. Si ferma, statica, muore il brillo di panico e rabbia. È diventata anch’essa fredda e pulsante. Il sangue circola male: spacca le vene ed esce fuori, insozza la carne fredda, cerca di renderla più calda, invano.

“E’…vivo?” un altro sospiro, più caldo, esce dalle labbra di Russia “M-ma… il libro di-diceva…”

“Quel libro è una bugia, Estonia” afferma, potente, Russia, più adulto e determinato “Dev’essere l’opera di qualche contadino malato per prendersi gioco di noi Nazioni” conclude, smette, desiderando di smettere. Gli scarponi ora carezzano la neve, più docili. Gli alberi neri cominciano a scarseggiare. Lettonia riconosce il punto dove hanno iniziato a cercare Lituania. Vede in lontananza la figura del cancello. Il cuore sospira sconfortato: non vuole tornare dentro la sua prigione. Osserva con la coda dell’occhio il sentiero che porta in città, senza neve, terriccio battuto sotto al ghiaccio. Vede le luci di Mosca in lontananza. Toccano gli occhi cerulei del ragazzino, li carezzano e li abbracciano. D’un tratto si sente triste, Lettonia.

“Davvero…?” chiede il ragazzino, comunque con l’anima inquieta per il sollievo. Guarda i capelli scuri, legati, di Lituania. Quelle luci ora sono poco importanti.

“Beh, se così non fosse, di sicuro non sarei qui con voi” dice, con voce dolce, un velo di ironia nelle note tra i denti. Un piccolo ago bianco affonda gentilmente nel cuore dell’estone. Ritorna il freddo e la staticità. Estonia alza gli occhi su Russia, non ricevendo risposte e nemmeno uno sguardo. Vede solo i capelli di cenere e la sciarpa bianca muoversi all’unisono col suo corpo troppo grande. Estonia vede Russia e, in qualche modo, lo sente più vicino a lui. Eppure sente più freddo di quel che gli dà la neve. Superano il cancello. Lettonia ha ascoltato e nota gli occhi provati del fratello maggiore. Non capisce. Chiude il cancello, lo serra come fa sempre. Lancia un ultimo sguardo alle luci della capitale. Non ha desiderio di pensare alla fuga. Ripensa piuttosto a quel che sta succedendo e anche all’ultima frase di Russia.

 

“Beh, se così non fosse, di sicuro non sarei qui con voi”

 

Serra il cancello, gli occhi si spalancano, la mascella cade. Comprende.

Estonia ricorda la prima volta che mise piede nella casa di Russia. Era un po’ più basso, ricorda. Più pauroso che rabbioso. Ricorda il dolore allo stomaco, la gola che bruciava, che chiedeva disperata qualcosa da bere. Ricorda la neve che entrava dentro, più timida di lui. Ricorda i fiocchi che si posavano sulle piastrelle dell’atrio, ricorda il silenzio scandito dal grande pendolo di quercia. Ricorda di aver avuto freddo solo nel vedere i soffitti, troppo alti per lui, per chiunque. Estonia ha una grande memoria, gli sembra di rivedersi, di rivedere e risentire gli stessi istanti. Ricorda, però, che Russia era felice. Ricorda la sua voce grande ed infantile chiamare Lituania. Ricorda il volto di suo fratello, la prima volta che si videro dopo anni ed anni. Ricorda lo scintillio azzurrognolo di speranza, le guance un po’ rosse, le ciocche scure dietro alle orecchie. Ricorda l’oro splendente che toccava il camino, gli argenti vivi sfiorati dalla neve come lame di luce. Estonia sospira, quello gli manca.

Procedono nel corridoio. La casa è fredda, cupa, triste. Ha qualcosa di malinconico, questa casa. Anche Lettonia nota la stessa cosa. Al ragazzino ricorda una vecchia foto sbiadita, abbandonata tra le pagine di un libro. È qualcosa di orribilmente distrutto e trascurato quel che sta vedendo. Guarda i soffitti alti e non si sente piccolo, indifeso, pauroso. Sono dei giganti già visti e sconfitti, forse in quel momento. Estonia guarda i soffitti e si sente più grande ed imponente di loro. L’occhio di Lettonia cade sulla sciarpa di Russia e poi sulla sua figura. Si sente un po’ più alto e forte. Estonia e Lettonia rimangono perplessi nell’entrare nella stanza di Russia, ordinata e pulita. Rimangono perplessi anche nel vedere il corpo di Lituania steso sotto le coperte, tolti i vestiti. A Lettonia pulsa una vena di speranza, nel guardare gli occhi profondi del suo padrone.

“Lettonia, per favore, vai nel bagno dove ti avevo curato e portami del disinfettante, un piatto pulito, non ha importanza quale, e delle bende. Poi vai nella camera di Ucraina e cerca un ago e del filo. Fai in fretta!” ordina, senza nemmeno voltarsi. Ad Estonia ritorna a battere una piccola paura, poco vicina al cervello. Quella paura per Russia stringe dentro al suo stomaco, gli fa rivoltare tutti gli organi dentro la pancia. D’istinto abbassa la testa, ritorna la sensazione di essere piccolo.

“Sissignore” Lettonia scappa per i corridoi, senza sapere bene cosa abbia intenzione di fare il suo padrone. Ha la consapevolezza sulla punta della lingua, ma non crede che sia possibile. La vena di speranza si espande anche nel suo cuoricino. Pulsa forte ed energica, felice e spensierata. Lettonia si sente stranamente felice e al sicuro. Estonia rimane sulla soglia, teso e nervoso. Il respiro fa fatica ad uscire dal naso e deve obbligare i suoi polmoni a far entrare e uscire aria. Il cuore è un garbuglio di emozioni. Russia, alfine, nota la sua presenza.

“Non stare lì, da solo. Vieni vicino a tuo fratello” tuo fratello… Estonia rialza il capo. Anche a lui pulsa una vena, più timorosa che speranzosa. Russia non li aveva mai chiamati fratelli. Estonia, confuso ed irrequieto, si avvicina, ansioso. Il russo sta facendo scivolare via dai capelli l’elastico nero di Lituania che, nel frattempo, nota con sollievo Estonia, ha cominciato a respirare. Non esce più sangue dai tagli sulle braccia, forse ne è finito. Russia gli leva l’elastico e lo poggia con cautela sul comodino, senza sciogliere il contatto che hanno i suoi occhi col petto fragile del ragazzo. Estonia, per tutto questo tempo, si sente inutile. La vena di timore comincia a sciogliersi lentamente per lo sconforto. Russia si ricorda ancora della sua presenza.

“Estonia, siediti qui vicino a Lituania. Lo farai stare bene” Estonia, ancora perplesso, ubbidisce. Per un attimo, la vena di timore si sarebbe ingrossata di nuovo. Si sente goffo in confronto a Russia. L’occhialuto poggia gentilmente il suo peso sul materasso. Ora vede bene suo fratello. Le uniche cose che sporgono sono la testa e le braccia tagliate. Se il sinistro ha squarci precisi, il desto è una ragnatela di spacchi, di carne rossa e viva. Estonia deglutisce: quelle lacerazioni lo fanno rabbrividire. La vena di timore si sgonfia totalmente, il respiro si tranquillizza. Ripensa a quel che è accaduto questa notte e…non riesce a crederci.

Non può crederci che Lituania si sia spinto a chiedere in ginocchio la morte per uscire da quella casa. La paura viene scacciata via da una docile fiammella di rabbia. Che egoista, pensa Estonia, più arrabbiato che triste. La fiammella brucia della carne attorno alla pelle del cuore. Un lampo d’argento fa brillare una lente degli occhiali. Ha voglia di svegliare Lituania a suon di ceffoni e di chiedergli il perché. Vuole sentirlo dalle sue labbra. Vuole sentire che è colpa sua se è arrivato a quel punto, che non è solo per la morte del suo migliore amico o per le furie di Russia. Vuole trovare altre mille ragioni per sentirsi pienamente in colpa. Vuole poi uscire fuori, al freddo, e buttarsi contro le mura della villa fino a quando non sentirà le sue ossa spaccarsi in tutto il corpo. Poi vorrebbe restare lì, da solo, e piangere come non ha mai fatto per anni ed anni. Vuole sentirsi come si è sentito Lituania, avere tutte quelle emozioni nel cuore. Così, almeno, può capire come si sente suo fratello. Così potrebbe comprenderlo. Così si sentirebbe più vicino a lui e potrebbe amarlo di più. Avrebbero se non altro una cosa in comune. Russia poggia una delle sue gigantesche mani sulla fronte del ferito.

“Sta bene?” Russia è troppo concentrato sul pallore di Lituania per voltarsi verso l’estone,ma, in verità, non vorrebbe nemmeno voltarsi. Estonia vede i suoi occhi violacei e pensa che non li abbia mai visti così adulti come ora. Li piacciono. Lo riscaldano, in qualche modo. Un lembo della sciarpa cade in avanti. Russia lo ignora, continua a passare la mano sulla fronte del ferito. Pare un po’ più bianca, la pelle di Lituania. Meglio del grigio di prima.

“Si, ha poco sangue, ma sta bene” dice, neutro, senza ironia o tristezza. Non riesce a dare espressione alla voce. La sente inclinata, fredda, per niente infantile. Russia per un attimo non si riconosce. Eppure, non si preoccupa. Questo nuovo lui non gli dispiace. Estonia, stranamente, non ha più paura di lui. Il russo inizia a sfiorare col polpastrello del pollice e dell’indice la fronte ghiacciata. Lituania sospira di sollievo, avverte il freddo delle dita del gigante. Crede che sia ancora fuori, nella neve, per questo è sollevato. Estonia tira anche lui un sospiro di sollievo. Il cuore batte ancora forte, ma è decisamente più docile e confortato di prima, di quando erano nella foresta. Riesce anche a sorridere leggermente. La luce sulla lente dei suoi occhiali è più morbida e sottile.

“Si, sta bene. Ed è anche felice” vorrebbe ripeterlo altre mille e mille volte, tanto è sollevato. Lituania sta bene e non sta morendo. È una cosa bellissima. La colpa non è sua. Va tutto bene e andrà tutto bene. È felice per questo “Mi preoccupo per poc-…”

“No, non va bene” esclama, serio, Russia. Estonia sobbalza, sorpreso. Un sottile ago l’ha infilzato dietro la schiena, pungente e bollente. L’ha fatto fare un gran sobbalzo. Il materasso segue i suoi movimenti e crea delle onde d’impatto. Il cuore ritorna di ghiaccio, la luce tenue sulle lenti svanisce, ritorna il buio della stanza. Russia ritorna un gigante cattivo. Gli occhi di Russia lo trafiggono in due. Una calma distorta s’impossessa di entrambi. Estonia ricorda di avere il terrore di quel gigante bianco. Il viola che gli piaceva prima ora lo atterrisce e lo terrorizza. La lama di luce s’impossessa dei suoi occhi profondi. Estonia vede un tornado maledetto che lo afferra e lo sbatte dentro il vortice di stasi.

“Non capisco, signore” dei filamenti di sudore colano dalla fronte dell’estone. Sente caldo, di punto in bianco. Sente un pericoloso vuoto dentro di sé. Il generale non risponde, non smuove gli occhi da quelli di Estonia. Il ragazzo sente le gambe tremare, fanno altre onde sul materasso. Gli occhi del russo smettono di disturbare i suoi blu e si concentrano sul piccolo Lituania, sereno, beato però del caldo delle coperte. Russia, per un attimo, lo invidia. Pensa che Lituania dovrebbe essere sempre felice come ora, ma non per questi motivi.

“Sai perché è felice, Estonia? Perché pensava di poter scappare dalla vita e di non tornare più indietro. Pensava che avrebbe potuto essere felice in un altro posto e non qui” Estonia è statico, si sente intrappolato nel suo corpo. Il respiro smette di entrare nei polmoni, anche il cuore è in arresto. Russia sente rabbia nella propria voce, ma non pensa che dovrebbe fermarla. Sarebbe da ipocrita, sarebbe come il mostro che ha sempre conosciuto. Non vuole più vedere quel mostro, mai più. Vorrebbe però dare una lezione ad Estonia. Dopotutto, la punizione non può tardare.

“Sai cosa vuol dire, Estonia? Che lui odia stare qui con voi, in questa casa, a Mosca” con me, vorrebbe aggiungere, ma pensa che ora sia poco importante “E sai il perché? Perché l’abbiamo spezzato in due: io, tu, Lettonia e probabilmente anche le mie sorelle hanno dato un piccolo contributo” Russia ha come una rabbia repressa nella sua voce calma e dolce. Estonia non la vede, ma la sente lungo la spina dorsale ed è ghiacciata. L’ira di Estonia rabbrividisce di fronte a quella di Russia. La sua furia è gelida, congela invece di bruciare. È invisibile, strisciante, insidiosa. Non si fa sentire con gesti eclatanti, ma con fredda e calcolata inerzia, grazie a parole calde e buone, occhi pacati e docili, suppliche di perdono ignorate dalle sue vittime. Forse Russia mostra la sua rabbia dietro alla maschera di un sorriso perché, semplicemente, è la sua vera natura essere infantile e bambino. Agisce come il tagliagole che è sempre stato fin dai tempi degli zar. Diventa falsamente gentile, si avvicina piano, ti carezza e ti conforta con parole e sorrisi, attende che tu possa affidarti a lui. Poi, strappa via tutte le tue speranze di fuggire o di nasconderti. Russia applica da secoli lo stesso metodo ed i Baltici lo conoscono così bene da saperlo a memoria. La cosa peggiore è che Russia non usa sempre lo stesso sistema, ma si arricchisce creandone altri, con le stesse basi, ma con approcci diversi. I tre fratelli non sapevano mai come difendersi e, semplicemente, non lo facevano. Attendevano che accadesse e basta. Russia non lascia scappare nessuno e se te lo lascia fare è solo per allungare ancor di più il suo interesse e divertimento. Estonia impallidisce mentre Russia si alza e si avvicina a lui. Estonia ha paura: è passato molto tempo dall’ultima volta in cui Russia si è sfogato con lui. Da seduto, sul materasso morbido, Estonia si sente ancora più piccolo ed indifeso. Non potrebbe scappare nemmeno volendolo. Il cuore pompa molto più sangue del normale. Gli occhi tremano nell’incontrare quegli di Russia.

“Sai, Estonia, perché è tanto triste Lituania di stare qui? Perché siete dei pessimi fratelli, voi Baltici” il respiro di Estonia si blocca, le iridi diventano piccoli spilli: il gigante ha poggiato le grandi mani sulle sue spalle. Estonia si sente comprimere, le mani da gigante sono forti e cattivi “E sai perché siete dei pessimi fratelli? Perché Lettonia pensa solo a sé stesso, non è abituato a pensare a qualcuno che non sia lui. E tu, invece, hai sempre desiderato essere solo, Estonia? No, certo che no” chiede, sorride, finge di essere calmo. Vorrebbe urlare, ma così tutto ciò che sta facendo sarebbe vano. E poi, non vuole sfogarsi e basta “È perché sei debole, Estonia” qualcosa in ciò che ha pronunciato lo rende felice. È qualcosa di crudele e maligno, ma lo rende ugualmente allegro. Tra le labbra brilla una zuccherosa risata “Sei talmente debole da non riuscire a pensare a qualcuno che non sia tu. Ma sei così debole da non riuscire nemmeno a difenderti da solo” Russia sa quanto facciano male queste parole, per questo continua, ignora i singhiozzi del ragazzo. In un certo senso, gli fa piacere che tremi. Lo fa sentire meglio “Tutta questa debolezza è così ridicola che non vale la pena nemmeno sfiorarla” sorride, Russia, gli accarezza una guancia umida, con un’ironica coincidenza nelle sue parole e nei suoi gesti. Ha un sorriso così caldo da investire il cuore di Estonia, piegato in due per Lituania. Il ragazzo vorrebbe abbassare la testa, si vergogna come mai in vita sua. Arrossisce per la vergogna, le lacrime sporgono dalle iridi blu, il corpo trema con più forza. Si sente un insetto piccolo ed insignificante. Estonia vorrebbe dimostrargli il contrario, a costo di diventare un’interessante giocattolo per Russia. Vorrebbe sprofondare, tanto si vergogna di sé stesso, di farsi vedere così debole. Vorrebbe che Russia stia zitto. La vena di ira che cresce in lui è insignificante quanto lui stesso. Si chiede perché debba essere il suo crudele padrone a sputargli la verità in questo modo. Estonia lo sa. Russia ha in mano la sua vita. Potrebbe gettarlo via come un giocattolo rotto. Al suo padrone non importerebbe di lui: ne prenderebbe un altro più carino, più interessante. A Russia non importa di lui, potrebbe spezzargli il collo e abbandonarlo in uno sgabuzzino. Potrebbe dimenticarsi di lui e lasciarlo morire al buio e al freddo. A Russia, dopotutto, non importa di lui.

“L’angelo che ora sta dormendo in questo letto è stato molto più interessante di te, un avido cinico e debole, e del tuo secondo fratello, un piccolo ingrato che trema nei suoi patetici stivali. Anche messi assieme” il cuore del più piccolo smette di battere per un istante. Si scioglie, Estonia lo sente sciogliere, vergognoso, confuso e bisognoso di aiuto “Siete delle piccole e disgraziate formichine, tu e Lettonia. Potrei vendervi per mezza bottiglia di vodka finlandese, se lo desiderassi” lo stomaco del ragazzo s’irrigidisce e si contrae. Il cuore è pesante e duro come la pietra. Le lacrime continuano a scendere. Non riesce a fermare i singhiozzi. Si vergogna moltissimo. Russia continua a parlare, calmo per davvero questa volta, facendo dei cerchi coi pollici sulle spalle di Estonia. I gemiti dell’estone lo fanno sentire bene. Gli riempiono il cuore di pace. Gli piace vederlo così mortificato. Involontariamente allarga il sorriso. Per un attimo ritorna crudele.

“Siete talmente piccoli ed insignificanti che potrei uccidervi soltanto perché non arriva una nuova guerra con cui divertirmi. Ma sai una cosa? Non varrebbe la pena farlo, siete così privi di significato da non essere divertente nemmeno spezzarvi in due le ossa. E vuoi sapere un’altra cosa? Non vale nemmeno la pena parlare con delle formichine così piccole e fastidiose: non è né divertente né interessante” ora Estonia sta piangendo per davvero. Le lacrime sbattono la sua testa in avanti e indietro. Si sente come ha detto Russia: piccolo, cinico, egoista, patetico, insignificante. Il vuoto dentro di sé si fa ancora più cupo. Vorrebbe arrabbiarsi con Russia. Vorrebbe avere abbastanza coraggio per dargli, o almeno provare a dargli, un calcio o un pugno. Vorrebbe tante cose che non può avere. La testa di Estonia cade in avanti, troppo pesante, e le lacrime gocciolano sul pavimento, oltre le ginocchia piegate e la morbida coperta bianca. Russia gli lascia le spalle. Probabilmente si è già annoiato di lui. L’estone vorrebbe scappare da quella stanza, da chiunque e non farsi vedere da nessuno. Si sente umiliato e debole. Arrabbiato e confuso. Non capisce bene perché pianga così tanto. L’intero corpo si scuote per il pianto. Vorrebbe che il buon Dio lo fulmini, vorrebbe sparire dalla cartina geografica e non tornare più. Forse così anche Lituania sarebbe felice. Avrebbe una ragione in meno per ritentare il suicidio.

Dolci passettini veloci, di bambino. Estonia ferma il pianto, umiliato fin dentro le carni. Lettonia entra nella stanza con tutto ciò che Russia gli ha ordinato di cercare. Poggia ogni cosa sul comodino, vicino al suo padrone. Russia gli sorride, un sorriso vero, non pensava realmente tutto ciò che disse del lettone. Lettonia volta leggermente la testa. Avrebbe voluto guardare la salute di Lituania, ma le lacrime di Estonia gli bloccano le iridi. Una lontana domanda gli giunge alle orecchie, ma Estonia non riesce a sentirla, troppo preso dal tremito di pianto e dalla voglia di cambiare. Si odia.

Russia prende l’alcool col quale bagna il piattino. L’ago e il gomitolo di filo vengono inzuppati nel liquido trasparente. Il silenzio di stasi è più caldo e confortevole. Forse perché Russia non fa del male o forse perché c’è il piccolo Lettonia. Con un’insolita precisione, Russia penetra l’ago sottile tra i tagli di Lituania. Lettonia ci prova, ma distoglie lo sguardo, quel che vede gli fa troppa impressione. Nota che Lituania non sembra dar peso al dolore dell’ago nella sua pelle, sospira felice, come se quei fili nella sua carne siano piacevoli, e continua a dormire. Russia procede il suo lavoro anche sull’altro braccio, cuce la carne come morbida stoffa di bambole. Lituania è una piccola bambola da cucire e rammendare. Da riparare ed accudire.

“Puoi essere più di così, Estonia” dice il russo, continua a chiudere i tagli più profondi. Estonia alza gli occhi, sgonfi dalle lacrime e dall’umiliazione. Muore dalla tristezza e dallo sconforto. Quasi, pensa, che Lituania abbia avuto una buona idea. Dopotutto, non esiste altra via d’uscita in quella casa. Chiude le palpebre, maledicendosi per i propri pensieri.

“Lettonia, tu vuoi bene a Lituania?” il piccolo, sorpreso per la domanda e non avvertendo alcun pericolo, si mette sull’attenti. Gli occhi cerulei brillano di amore. Il ragazzino ama il sorriso adulto del generale, lo fa sentire lui stesso un adulto. Annuisce più volte, nelle vene sangue di coraggio.

“Si, signor Russia, moltissimo”

“Bene, è una buona cosa. Te lo chiedo perché devi farmi un grande favore, anche tu, Estonia” l’eco della voce del russo tocca le orecchie di Estonia, ancora umiliato, ma calmo e rasserenato “L’avete visto: Lituania sta male, molto male” l’ago purificato e scintillante affonda dolcemente nella carne, attende di poter entrare e ci sprofonda dentro, calda e rilassata “Per amor suo, stategli vicino, voletegli bene, cercate di amarlo: è importante, quando si ha un fratello” l’ago chiude una ferita, Russia tira leggermente il filo, la carne si ricongiunge con la gemella strappata e martoriata “Siate più uniti e fedeli fra di voi. Non devo spiegarvi cosa fare: arriva dal cuore, non dev’essere un obbligo a cui devo legarvi. Cercate di volervi bene fra di voi. Lettonia, prova ad essere più coraggioso” il piccolo, anche se molto scosso, annuisce. Non aveva mai sentito delle parole così dolci e vere da Russia. Anche se non glielo avesse chiesto, l’avrebbe fatto ugualmente. Aveva promesso a Lituania di essere più forte, molto più forte, e di stargli vicino. Avrebbe ucciso tutti i suoi mostri e li avrebbe cacciati via. L’aveva promesso anche a sé stesso. Non può dimenticare la morte dei suoi soldati e del suo popolo. Anche se un piccolo passo, vorrebbe farlo. Anche per sé stesso. Anche per Estonia.

“Si, signore”

“Estonia” il Baltico irrigidisce la schiena, i tremiti smettono di percuotere le spalle “Dimostramelo, Estonia, dimostramelo” dimostrami di essere interessante, legge il ragazzo negli occhi violacei “Anche se non puoi difendere nemmeno te stesso, potresti almeno provare a difendere qualcun altro” dimostramelo, Estonia, dimostrami di poter essere un fratello, vorrebbe dirgli Russia. Lettonia nota lo sguardo del padrone. E’ confuso per non aver ascoltato la conversazione tra i due. Estonia, ancora con le lacrime agli occhi, annuisce. L’umiliazione è viva dentro di sé, ma la ignora, fin troppo orgoglioso e provato. Russia, soddisfatto, annuisce lui stesso, fra sé e sé. Chiude l’ultima ferita e coi denti taglia il filo. Usa le bende e le avvolge tra le braccia ferite del lituano. Russia si alza dal letto e prende la sua giubba.

“Fino a quando Lituania non si sentirà meglio, userete questa stanza: è molto più calda e confortevole. Io vado a dormire nella camera degli ospiti, se avete bisogno di qualcosa. Buonanotte, piccoli” senza dare altre spiegazioni, il generale esce dalla stanza e chiude la porta. Lascia la chiave nella serratura. Qualche secondo di stasi passa, qualche minuto percorre la sua schiena di un freddo invernale. Si stacca dalla porta, si volta e cammina. Sospira, cerca di far passare tutta l’ansia e la paura. Cammina tra i corridoi cupi. Trova il salotto, la sua biblioteca, la sua poltrona. Ci si getta sopra. Il suo pesante corpo sprofonda leggermente nella morbida pelle. Il sollievo, trattenuto fino ad ora, lo percorre in tutto il corpo. Passa le mani aperte sul viso, in qualche modo riesce a gettare via tutta l’ansia.

Finalmente gliel’ho detto, pensa. Aveva quelle parole sulla punta della lingua da quando aveva in casa i tre Baltici. Non si pente di aver fatto scoppiare in lacrime Estonia e nemmeno di avergli raccontato la verità in un modo così crudo. Era giusto fare il primo passo, il resto passava a loro tre. Dentro di sé spera che le cose cambino e non solo in quella casa. Da tempo Germania e Prussia stanno fermi con le loro mosse, dopo i bombardamenti di Londra. Sospetta qualcosa, ma ora non gli importa.

Nel caso accadesse, sarebbe una buona occasione per i Baltici per unirsi, pensa. Ma ora non vuole più pensare ad altro: ha sonno e vuole dormire. Eppure, ricorda, la sua giubba è più pesante di quel che ricordava.

Ricorda il libro, rivede la forma impressa nel bianco della casacca. Lo fa uscire fuori, un mucchietto di pergamene intrecciate con dello spago. Decisamente, da giovane non era pratico di libri. Lo gira e rigira fra le mani. Non avrebbe dovuto rubarlo a Cina, ma il disperato è ladro nel momento del bisogno. Eppure, da ragazzo aveva sperato tanto in quelle parole… Non vuole pensarci. Nel camino scoppia del carbone ancora acceso. Una fiammella s’intreccia con la carta antica. La inghiotte, ingorda, tutta in bocca. Ancora affamata, continua a mangiare, sbrana anche i fili e la pelle della copertina. Russia assiste al banchetto delle fiamme. Continua ad osservare il fuoco nel caminetto. Ma è troppo stanco. Le palpebre sono troppo pesanti e la poltrona è troppo comoda…

Estonia e Lettonia si svestono e si adagiano dentro al letto dov’è sdraiato Lituania. Russia aveva ragione: quella stanza è calda e confortevole rispetto alla loro. Lituania sospira di sollievo, dopo che i fratelli si erano stretti vicino a lui. Entrambi non vogliono e non riescono a pensare a nulla in particolare. C’è vuoto nel maggiore, speranza nel più piccolo. Estonia vuole dimenticare tutto e vorrebbe cambiare. Avrebbe dimostrato a Russia che non è insignificante e, soprattutto, l’avrebbe di nuovo dimostrato a sé stesso e ai suoi fratelli, pensa a queste cose mentre poggia gli occhiali sul comodino. Lettonia, d’istinto, passa un braccio sopra al petto del fratello ferito. Lituania risponde con un altro sospiro felice. Anche Lettonia è felice.

“Senti, Lettonia, non so tu, ma io non voglio che succeda più una cosa del genere” afferma Estonia, serio. Lettonia è sorpreso dall’affermazione dell’estone, ma annuisce anche lui.

“Io pure. Non ci sarà una prossima volta” si stende più in profondità nelle coperte, decisamente più morbide delle loro “Questo è per Lituania. E anche per noi” afferma, solenne. Estonia è felice per queste parole. Dopo anni ed anni, vuole bene a Lettonia. Annuisce, commosso. È anche per lui. E’ anche per la sua dignità. E’ anche per suo fratello. Per i suoi fratelli.

“Buonanotte, Lettonia”

“’Notte, Estonia” il più piccolo ci pensa un po’ su. Alza il busto, raggiante, verso il maggiore dei tre, in mezzo a loro.

“’Notte, Lituania” lo bacia sulla guancia. Lituania fa un altro sospiro di sollievo, come se desiderasse un altro contatto, un altro bacio. Lettonia si sdraia e, in pochi minuti, si addormenta. Estonia rimane sveglio, a fissare il fratello. Sembra calmo, ma non è la calma che ha visto nella foresta. È… diverso. Spera che siano loro il motivo della sua felicità. Lituania sembra contento ed Estonia, inconsciamente, è felice anche lui.

“Buonanotte, Lituania” si avvicina e gli bacia l’altra guancia. È tiepida e un po’ ruvida, ma gli sta bene così. Vorrebbe che Lituania possa sentirlo. Lo renderebbe felice. Vorrebbe che sapesse del suo pentimento. Vorrebbe dirgli che gli vuole bene e che non lo odia per davvero.

Ora si che sembra tranquillo, nota Estonia, vedendo un chiaro sorriso tra le labbra del maggiore.

 

 

 

 

 

Sa che non è il Paradiso, se lo fosse non sentirebbe dolore. Né il freddo. Né il buio. Nemmeno il corpo rigido straiato chissà dove. Ma sente le mani di Polska su di lui. Le sue dita morbide carezzano il mento e il collo. Lo fa sentire al caldo e protetto. Mostra di più il collo, vuole altre carezze. Non ricorda quando ne ha ricevute l’ultima volta. Apre gli occhi. Capelli di grano. Labbra di bambola. Polska gli sembra bellissimo. D’istinto sorride. Sente le ginocchia del suo amico, dure e sottili, sotto la sua testa, ma non gli importa. Polonia è incredibilmente bravo ad accarezzarlo. Si sente molto più leggero. Potrebbe spiccare il volo come una colomba, se potesse.

“Nel libro c’era scritto anche che, se il procedimento avesse potuto avverarsi, avrei dovuto avere l’aiuto di un fantasma, di un defunto, in modo che questo avesse potuto staccare l’anima dal mio corpo e così portarmi nell’Oltretomba” Polonia continua ad accarezzarlo, ma il suo sorriso muore. Ha occhi di lince, severi e calmi, quasi calcolatori. Lituania non è abituato a vederlo sempre così teso. Ma gli piace anche questo Polska. È, in qualche modo, più comprensibile a lui. Ma gli manca comunque il suo sorriso. Gli manca quel po’ della sua follia. Afferra la sua mano, ferma sulla sua guancia. Polonia è inflessibile, ma timido con gli occhi. Lituania sorride “Perché non l’hai fatto?” Polonia stringe gentilmente la sua mano ossuta. È fredda, ma riesce a riscaldarla. Non deve nemmeno riflettere per rispondere.

“Ti amo troppo per volerti uccidere” Lituania risponde alla carezza dell’amico. Col pollice sfiora le mani di bambino, fino al polso e lì si ferma, intenerito. Schiude le labbra, escono perle bianche tra i denti.

“‘Amo’, Polska?” a Polonia piace la risata di Liet. Non la sente da anni, così vera e felice. Non si vergogna per quel che ha detto. Gli occhi diventano umidi per la gioia. Liet è guarito. Liet è di nuovo vivo.

“Se ti volessi solo bene, allora non avrei mai fatto…tipo, tutto questo per qualcuno” il corpo del lituano sobbalza per le troppe risate. I denti brillano come gemme, Polska ama i denti di Liet quando ride e sorride. Ama anche i suoi occhi blu. Ama il suo animo di angelo. E, ironia, fra poco diventerà anche lui un angelo. O un demone. Il sorriso s’incupisce, il velo di lacrime sugli occhi diventa più spesso. Gli smeraldi di Polonia brillano forti. Non vuole lasciare Liet. Non vuole… Ma deve. Lituania alza gli occhi. Vede delle piume di rubino, scure e forse anche nere. Sente il fischio di un volatile, vicino a loro. Qualcosa dentro di lui comprende. E accetta. Accetta quel che avverrà. Sospira, comunque felice di avere lì Polska.

“Ora devi andare via?” Polonia sa già che Lituania sa, eppure sobbalza. Non vuole andarsene. Ha troppa paura del futuro, di ciò che gli avverrà. Ora che sa e ha capito così tante cose di sé stesso, non vorrebbe essere giudicato e castigato per essere stato cattivo con Liet. In realtà, con chiunque. Lituania vede il velo umido degli occhi di Polska. La mano si alza, leggera, sulle guance bianche. L’indice raccoglie una lacrima splendente. Polonia segue con le dita le nocche di Liet. Stringe ancora la sua mano. Non vuole lasciarlo, anche se non ha più bisogno di lui. Annuisce, cupo. I capelli ondeggiano, s’impigliano fra le loro dita. Non vuole andare via. Anche Liet ha la lacrime nelle iridi blu. Ma sorride comunque, vuole troppo bene a Polonia.

“Andrà tutto bene, Polonia” il biondo tira su le lacrime, orgoglioso anche ora “Secondo te dove andrai?” colpito nel cuore, scagliata la freccia congelata. Polonia arriccia le labbra, sta per piangere e non vorrebbe. Anche Toris lo osserva, di fronte a loro, forte, severo. Più grande, più elegante. Lituania attente, tocca i capelli di grano, ci passa le dita “Non sei stato cattivo, Polska. Quindi andrai in Paradiso” le labbra dell’amico si arricciano ancor di più verso il basso, gli occhi schiusi e umidi. Sporgono i denti e i sospiri di tristezza. Liet non sa quanto sbagli.

“Non lo so, Liet. Non so dove andrò. Potrei anche andare in Paradiso, ma non ne sono totalmente sicuro. Forse in Purgatorio, o magari all’Inferno, dato che sono stato cattivo con te…” singhiozza la sua voce. Vede gli occhi di Toris e capisce che il tempo è poco. Sente l’aria mancare, anzi, non sente proprio nulla. Tra poco dovrà andare via. Non vedrà mai più Liet.

“Ma… non è vero. Io ho tanti bei ricordi di te, di noi” sussurra il lituano, forse molto stanco e provato per tutto ciò che gli è accaduto. Polonia si sente colpito, affonda ancor di più la freccia ghiacciata. Brillano gli occhi. Si sente meravigliato. Ma questo non sconta il suo peccato. I capelli si muovono verso il basso, sfiorano la fronte dell’amico. Lituania sente sul suo capo, vicino ai capelli, delle labbra calde, morbide, vive. Polonia profuma di mirtilli e di fragole. Sa di buono e dolce. Lentamente il contatto si spezza, come il cuore del principe. Toris è cresciuto, è quasi più grande e possente di lui. Si posa sulle sue spalle. Sbatte le ali. Solleva la piccola nazione polacca. Polonia accetta quel che gli sta accadendo, nonostante la paura, nonostante tutti i suoi peccati. Sa solo che deve sorridere.

Dopotutto, è per Liet.

 

 

 

 

 

“Almeno promettimi una cosa…”

“…?”

“Promettimi che tornerai”

“Se tu prometterai di aspettarmi”

“Lo farò”

“Per quanto riuscirai ad aspettarmi, Liet?”

 

 

 

 

 

“…per sempre…”

 

 

 

  
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