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Autore: ellephedre    16/03/2009    14 recensioni
Un anno e mezzo dopo la battaglia con Galaxia, Ami Mizuno ha davanti a sé una lunga vita, un destino da guerriera Sailor e paure che preferirebbe dimenticare. Ma incontrerà chi la costringerà ad affrontarle. A vincerle.
"Ami Mizuno aveva capelli tanto scuri e lucenti da aver passato il limite del nero. Erano blu i fili corti che le adornavano la testa, schiariti da un sole che aveva deciso che il colore della notte era troppo cupo per lei. Una spiegazione romantica, a giustificare la differenza con le chiome corvine dei suoi genitori.
Sailor Mercury aveva il colore dei capelli di sua madre. Un poco più scuri, una differenza quasi irrilevante. Il taglio degli occhi era identico: grandi occhi dolci, le avevano detto le sue amiche, con lunghe ciglia e palpebre vispe che non si sarebbero mai azzardate a pesarle sullo sguardo. La bocca. Le era sempre piaciuta. La luce artificiale faceva brillare il rosa scuro delle sue labbra come un frutto maturo e delicato; il sole le donava la tonalità di un bel fiore in boccio."

Oltre il quarto capitolo la storia continua con delle scene.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ami/Amy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la fine
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Oltre le stelle Saga' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Acqua viva
Acqua viva

Autore: ellephedre

Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.


Quando udì delle voci femminili che si avvicinavano, Alexander alzò brevemente lo sguardo.
Nelle tre ragazze che uscirono dalla scuola non scorse né capelli né occhi blu, perciò tornò a leggere il suo libro. Pochi secondi dopo, lo raggiunsero i loro mormorii divertiti. Passandogli accanto le ragazze cercarono di moderare il volume delle risatine.
Lui evitò di scuotere la testa.
Almeno avevano tenuto bassa la voce. Nelle due ore passate, non molte altre persone avevano avuto la stessa attenzione.

Ci era abituato, ma non c'era nulla come un istituto superiore che lo riportasse dritto dritto in un universo fatto di giudizi facili e persone da inquadrare ad ogni costo in uno schema. Per gli studenti di quella scuola, ad una prima occhiata, lui era solo un gaijin, uno straniero che non poteva capire una sola parola di giapponese.
 Capelli castano chiaro, occhi azzurri e molto più alto della media locale: quella era la sua natura e, in alcuni casi, la sua dannazione. Da quando aveva smesso di essere uno studente, abbandonando l'uniforme scolastica d'ordinanza, non c'era stato più nulla che non lo facesse passare automaticamente per un turista.
Girò la copertina del libro che teneva in mano. Era persino abituato a leggere in inglese. Non aiutava la propria causa.
Non disdegnava la narrativa giapponese, ma forse in quel campo più che in altri si faceva sentire forte il richiamo delle sue origini anglosassoni.
Squillò il telefono che portava dentro la giacca.
Quell'apparecchio non gli piaceva molto: era ancora troppo costoso per essere un oggetto di uso comune e le uniche persone con cui poteva comunicare erano i suoi genitori. Oltre naturalmente a...
Premette il pulsante di risposta e portò il telefono all'orecchio. «Ciao Nanny Shoko.»
«Ciao Alex. Torni a casa per cena, oggi?»
«Sì.»
«C'è qualcosa che preferiresti mangiare? Tua madre mi ha chiesto di domandartelo.»
Lui ne immaginò il motivo. «È un tentativo di farmi digerire meglio una cena tra amici
Gli amici di lei erano sempre gente nuova e conosciuta da poco.
«... sì.»
Col tono Nanny Shoko si scusava per colpe altrui. Come se potesse farci qualcosa.
Lui fu tentato di dirle che preferiva mangiare fuori, ma - rifletté - lo aveva già fatto per quasi tutto il resto della settimana, tra studio e momenti di svago. Per quanto lo infastidisse dover condividere un momento di tranquillità con persone semisconosciute, sua madre era sempre particolarmente felice quando era presente anche lui alle sue cene. L'ultima volta che l'aveva accontentata era stato... Fece mente locale. Diverso tempo prima. Non ricordava nemmeno quando.
Diavolo. «Vorrei del riso, carne rossa e insalata. Ma se tu hai troppo da fare, posso-»

«Non sono mai troppo occupata per il mio ragazzo.
»
A ragazzo si sarebbe potuto sostituire bambino. Nanny Shoko adorava prendersi cura di lui e non faceva niente per nasconderlo.
«Va bene. Ci vediamo dopo.»
«A stasera.»
Lui chiuse la comunicazione e rimase ad osservare la scritta visualizzata sul display del telefono portatile.
Nanny Shoko.
Forse non poteva aspettarsi che lei lo considerasse un adulto, se continuava a chiamarla in quel modo.
Quell'appellativo però le piaceva, no? Shoko Kaiba si era affezionata al termine inglese sin dalla prima volta che glielo aveva sentito in bocca e ne aveva incoraggiato l'uso. Lui, bambino di sei anni lasciato per la maggior parte del tempo da solo con lei, aveva imparato a chiamarla così. E a volerle bene.
Nanny Shoko era stata una madre per lui quasi più della sua stessa madre. I figli di lei a volte gli erano sembrati i fratelli che non aveva mai avuto.
Gli sarebbe potuta andare molto peggio, lo sapeva. Stranamente, i suoi genitori avevano dimostrato una singolare capacità di giudizio nella scelta della sua prima e unica tata giapponese. Non che non l'avessero, in altri campi: la sua irresponsabile madre sapeva tutto sulla moda e su come organizzare party. Suo padre, invincibile stacanovista, conosceva i suoi consigli di amministrazione ancora meglio delle macchine che amava collezionare. Pur nei loro evidenti difetti, erano entrambi persone a posto, persino affabili e divertenti quando volevano, per quanto la descrizione si adattasse maggiormente a sua madre. Suo padre era divertente solo quando abbassava la guardia; accadeva sempre in momenti rari.
Suo padre e sua madre, in un modo che gli risultava incomprensibile, funzionavano come coppia.

In qualunque modo la si volesse vedere, una cosa era certa: non erano mai state persone destinate a diventare bravi genitori. 
Negli anni lui lo aveva più volte percepito, e riteneva fosse normale provare una certa acrimonia nei loro confronti, un poco di risentimento che usciva soprattutto quando litigava con loro.
Per fortuna, da quando era diventato grande, la relazione coi suoi genitori aveva preso una piega migliore: Michael e Eve Foster non erano mai stati bravi a dialogare con un bambino -  o con un adolescente in fase di ribellione -  ma una persona adulta la potevano capire.

Il legame che lui aveva costruito in quegli anni con loro non sarebbe mai potuto esistere se Nanny Shoko non fosse entrata nelle loro vite. Chi altro avrebbe osato dire a suo padre che doveva interessarsi di più di lui? E se non ci fosse stata Nanny Shoko, sua madre non avrebbe mai imparato a farsi rispettare come genitore. E lui... Lui sarebbe rimasto convinto a vita di non meritare l'attenzione di nessuno, visto che i suoi genitori - sponteneamente - non erano capaci di dargliela. Sua madre lo adorava, ma quando si trattava di parlare tra loro la sua attenzione vagava rapida. I bambini l'avevano messa a disagio, in fondo ancora la annoiavano. Suo padre era più drastico: lo annoiavano le persone, a meno che non dovesse farci affari. Se ascoltava suo figlio a cena - se era presente a cena - era già un successo.
Aveva pensato Nanny Shoko a rimetterli in riga il più possibile, e senza farsi licenziare. Vedere che lei riusciva a rimproverarli - senza farlo davvero, poiché Shoko Kaiba era sottile e furba - aveva insegnato ad Alexander che non era lui ad essere sbagliato, ma i suoi genitori - gli atteggiamenti che tenevano nei suoi confronti, almeno, quando lo ignoravano. Shoko aveva insegnato a tutti ad essere una famiglia, e aveva gestito i loro orari - e i loro incontri - in maniera perfetta per molti anni.
Non era forse per le sue abilità che continuava a lavorare in casa loro? Lui non aveva più bisogno di una tata da tempo. Come governante lei si era dimostrata altrettanto brava e lui era stato felice del nuovo ruolo che aveva permesso a Nanny Shoko di rimanere con loro, in sostituzione della vecchia governante che era andata in pensione. La signora Ichigo poi non gli era mai stata particolarmente simpatica.
Dall'edificio scolastico stava uscendo un altro gruppo di studenti, questa volta tutti maschi.
Alexander non si disturbò nemmeno a guardarli, ma loro guardarono e commentarono lui.
Cosa ci fa uno straniero qui?
Magari è venuto a trovare qualcuno.
Zitto che ti sente.
Tanto non capisce.
Anche uno straniero capisce che parli di lui se lo guardi.
Corretto. Il resto erano affari suoi.
Era in momenti come quello che gli mancavano i vantaggi di un anonimo aspetto giapponese. In passato non aveva mancato di desiderarne uno, di tanto in tanto. Ma, dal momento che la genetica non era un'opinione, da una madre ex-modella americana e da un padre inglese poteva uscire solo qualcosa che in un paese come il Giappone sarebbe stato tutt'altro che anonimo.
Guardò il cielo.
Volendo, avrebbe potuto tentare di stimare il grado della sua mancanza di anonimato. Se prendeva come campione gli studenti della scuola e il numero di persone che, fin dal termine delle lezioni, avevano sentito il bisogno di commentarlo passando dall'uscita, forse sarebbe venuta fuori una misura del potenziale disturbo che poteva trovare in una folla di persone.
Ci pensò su.

No, concluse: oltre al fatto che non aveva certo perso tempo a contare chi lo aveva commentato, i risultati non sarebbero stati significativi. Il campione si limitava agli studenti di un istituto superiore, non rappresentava una generica popolazione. Inoltre, non tutti gli studenti lo avevano visto, passando dall'uscita; la massa di persone lo aveva impedito.
Trattenne un sorriso sarcastico. Ridicolo.
Lanciò un'occhiata all'orologio. Non aveva davvero nulla da fare se iniziava a elaborare idee come quella. Riflettere sulla propria popolarità era... penoso.
Guardò la scuola.
In quel senso le superiori erano state l'ambiente peggiore per lui, il posto in cui aveva dato il peggio di sé.
Il problema però era cominciato prima. Già alle elementari era stato vittima della mania giapponese di ricercare qualcuno che esemplificasse un ideale di perfezione, un esempio a cui guardare. Erano fissati. Fra i suoi compagni di classe quell'ideale era stato lui, un ruolo che non aveva chiesto né cercato - all'inizio. A garantirglielo automaticamente erano bastati un carattere non proprio socievole e una serie di voti senza imperfezioni. Suonava come il cliché di un anime, ma per un po' aveva indossato proprio quell'immagine. Gli era piaciuto sentirsi importante, e aveva scoperto che era molto facile grazie al suo aspetto.
Somigliava a sua madre e sapeva che, da un punto di vista oggettivo, il suo era considerato un aspetto eccezionale. Da un punto di vista soggettivo, a lui la sua faccia piaceva principalmente perché era sua da diciannove anni.
La parte di sé a cui aveva sempre dato maggiore importanza, per fortuna, era quella che era prevalsa fin da quando aveva cominciato a capire il mondo: amava leggere, imparare, pensare e ragionare più di ogni altra cosa. Nessun ragazzino della sua età era stato al passo con quegli interessi.
A lungo, con rare e ben accolte eccezioni come il suo amico Yamato, Alexander aveva segretamente giudicato gli altri inferiori a lui. Nanny Shoko non aveva mancato di rimproverarlo per quella sua superbia, ottenendo un successo a metà. La considerazione che aveva avuto degli altri non era aumentata nel tempo proprio per colpa loro, si era detto, per il modo in cui lo trattavano. Si ponevano da soli in condizioni d'inferiorità, poiché per primi lo giudicavano superiore a loro, idolatrandolo i ragazzi e adorandolo le ragazze.
Dopo anni di quel trattamento, alle superiori aveva smesso di avere troppo riguardo per loro. Coi ragazzi quasi non aveva quasi parlato e si era divertito apertamente ad ignorare i più stupidi. Con le ragazze... per circa un anno si era approfittato continuamente della loro pressante attenzione. Gli erano bastati pochi giorni - al massimo un paio di settimane - per arrivare a pensare di una singola ragazza che era troppo noiosa, o non sufficientemente sveglia. La mollava puntualmente per trovarne un'altra e far ripartire il ciclo daccapo, continuando a sperimentare. Era stato divertente, lo aveva fatto sentire cresciuto.

Non si portava dietro troppi rimorsi di coscienza solo perché era sempre rimasto un gioco con tutte, se n'era assicurato.
La somma dei suoi errori era riuscita a farlo arrivare a una conclusione interessante. Forse, aveva capito, il meno sveglio di tutti era proprio lui nella sua arroganza.
Era ancora arrogante. Ma uscire dalle superiori lo aveva aiutato a diventare una persona nuova. All'università, in un ambiente pieno di studenti stranieri e persone interessate a studiare e crescere, lui aveva trovato il suo posto, il suo mondo.
Non era passato neppure un anno, ma la sua vita era seriamente migliorata. A descriverla, l'avrebbe definita una griglia di partenza su cui continuava ad allenarsi, pronto a correre per sfidare gli altri e se stesso. Si era accorto che c'erano cose che ancora non sapeva della vita - incredibile - e la sua nuova umiltà gli aveva dato immensa soddisfazione. Non aveva senso vivere senza aspirare ad imparare ancora.

Osservò l'edificio davanti a sé.
No, non gli mancavano gli anni delle superiori, per fortuna erano passati e finiti.
Tornò a controllare l'orologio.
Se il libro si fosse rivelato meno ripetitivo, avrebbe potuto passare il tempo a concentrarsi su quello invece che sui propri pensieri. Continuare in quel modo si prospettava noioso, ma da lì non se ne sarebbe andato. Non poteva aver scelto proprio un giorno in cui lei si era assentata da scuola, no?
Ami Mizuno doveva essere ancora impegnata nelle attività di club; lui la immaginava ligia anche a quel tipo di doveri. Per non correre il rischio di mancarla nel caso si fosse sbagliato, era arrivato davanti alla scuola appena prima del termine delle lezioni.
Un'ossessione che durava da più di una settimana - si era detton - meritava di essere esplorata.
Nei giorni successivi al loro ultimo incontro si era aspettato di rivederla di nuovo per caso, come era successo tutte le altre volte. Aveva finito col guardarsi spesso intorno, alla ricerca di quei capelli corti, nero che virava sul blu. Ad un certo punto aveva smesso di proposito di cercarla: in precedenza lei era sempre entrata spontaneamente nel suo campo visivo, quindi la strategia migliore era aspettare.
Aveva atteso inutilmente: il suo ragionamento, a quanto pareva, aveva decifrato la volontà del destino. Un'assurdità, ma era accaduto veramente: avevano smesso di vedersi senza cercarsi, di ritrovarsi negli stessi luoghi senza volerlo.
Per qualche giorno aveva cercato di convincersi che fosse meglio così. Ami Mizuno aveva detestato incontrarlo.
Magari, aveva pensato, lei aveva associato la sua presenza a qualcosa di poco piacevole che le stava capitando; era l'unica spiegazione che era riuscito a darsi. L'espressione dell'ultimo giorno, lo sguardo rassegnato e quasi vuoto, parlava di problemi non indifferenti. Era stato come vedere un uccello che aveva perso le ali, o qualcosa che in natura non sarebbe dovuto esistere.
Lei doveva aver percepito parte dei suoi pensieri dal modo in cui lui l'aveva guardata; non si era curato di nasconderli. In seguito si era reso conto che avrebbe dovuto. Il vuoto che Mizuno gli aveva mostrato si era rapidamente trasformato in disperazione, in una tristezza che lui non ricordava di aver mai visto in faccia a nessuno. Aveva sentito l'impulso di porre fine a quello che aveva causato. Gli era sembrata una buona idea prendere una delle margherite che crescevano lì accanto. Aveva cercato di farlo passare per un gesto divertente, forse persino romantico. Aveva solo desiderato farla stare meglio.
Poi Ami Mizuno aveva sorriso - come lui non aveva mai, mai visto sorridere qualcuno in tutta la sua vita. Era stato il sorriso più... tutto che avesse mai visto.
Pensato per il fiore, rivolto al fiore.
Non era stata per lui quell'espressione, era nata per quello che aveva fatto. Doveva aver significato qualcosa.
Se fosse rimasto con lei quel sabato, forse ora lo avrebbe già scoperto.
Era dovuto andare via per non saltare un incontro, seppur informale, con una persona che avrebbe potuto offrirgli un lavoro estivo per il prossimo anno. Allora non era sembrata una buona idea mancare. Col passare dei giorni, invece, era parso sempre più un grande errore. Se ne era andato convinto di poterla rivedere, era la sua unica attenuante. Si era aspettato di incontrarla di nuovo ogni singolo giorno, da lunedì a domenica, e poi per tutta la settimana che era seguita.
Siccome non era accaduto, era lì per seguire il suo stesso consiglio e utilizzare l'informazione che aveva ricavato da lei per rivederla.
Sbatté le palpebre.
Guardava davanti a sé da interi minuti, ma solo ora era apparso qualcuno nello spiazzo della scuola. Era Ami Mizuno, con la testa china a leggere un libro mentre camminava piano verso l'uscita della scuola.
... come avrebbe potuto iniziare il discorso?
Valutò diverse opzioni, ma nessuna gli sembrò adatta. Aveva tentato di sorriderle il giorno che si erano parlati sul ponte; funzionava sempre, ma non era servito a ottenere da lei neppure un grammo di benevolenza.
Forse doveva semplicemente lasciarla in pace. Non era nemmeno detto che avesse ben interpretato la reazione dell'ultima volta, la scintilla d'interesse finale.
Aggrottò la fronte.
Da quando si poneva dubbi simili? Stare lontano dalle relazioni gli aveva fatto male: Ami Mizuno era solo una ragazza, certo che sarebbe riuscito a convincerla ad uscire con lui.
Bastava insistere un po'.
No?
Parlarci era l'unico modo per saperlo.


«Ciao.»
La voce di lui entrò nelle sue orecchie come una scossa.
Ami alzò lo sguardo.
Ed eccolo lì, a pochi metri da lei, appoggiato con noncuranza contro la barriera di protezione del marciapiede. Aveva un libro in mano, la giacca scamosciata aperta, i capelli mossi dal vento, gli occhi chiari concentrati. Su di lei.
Le mancò il respiro. Quando riuscì a riportarlo dentro il petto, fu l'istinto a scegliere la sua prima espressione.
Sorrise. «... ciao.»
Nello sguardo di lui passò una corrente di... sollievo? Lasciò spazio ad una massiccia dose di sicurezza. «Il caso non c'entra questa volta.»
Oh, era venuto lì apposta. Apposta? «Come facevi a sapere che sarei uscita a quest'ora?»
«Non lo sapevo. Sto aspettando dalla fine delle lezioni.»
Dalla fine delle lezioni? Da più di due ore.
Si disse subito di smetterla. Non doveva arrossire.
Si morse le labbra. «Ho il... club di informatica.»
Lui sorrise un poco, come se la reazione di lei fosse insieme naturale e gradita. «Immaginavo che frequentassi un club, ma non volendo rischiare... La sorte non ci ha più aiutato.»
Era venuto davvero a cercarla. «... no.»
«Come ti avevo detto, credo che toccasse a noi decidere. Vorrei conoscerti meglio, Ami, se sei d'accordo.»
No, non era d'accordo. Non poteva portare a niente di buono. Aprì la bocca. «Sì.»
Inorridì. Cosa stava facendo?
La risposta non lo aveva sorpreso. Con lo sguardo lui la studiava come se sapesse già cosa le passava per la testa. «Non ho bisogno di sapere cosa ti ha messo in faccia l'espressione dell'altra volta. Parlare, conoscersi... non ha mai fatto male a nessuno. Se vuoi, sono disponibile a essere usato anche solo per farti ridere.»
Usato per-? Serrò le labbra, cercando di trattenere una risata sommessa. Inutilmente.
«Visto? Funziono.»
Già.
Che male c'era? Un ragazzo voleva conoscerla. La faceva ridere, la faceva stare bene.
Sentirsi in quel modo era davvero piacevole.
Lasciò parlare quella parte di lei. «Sì... funzioni. Mi piacerebbe conoscerti meglio.»
Che avventatezza. Che coraggio.
Che gioia.

«Vorrei fare il medico.» Ami sorseggiò il caffè che aveva ordinato.
Alexander Foster rimase ad osservarla, come se... come se avesse tutto il tempo del mondo per farlo. «Dottoressa Ami Mizuno... Sì, sei proprio tu.»
Si riferiva al suo aspetto? Lei sapeva bene che i capelli tenuti corti e l'uniforme scolastica le davano un'aria seria, compìta. Ne andava fiera. «E tu?»
«Io mi specializzerò in Astrofisica. Ho intenzione di concludere Fisica qui, e dopo mi sposterò negli Stati Uniti. La nuova frontiera della scienza è nello spazio. Fare di questo tipo di ricerca un lavoro è quello che ho sempre voluto.»
Sogni. Per un futuro felice.
Annuì. «Tu invece non hai l'aspetto di un fisico.» Di solito una persona tanto poco anonima si dedicava a lavori dove l'interazione sociale era imperante.
«Che aspetto dovrebbe avere un fisico?»
Che sciocca a non aspettarsi una domanda simile. Improvvisò. «Nell'immaginario collettivo, intendo. Ad esempio, non riesco a immaginarti con una matita in mano e degli occhiali. Come uno... studioso.» Pessima spiegazione.
Invece di replicare, lui andò ad aprire la cartella di cuoio che si era portato dietro. Ne tirò fuori una matita gialla e nera e... degli occhiali. Li sistemò sul naso dritto con una piccola spinta della gomma posta sull'estremità della matita. «Ho una leggera miopia, a volte li uso.» Inclinò un poco la testa e fissò gli occhi sui suoi. L'azzurro delle sue iridi virò sul verde, una sfumatura ancora più.... «Forse quando sarai dottoressa potrai guarirmi tu, che ne dici?»
Il sussurro finale la fece precipitare in un oceano di imbarazzo.
Quello era flirtare, vero?
Entrò nel panico. Era troppo inesperta, non sapeva come reagire. Cercò di prendere tempo guardando le finestre.
«Ami.»
Perché non usava il san? Perché lei non glielo chiedeva? Perché la sua voce era un brivido che sembrava più una carezza?
Oh, era stata una cattiva idea. Non era in grado di gestire una persona come lui, che doveva avere anni di esperienza con rapporti di quel genere. E lei nemmeno aveva intenzione di andare chissà dove con quel loro- Gli lanciò un'occhiata e il pensiero svanì con la rapidità con cui era arrivato.
L'espressione di lui si era chetata, non conteneva neppure un briciolo della malizia di prima. Era di nuovo qualcuno a cui potersi avvicinare.
«Non lo farò più» le disse.
Flirtare? Ma era una cosa naturale. Il problema era che- «Quella strana sono io.»
«Forse sei quella normale, invece. In fondo è solo una specie di recita, un gioco. Può servire se coinvolge entrambi i partecipanti, ma il suo scopo principale è mettere a proprio agio le persone, e far capire loro se sono compatibili. Ad un livello... non fondamentale, in fin dei conti.»
Il ragionamento la stupì. Erano entrati in un ambito che conosceva molto bene. «Se intendi dire che una compatibilità a livello meramente chimico non conduce sempre ad una relazione fondata su solide basi, ti do ragione. Ma in una relazione stabile non può mancare una buona intesa fisica.»
La sorpresa nel viso di lui fu dapprima lampante e subito dopo quasi... divertita.
Intesa fisica? Gli aveva detto proprio così?!
Volle sprofondare sotto terra. Come aveva fatto a discutere di compatibilità fisica e di relazioni stabili proprio in quel momento?
Che disastro.
Lui terminò di sorridere. «Sono d'accordo con te.» Si appoggiò meglio contro lo schienale imbottito. «Però non credo che non esplorare immediatamente quell'aspetto impedisca ad una relazione di formarsi. Una volta consolidata la conoscenza dell'altro e apprezzate qualità che catturino l'interesse in modo stabile, si può passare con maggiore consapevolezza a conoscere altri aspetti. Ciò dando per scontato che le parti in causa abbiano deciso in modo razionale di rimandare l'esplorazione della compatibilità fisica, avendo fin da principio riconosciuto che essa esiste. È una premessa fondamentale.»
Le sue guance diventarono fornaci. Quello era ancora un discorso in generale, giusto?
Lui sembrava nel suo elemento. «Non pensavo che avrei mai incontrato qualcuno in grado di parlare in maniera così impersonale di rapporti umani. Riguardano le persone in modo tanto diretto che discuterne come abbiamo fatto dà l'impressione di cinismo.»
Oh, . Persino le sue amiche la guardavano stranite quando si lasciava trasportare troppo da quel tipo di analisi.
«Comunque» continuò lui, «prima ho flirtato perché pensavo che ti avrebbe divertita. È un tipo di gioco che mi è sempre riuscito bene.»
Sì, poteva immaginarlo. «Visto che ora non parli in maniera impersonale, ma proprio di te, mi sembra un'affermazione piuttosto presuntuosa.»
Lui prese a ridere. «Hai ragione.»
Ami si rese conto di aver tentato di capire se quel suo commento lo avrebbe irritato. Sentirlo ridere di se stesso la mise definitivamente a proprio agio.
«Sembri soddisfatta.» Lo sguardo di lui fu tranquillo e attento. «Cos'hai concluso?»
«Come?»
«Su di me. Sei arrivata a una conclusione giusto ora, no?»
Certo che era davvero diretto. «Ho concluso che la sicurezza che hai in te stesso non equivale ad arroganza.» E ora aveva la sua piena attenzione. «In precedenza avevo avuto l'impressione che... che fossi fin troppo certo che sarei stata interessata a conoscerti.»
Le sue parole colsero nel segno. L'espressione seria nel volto di lui si rilassò con consapevole lentezza.
Ami seppe di non essersi immaginata il lieve movimento della testa. «Anche tu sei giunto ad una conclusione su di me.» 
«Sì. Mi farai un gran bene.» Nonostante il tono leggero, non era uno scherzo. «Non sbagliavi, la sicurezza che hai visto è anche arroganza a volte. È un mio difetto.»
Così sembrava che fosse partita a giudicare una persona che nemmeno conosceva bene. «Ecco... non era mia intenzione criticare.»
«Mi hai dato una risposta sincera, non mi aspettavo altro.»
Né da lei né da se stesso. Già, era una buona spiegazione per la schiettezza che aveva notato nel suo atteggiamento.
Annuì e... non seppe cos'altro dire. Di cosa potevano parlare ora?
Fu costretta a pensarci per meno di due secondi.
«Cosa studiavi l'altra volta in biblioteca?» le chiese lui. Si era sporto in avanti, le braccia piegate sul tavolo.
«Hm?»
«La prima volta che ci siamo incontrati. Eri circondata da libri.»
Ah, giusto, la teoria che le dava ancora da pensare. Se c'era una soluzione, era quasi sicura che richiedesse l'uso di un computer e di un programma da inventare daccapo. O, più probabilmente, una preparazione universitaria specialistica che lei ancora non possedeva. «Tentavo di elaborare un approccio diverso per un problema di matematica a cui ho sentito accennare in classe.» Non elaborò oltre. Sapeva di annoiare quando entrava troppo nel dettaglio.
«Sul serio? Per che tipo di problema?»
Sembrava genuinamente interessato. O forse era solo un modo per cercare di compiacerla.
Testò quella convinzione con una domanda mirata. «Uno dei problemi di Hilbert.»
Lui la osservò in silenzio.
Appunto.
Il sorriso la sorprese. «Wow. Fammi indovinare... il numero otto, Riemann.»
Lei rimase senza parole. «Ma... ?»
«Come ho fatto a capire a quale dei problemi irrisolti ti stavi riferendo?»
Ami annuì.
«Sei ancora alle superiori. Difficilmente in classe puoi aver sentito parlare di qualcosa che si colleghi ai problemi di Hilbert, a meno che non si tratti di numeri primi. Veramente hai avuto un'idea su come dimostrare l'ipotesi di Riemann?»
Lei lasciò perdere la sorpresa e sorrise apertamente. «Sì.» Poteva parlarne con qualcuno che capiva!
Smise di frenarsi e iniziò a descrivere nei particolari l'intuizione da cui era stata colta, aggiungendo la spiegazione sul punto in cui era arrivata con l'eventuale dimostrazione, ancora tutta da strutturare.
Lui rimase ad ascoltare senza dire nulla per metà spiegazione, poi tirò fuori un foglio e iniziare a mettere per iscritto un paio di formule. Gliele mostrò, dandole una rapida spiegazione sul loro utilizzo.
Ecco! Quei punti di raccordo le erano venuti a mancare durante il ragionamento. «Sono regole di statistica avanzata, vero?»
«Sì.» Lui prese a sorridere con una felicità che, ne era certa, rispecchiava la sua. «Se fossi andata avanti senza conoscerle, credo che avresti finito col rielaborare tu stessa la teoria che ci sta dietro.»
Era un'esagerazione. «Non sono così brava. Avevo intuito che mi mancavano diverse nozioni.» Senza neanche rendersene conto, emise una risatina. «Inoltre, non è molto intelligente tentare di risolvere un grande problema matematico senza avere una preparazione di ottimo livello prima.» Indicò il foglio con un cenno della testa. «Si finisce col fermarsi su punti per cui è già stata trovata una soluzione.»
«Questo sì.» Lui riprese a scrivere. «Ma potremmo tentare di divertirci andando avanti alla cieca, almeno per un po'. Tu continua a spiegare, io provo a completare con quello che so. Se non riesco ad esserti d'aiuto, almeno ti avrò anticipato argomenti che ti interesseranno molto.»
Sentire qualcuno che associava il concetto di dimostrazione matematica al divertimento quasi la commosse. Nel tentativo di non fargli vedere fino a che punto la proposta la entusiasmasse, abbassò lo sguardo.
Lui tornò a mostrarle il foglio, corredato di una nuova formula e di cinque frasi che ne spiegavano brevemente il significato con incredibile chiarezza.
«Ecco, credo che potrebbe essere utile anche questa.» Comprendere quello che aveva scritto era lampante non solo per via della sintesi dei concetti fondamentali, esposti in punti, ma anche per l'ordine della grafia. Era un modo di scrivere molto adulto e... intelligente.
Suo malgrado, Ami sorrise di nuovo. «Io so che per studiare fisica si devono sostenere esami legati alla matematica, ma non pensavo che conoscenze approfondite di statistica fossero necessarie. Per caso tu hai scelto un percorso particolare?»
Gli bastò un movimento della testa per negare. «Forse in qualche università esiste un percorso simile, ma io sono solo al primo anno, ricordi? Mi toccano ancora gli esami obbligatori.» Guardò anche lui il foglio. «No, queste cose le conosco per interesse personale.»
Poteva capirlo. La pura curiosità aveva spinto anche lei ad apprendere più di quanto le fosse stato richiesto. «Va bene, allora proviamo.»
«Certo.» Un dito di lui indicò la sua stessa testa. «Non risparmiarti, spremi da qui tutto quello che puoi.» Piegò gli angoli della bocca verso l'alto, ancora una volta.
In automatico lei ebbe la stessa reazione e, nel giro di pochi minuti,
fu capace di riconoscere la verità: quando Alexander Foster sorrideva, nel suo petto cominciava una piccola aritmia, piacevole.
E lei non si sentiva più in imbarazzo ad ammetterlo.
Piccoli progressi.

«Hm. In assenza di collasso gravitazionale, l'ipotesi più probabile è che intorno alla stella vi siano buchi neri primordiali.»
Esatto! «La loro esistenza potrebbe essere provata se si rilevassero pattern d'interferenza nelle radiazioni gamma, giusto?»
Lui assentì ed Ami smise di avanzare, voltandosi nella sua direzione.
«Ho letto che è allo studio un progetto per mandare in orbita un telescopio che avrà proprio questo obiettivo.»
«È vero.» Si fermò anche lui. «Avere la certezza che questi buchi neri esistano ci darebbe ulteriori informazioni sull'origine dell'universo.» Guardò all'improvviso di lato. «Tornando sulla Terra, penso di aver appena avuto un'informazione più semplice ma altrettanto importante. Questa è casa tua.»
«Sì.» Certo che lui trovava il modo di rendere divertenti anche le cose più semplici. «Grazie per avermi accompagnata. E...» Si decise a fare quell'aggiunta. «Grazie anche per essere venuto a incontrarmi, oggi. Sono contenta di averti conosciuto meglio.» Lo era davvero. Non ricordava nemmeno perché fosse stata tanto nervosa da principio. Erano state tre ore semplicemente fantastiche: non era mai riuscita a parlare con un'unica persona di tante cose che la interessavano. Lui le aveva anche indicato quali argomenti avrebbe potuto studiare per approfondire la dimostrazione che avevano cercato di mettere in piedi. Anche se probabilmente avevano già incontrato l'errore che la rendeva invalida, l'ora passata a discuterla era stata estremamente soddisfacente e istruttiva.
Inoltre, si era ormai convinta che lui avesse smesso di pensare a lei da quel punto di vista, se mai lo aveva fatto. In tre ore non si era più fatta viva neanche l'ombra di un flirt.
Non ne era dispiaciuta: Alexander era talmente intelligente che essergli amica le sarebbe bastato. Anzi, era decisamente il rapporto che preferiva avere con lui.
«Non credo che tu ne sia felice quanto me.»
Le stava sorridendo ancora, e di nuovo nella sua testa lui andò oltre la mera definizione di carino. Era proprio quello a renderlo un po' troppo... beh, semplicemente troppo per lei.
«Senti, vorresti uscire anche questo sabato? A pranzo, se non hai altro da fare.»
Sabato non aveva altri impegni e... perché no? «Sì, sono libera. Dove vuoi incontrarci?»
Accordarsi sul luogo e sull'ora fu facile. Lei non aveva molte idee in merito e lui invece sembrava averne parecchie.
«Ci vediamo dopodomani» le disse infine, preparandosi ad andare.
Lei iniziò ad aprire il cancello di casa sua. «Sì. A dopodomani, Alexander.»
Lui si fermò, rigido.
... cosa gli aveva detto di sbagliato? 
Le bastò incrociare l'ombra del suo sguardo sotto il lampione perché l'idea che la loro potesse rimanere una semplice amicizia volasse fuori dalla finestra.
«Non avevi mai detto il mio nome.»
Il tono di voce basso - il modo in cui la stava osservando - fecero crescere dentro di lei una tensione sconosciuta.
Lui prese a scuotere la testa, come tentando di schiarirla. «Ci vediamo, Ami.»
Si voltò e andò via.
... il proprio nome non le era mai sembrato una parola tanto intima.



Sentendosi osservato, Alexander aprì gli occhi.
Ami era in piedi davanti a lui. Per un momento gli sembrò di scorgere un'espressione di studio negli occhi di lei.
Appoggiò sulle ginocchia le cuffie del minidisc. «Ciao.»
«Ciao.» Il vento le scompigliò i capelli.
Non aveva mai avuto una ragazza con capelli così corti, pensò Alexander. In Ami facevano risaltare la linea del collo, la forma delicata della guance, gli occhi. Il loro colore dava un nuovo significato all'aggettivo 'blu'.
Lei si sedette sulla panchina del parco, di fianco a lui. «Di solito arrivo sempre per prima ad un incontro.»
«Mi piace arrivare in anticipo» sorrise lui.
«Anche a me. Che cosa stavi ascoltando?»
Tirandolo fuori dalla tasca della giacca, le mostrò il lettore musicale. Cliccò sul tasto Rewind e quindi mise in Stop. «Mi piacciono soprattutto altri generi, ma a volte vale la pena di ascoltare musiche come questa.»
Le porse le cuffie e, quando lei le infilò alle orecchie, fece ripartire il brano.
Ami iniziò a sentire qualcosa che... non era musica classica, anche se ad eseguirla era solo un'orchestra, senza alcun accompagnamento vocale. Cominciò a capire che era un brano molto ritmato e allegro, persino divertente. Una sorta di caccia, una corsa.
Vi si immerse.
Fermarsi non era facile, quasi mai. Correre e correre, a volte voler mollare, ma dover sempre continuare. Incalzati.
Lentamente, la musica andò a descrivere emozioni molto più dolci. Gli archi dei violini diedero vita ad un sentimento delicato, ricercato... desiderato, agognato.
Sì, a volte sembra lontana la felicità. Vicina, ma sfuggente.
La musica continuò, accarezzando la cresta di ogni sensazione. Infine, in un crescendo, Ami la udì: speranza.
L'avevano trovata e afferrata, l'avevano vissuta.
La fine - ma già lo sapeva - fu un tripudio di pura pace.
Alexander rimase a guardare Ami mentre era concentrata sull'ascolto.
No, comprese, non era andata via la tristezza che aveva visto in lei durante i loro primi incontri. Ma ora, dentro Ami Mizuno, quella sensazione aveva trovato un senso e un proprio posto. Lei l'aveva affrontata, domata.
Sul finire del brano, il sorriso di Ami si fece sereno.
Alexander conosceva la sensazione, ma era consapevole che per lei non era nata solo dalla musica.
«Cosa c'è?»
Lo sguardo di Ami era una domanda. Il brano era finito e lui non se n'era nemmeno accorto.
Allungò il palmo per ricevere le cuffie in mano. Lei si alzò e a lui non restò che imitarla. «L'altra volta ti avevo detto che l'allegria ti si addiceva molto.»
Lei si rabbuiò, quasi impercettibilmente.
Lui scosse la testa: aveva già capito che non voleva parlarne. «Mi sono sbagliato. Non era allegria, era... armonia. In un certo senso, sei armonia tu stessa.»
Lo sguardo di lei andò con tranquillità all'albero che gettava un'ombra su di loro. Senza rispondergli, si allontanò di qualche passo. Quando tornò a guardarlo, tanto il suo sorriso quanto la sua voce si erano fatti leggeri. «Queste frasi intense le pensi molto, prima?»
Non era stato un tentativo di facile flirt da parte sua, ma fu felice di constatare ancora una volta che tattiche tanto semplici non avrebbero mai funzionato con lei. «No. Credo che il mio sia un talento innato.»
«Non ci farei troppo affidamento.»
Gli uscì una risata.
Ami si unì brevemente a lui prima di guardare verso l'uscita del parco. «Era un brano molto bello. Dove pensavi di andare a mangiare?»

Alexander non le avrebbe fatto altre domande su quello di cui lei non poteva parlargli. Era arrivata a quella prima conclusione in pochi minuti.
Da quando si erano salutati, due giorni prima, lei aveva passato quasi tutto il tempo a domandarsi fino a che punto intendesse portare avanti quella loro relazione.
Non era del tutto certa delle intenzioni di lui, ma poteva conoscere le proprie. Perciò si era interrogata senza nascondersi nulla, l'unico modo corretto per procedere.
Lui le piaceva? Sì.
Più di prima? Sì.
Se avesse voluto uscire ancora insieme, lei avrebbe accettato? Probabilmente sì.
L'idea di... stare insieme, le dispiaceva? No. Al momento, non le dispiaceva per nulla.
Non si trattava che di un secondo appuntamento. Lei non si stava comportando molto intelligentemente facendosi domande tanto serie già a quel punto ma... sentiva il bisogno di conoscere le risposte. Risposte libere dalle costrizioni a cui era ancora sottoposta.
Già, se avesse dovuto rispondere tenendo conto di cosa sarebbe stato meglio pensare o provare, avrebbe dovuto rifiutare un eventuale terzo appuntamento e non desiderare nemmeno lontanamente di poter costruire con lui qualcosa di... più.
O no?
Sarebbe stato davvero un problema per lei lasciare che gli eventi prendessero la loro naturale direzione, qualunque essa fosse? Se anche avesse avuto un ragazzo, il suo futuro non sarebbe cambiato. Non sarebbe accaduto nulla di... cosmico. Avrebbe avuto un ragazzo, tutto qui.
Avrebbe provato quello che era suo diritto provare, quello che milioni di ragazze provavano alla sua età.
Quel periodo della sua vita non sarebbe più tornato, in fondo.
Anche questo si poteva dire di milioni di ragazze, ma per lei era un'affermazione che assumeva un valore di importanza fondamentale. In futuro non ci sarebbe più stata solo Ami Mizuno, una ragazza molto studiosa che non aveva mai avuto alcuna esperienza in campo affettivo, che non aveva mai trovato qualcuno che le interessasse veramente e che fosse a sua volta interessato a lei. Non che avesse la presunzione di ritenere certo il secondo punto, in relazione ad Alexander.
No... Quella ragazza, quella Ami, in futuro non ci sarebbe stata più. Non con la libertà di quei giorni.
Il futuro che la attendeva però doveva ancora arrivare e, nel frattempo, lei poteva guardare avanti.
Andare avanti significava anche vivere esperienze normali, conoscere persone nuove... provare cose nuove.
Si era immaginata tragedie di chissà quali proporzioni, di dover rinunciare alla persona amata nei modi più vari dopo averla trovata, ma la sua non era stata forse un'esagerazione?
Una relazione qualunque non doveva per forza trasformarsi in chissà quale grande amore. Poteva essere semplicemente la relazione di quel momento, qualcosa di prezioso semplicemente perché vissuto appieno.
Era arrivata ad una decisione dopo due giorni di riflessioni: avrebbe conosciuto meglio Alexander e... succeda quel che succeda, si era detta. Si sarebbe permessa di divertirsi, di trovarlo interessante, persino di... innamorarsi, se le fosse capitato.
E magari non sarebbe capitato. Dopo due giorni passati a riflettere su di lui, aveva concluso che forse era riuscita ad idealizzarlo oltre il realistico.
Arrivando al parco e trovandolo seduto sulla panchina, ad occhi chiusi e con il mento appoggiato su una mano, aveva concluso che era la seconda conclusione ad essere errata. Non lo aveva idealizzato per nulla. Lui era davvero bello e davvero... tranquillo.
Sul secondo punto le era venuto il dubbio proprio nel momento in cui Alexander si era accorto di lei.
Tranquillo? 
Apprezzava il tipo di musica che amava lei, a quanto pareva. Era perspicace abbastanza da capire quando una persona non voleva parlare di qualcosa. Era calmo, sì, ma a differenza sua non aveva alcun problema a proporsi direttamente agli altri, né ad esprimere in maniera diretta ciò che pensava, specialmente quando si trattava di fare complimenti. Non conosceva imbarazzo. Non sembrava in alcun modo influenzato dal giudizio altrui e probabilmente non lo era.
«A penny for your thoughts, Ami?»
Gli offrì un sorriso. «Scusa, ero distratta.»
Lui scosse la testa. «Cercavo solo di attirare la tua attenzione. Stavo pensando... Vorresti andare a Yokohama?»
Cosa? «... oggi?»
Lui annuì. «Conosco un buon posto dove mangiare anche lì. E potremmo rimanere in città nel pomeriggio. Se vuoi.»
Per quanto fosse un'idea improvvisa, non la trovò contraria, anche se... «Non ci metteremmo troppo ad andare e tornare?» Lo notò che roteava in mano il casco che si era portato dietro, e cominciò a cercare il veicolo verso cui lui si stava dirigendo. Adocchiò una moto verde pratica e comoda, con vetro alto. Notò di sfuggita il veicolo da competizione nero sgargiante che era sistemato lì accanto.
«L'idea mi è venuta adesso perché avevo lasciato parcheggiata qui questa.» Alexander poggiò la mano... sulla grossa moto nera.
Ami spalancò gli occhi. 
«Ho un altro casco, naturalmente.» Lui si fermò a riflettere. «Sei mai salita su una moto?»
Lei iniziò a ridere. «No, ma mi piacerebbe provare.» Con le mani gli chiese il casco.
Tranquillo?
Per niente.

CONTINUA...




Ultima revisione: Aprile 2011. Reso più fluido lo stile, aggiunto qualche particolare nei pensieri di Alexander sulla sua vita e su Ami, così come nei pensieri di lei nel momento in cui lo incontra.
Aver dato a questa storia un altro po' della bellezza che aveva nella mia testa mi ha reso felice.


Note finali originali:
- penso che alla fine saranno quattro capitoli. Scrivendo di meno mi sembra di non riuscire a dare corpo alla vicenda :)
- sto cercando di adattare un po' gli eventi agli anni in cui si svolgeva Sailor Moon. Per questo parlo di 'primi telefoni cellulari' e 'lettori minidisc' (in Giappone erano antecedenti ai lettori mp3 e abbastanza diffusi).
- Ami e Alexander col minidisc ascoltano 'Far and away' di John Williams.
- 'a penny for your thoughts' è un modo di dire che significa 'un penny per i tuoi pensieri'.
- grazie in anticipo per ogni commento che mi darete. Ringrazio molto chi ha commentato finora (luisina, Himechan, chichilina, dinny ed Ami_Mercury) perchè è sempre un piacere sentire cosa ne pensate, sono feedback importanti.
- revisione del capitolo del Settembre 2009: è stata aggiunta una scena nella conversazione che Ami e Alexander hanno nel locale  - la scena della dimostrazione matematica - e rivista l'esposizione generale, con l'aggiunta di qualche particolare.


   
 
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