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Autore: Kimmy_90    25/01/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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4. Ludus




A una decina di giorni dall’inizio delle lezioni, Miran poteva già notare alcune sedie vuote.

C’erano, con lui, talmente tanti compagni che non gli riusciva di ritrovarne quasi mai uno che avesse incontrato il giorno precedente. Senza contare che non sedeva mai nello stesso posto, in aula, e che dall’inizio delle lezioni portavano tutti lo stesso taglio di capelli: corti. Cortissimi.

Cos erano più facili da lavare, ma rendeva molto difficile riconoscere chi fosse chi.

Non si trovava male. Senza fatica ascoltava quel che gli dicevano i Magistri, Custodes che portavano sopra la divisa una casacca rosso fuoco e che si occupavano della loro educazione, in ogni singolo istante della giornata. Non vide più un Custos normale, ma solo e unicamente Magistri.

Qualche Medicus, ogni tanto. Qualche camice bianco.

Non la donna bionda, non Isia, che aveva inconsciamente eletto a punitore. Miran non era più stato punito dal giorno del discorso dell’Helios, e sembrava che la sua voglia di far danni fosse sparita. Fagocitata dal continuo fare, correre, pensare, giocare: le lezioni non erano molto diverse dalle attività che aveva fatto sino ad allora – forse erano più intense. Le ore in palestra più faticose. I pasti sempre più abbondanti.

Ogni tanto gli insegnavano cose che forse nessuno di loro pensava sarebbe mai venuto a sapere. Dettagli di cui certo nessun loro Parens, o chi li aveva allevati fino ai sei anni, aveva mai fatto parola. Cose che, finché non fu detto loro il contrario, non pensavano li riguardasse.

Prima fra tutte c’era il funzionamento della Regio: il Summus Globus, l’Helios – i Philosophi, i Custodes e la Gens. Gli avevano raccontato degli Undecim, eletti da e fra tutti i Philosophi della Regio per assumere il pesantissimo compito di guidarla, e di come erano i Philosophi a occuparsi delle questioni più elevate – politica, scienza, medicina, alta ingegneria, economia e strategia militare. Fra gli studenti del primo anno, sosteneva il Magister, c’erano circa cinquanta futuri Philosophi. E fra i Philosophi, che vestivano solitamente con i drappi rossi e neri che avevano visto indosso all’Helios, si annoveravano i Medici, con i loro camici bianchi. Subito sotto i Philosophi c’erano i Custodes: le guide dei Bellatores, il collegamento fra il mondo astratto dei Philosophi e la rude concretezza del campo di battaglia. Formati principalmente alla guerra, condottieri sotto ogni aspetto, i Custodes erano guerrieri elitari. Vi erano abilità proprie dei Custodes che un Philosophus, a vent’anni, aveva completamente perso – perso, sì, perché nei prossimi sei anni tutti loro, fossero divenuti Custodes o Philosophi, avrebbero dovuto coltivarle: reattività, enorme resistenza fisica, pazienza, solerzia, e un’intelligenza pragmatica, quasi animale, che mescolata alla formazione del Ludus permetteva, sul campo, di minimizzare le perdite con la massima efficienza. Fra i Custodes si selezionavano sia i Magistri che altre figure fondamentali che forse, in quell’aula, nessuno avrebbe mai avuto l’onore o la disgrazia di incrociare.

I Bellatores. Su quest’argomento il Magister era stato rapido, senza soffermarvisi troppo: erano fanteria, punto.

Al Ludus si formavano Philosophi e Custodes, non Bellatores. Li avrebbero incontrati solo sul campo di battaglia, per comandarli.

C’erano intere leggende che aleggiavano per il Ludus riguardo i Bellatores. Alcune di queste sostenevano che fossero uomini e donne enormi, dai muscoli sproporzionati, i quali avevano passato tanto di quel tempo a curare la forma fisica da aver completamente perso la facolt di parlare, scrivere, leggere e contare: erano enormi tori da sacrificare all’altare della guerra, null’altro. Se scattava una lite fra i ranghi della fanteria, non era raro vedere orecchie volare e labbra colare il sangue dei morsi che, bestiali, si scambiavano fra loro. I Bellatores non si lavavano – mentre al Ludus era obbligatorio fare almeno una doccia al giorno –, non si curavano – al Ludus era fondamentale essere puliti, i capelli corti, i vestiti in ordine, i denti lucidi – e non conoscevano altro che la loro Gens di provenienza – bandita, al Ludus. Perché al Ludus ci si chiamava per Nomen, e per Nomen soltanto.

Poi c’erano i Mercanti, parte della popolazione abbastanza intelligente da essere attiva nell’economia della Regio – seppur fortemente guidata dai Philosophi; esistevano anche gli Operai Specializzati, gli Amministratori e i Tecnici. Di questi, non potendo dir nulla sull’abilit mentale, le dicerie al riguardo si focalizzavano nello sminuirne la prestanza fisica: obesi o mingherlini, dai muscoli lassi e inesistenti, tanto pavidi da circondarsi di scorte e vilmente attaccati al denaro, cos preoccupati a difendere i propri averi da sprecarli in guardie del corpo.

Al Ludus il denaro non circolava. Gli studenti sapevano cos’era solo come concetto: non avrebbero mai avuto a che fare con i soldi, se non da Philosophus – anche in quel caso, mantenendone sempre un’idea matematica, numerica. Poteva interessar loro come calmierare il prezzo del latte, ma non avrebbero mai avuto in mano una sola moneta.

Cos, le nozioni sul che giungevano a uno studente del Ludus riguardo la Gens erano un amalgama delle vaghe, mnemoniche lezioni dei Magistri e della tradizione orale e leggendaria che perveniva direttamente dai refettori, solitamente fomentate dagli allievi più grandi.

Inutile dire che nessuno si opponeva a questa versione dei fatti: al Ludus funzionava cos. Tutti i Magistri erano cresciuti con queste improbabili leggende – nemmeno gli Undecim avevano dubitato della loro veridicit, quando avevano avuto fra i sei e i dodici anni: spettava lo stesso trattamento, di dovere e di diritto, anche alle nuove generazioni.

L’ultima classe della Regio era formata dagli Agricolae – termine che valeva indistintamente per agricoltori, pescatori, allevatori, pastori, minatori, spazzini e manovali. I Magistri, solo nei primi giorni, avevano ripetuto una decina di volte quanto rispettabile e fondamentale fosse il loro lavoro: senza Agricolae niente cibo, acqua, niente materie prime, niente di niente. La Regio sarebbe morta di stenti.

Ma non era questa l’idea che passava all’interno degli studenti del Ludus.

Gli Agricolae erano gente senza abbastanza testa da essere mercante o tecnico, senza abbastanza stazza da diventare fanteria.

Solo gente.

E qualcuno, da qualche secolo, aveva messo in giro l’idea che fosse per questo motivo che al Ludus non bisognava mai e poi mai chiamare in causa la propria Gens.

Loro non erano Gens.

Loro non erano Agricolae. Né Bellatores, né mercanti.

Loro erano al Ludus.


Il primo anno, per Miran, fu relativamente tranquillo. Gli piaceva imparare, muoversi, sfogarsi nei giochi che proponevano i Magistri. Un po’ meno gli piacevano il coprifuoco e la sveglia.

Man mano che il tempo passava, le cose diventavano sempre pi difficili – e sempre più sedie, vuote.

Lui non poteva non sentirsi esageratamente entusiasta ogni volta che superava un nuovo ostacolo, ogni volta che una cosa apparentemente impossibile, come lo era stato ‘il ripiano in alto’, diventava possibile e, dopo qualche giorno, addirittura facile.

Ma nulla era mai facile per troppo tempo: i Magistri facevano sempre in modo che, una volta acquisita un’abilità, i bambini fossero immediatamente messi di fronte ad un’altra impresa, molto più complicata. La vita degli studenti era una sfida continua, guai a fermarsi un attimo, anche solo per prendere fiato. Insistere, continuare, spronare – sempre a correre più forte, più a lungo, sempre a saltare più in alto, sempre a compiere movimenti più elaborati, calcoli più difficili, a memorizzare testi più lunghi. Quello era solo l’inizio.

Non facevano che ripeterglielo.

Ritornò un paio di volte alla saletta delle punizioni, scoprendo che non c’era un unico addetto a tale compito, non solo il Magister alto e con gli occhi fatti d’ombra.

E non di rado, poi, c’era la fila.

Isia si era rapidamente dimenticato di lui, fino all’inizio del secondo anno.




***


C’era silenzio, quella mattina. Lamaki stava ancora dormendo.

Non appena la bambina aprì gli occhi si mise rapidamente a sedere: rimase immobile qualche secondo, lì, nel suo piccolo letto, addossato alla parete della stanza dove lei e la sua Mater dormivano.

Era sveglia.

Appoggiò i piedi scalzi sulla pelle di vacca che usavano come scendiletto, e metodica iniziò a sfilarsi la tunica che utilizzava durante la notte. Si sfilò le mutande di carta, e ne prese un nuovo paio dallo scatolone che poggiava sulla grande cassa dove sua matre teneva i vestiti. Si vestì, infilandosi la tunica da giorno, poi i sandali, e andò al lavabo a bruciare la biancheria sporca.

Con vivo interesse, come faceva ogni mattina, osservò le fiamme mangiarsi la carta.

Poi, ferma, rimase a guardare la cenere.

Lama era fuori. Lamaki aveva fame, ma non era sicura di voler ancora mangiare.

Sciacquò via la cenere, si asciugò le mani, e andò verso l’uscio. Lì davanti, in piedi, attese, osservando ogni tanto le venature nelle assi di legno di cui era fatta la porta.

Finché non la aprì.


Saeb1 sentì Lena2 e Pa’i3 bloccare un sussulto: non era così che andava, solitamente.

Per questo lui si era messo davanti, fra i tre – in modo che Lamaki non potesse prestare troppa attenzione all’irrequietudine che le sue azioni avrebbero inevitabilmente provocato.

La bimba, ferma sulla porta, lì guardò per qualche istante, soffermandosi poi proprio su di lui. Dopo un po’, portò finalmente il pugno all’altezza del cuore, flettendosi nel saluto della Gens.

Saab sapeva bene cosa pensavano Lens e Pa’i: avrebbero dovuto aprire loro, non lei.

Avrebbero dovuto entrare, non farsi accogliere.

Lamaki sapeva ch’erano là fuori. Era molto difficile coglierla di sorpresa.

Nonostante tutto, i tre Custodes riuscirono a stupirla: portarono il pugno al petto a loro volta, battendo sullo sterno. “Patriae Frates.” Aprirono il palmo, e batterono di nuovo: “Fati Frates.”

Saab vide il volto di Lamaki contrarsi, seppur di poco. La bambina iniziò a tendersi, nei muscoli e nell’animo.

Prese a dondolarsi da un piede all’altro, indecisa sul da farsi: quando s’accorse che il tempo continuava a scorrere e che le tre Ombre continuavano a fissarla, fece mezzo passo indietro.

“Devi venire con noi, Lamaki.” disse tranquillamente Saeb.

Lei sembrò vederlo per la prima volta solo allora: gli incollò gli occhi addosso, e lui riconobbe il tipico sguardo che bambini e ragazzini che non lo avevano mai incontrato prima erano soliti dedicargli.

Saab vestiva come tutti i Custodes, e come tutti i Custodes aveva la carnagione scura, nonostante i lineamenti non fossero quelli tipici di chi, con quella carnagione, ci nasceva. Aveva un naso dritto e sottile, gli zigomi deboli e il mento affilato; i capelli, corti, erano lisci e chiari.

Ma gli occhi, soprattutto.

Quell’Ombra aveva degli occhi strani. Una pupilla era bianca, candida e opaca. L’altra era chiazzata, come latte versato su un pavimento di pietra. Le iridi, grigie, contribuivano a far sembrare l’occhio destro un’unica palla bianca, ed il sinistro, dove ancora c’erano delle macchie scure, sporco.

Lamaki fece un altro passo indietro, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.

Non era la prima volta che aveva a che fare con delle Ombre. Con dei Custodes. Ormai li conosceva.

Ma quei tre non li aveva mai visti.

E quello, davanti a lei, era strano.

Le faceva quasi paura.

“Lamaki.” disse Lena, poco dietro a Saeb. Quella sì che era un’Ombra normale. A fatica Lamaki tolse gli occhi da quelli di Saeb, che avrebbe potuto fissare in eterno, e si concentrò sull’altra.

“Il lavoro della tua Mater è concluso.” continuò la donna. “Se sarai brava, non la rivedrai mai più. Ora, seguici.”

Pa’i le si avvicinò, prendendole la mano. Lamaki si sentì tirare.

Quello era il momento critico. La prima prova da superare.

Seguire le Ombre.

Fidarsi dei Custodes.

Non guardarsi indietro.

Non erano molti i bambini di sei anni capaci di fare una cosa del genere. Non quando veniva detto loro che non avrebbero mai più visto i propri Parentes.

Ma c’era quella frase, a invitare i più arditi, i più pronti, e i più fiduciosi. Coloro che sarebbero stati buona pasta per l’educazione del Ludus.

Se sarai bravo.

Sei brava, Lamaki? Perché era solo questa, la questione. Non le Ombre, non sua Mater, non quel che lei voleva.

Ma essere bravi o meno.

La bimba lasciò dapprima che avanzasse la mano, il braccio, stendendolo tutto mentre rimaneva incollata al terreno. Poi, quando iniziò a sentire la spalla tirare e non poté più rimandare la decisione, seguì: si lasciò spostare, sbilanciandosi così da poter compiere il primo passo. E, fatto quello, camminò.

Saab richiuse la porta della casa di Lama, mentre Lena e Pa’i si allontanavano con la bambina.




***

Solo nel giorno in cui gli fecero cambiare aula Miran sembrò ricordarsi dell’esistenza delle altre annate. Era legittimo: durante tutto il primo anno di studi, i bambini venivano tenuti il più possibile alla larga dai ragazzini più grandi, cercando di limitare i contatti con loro al minimo indispensabile. L’unico luogo d’incontro era il refettorio, ed anche in tal caso non c’era alcuna possibilit che scambiassero parola se non con i loro coetanei, data la rigida divisione delle tavolate. Le altre annate erano una presenza vaga, quasi un arredamento negli enormi spazi del Ludus. Che ci fossero era innegabile – ma chi mai gli prestava attenzione?

Quel giorno, una volta dentro la Sphaera, invece di andare dritti all’anfiteatro del piano terra i Magistri fecero salire loro le scale: Miran si guardava attorno spaesato, cercando di orientarsi nei nuovi ambienti – che a lui erano del tutto ignoti. L’aula aveva una forma diversa, le porte erano diverse – tutto era dannatamente diverso. Per un po’ entrò in ansia: seduto al posto che gli era stato indicato, guardava fisso l’enorme lavagna bianca e il Magister in piedi dietro alla cattedra, anch’essa nera come quella cui era abituato, ma oblunga e curva come una falce.

I sedili erano più grandi, e i tavoli più larghi, più spessi; il pianale non era opaco come s’aspettava, ma illuminato: sopra c’erano delle figure.

Il Magister iniziò a chiamarli, uno alla volta.

Fu una cosa lunga. Nella noia, il bambino continuava a guardarsi attorno, osservando via via chi scendeva e risaliva le gradinate dell’anfiteatro.

Ci volle un bel po’, prima che venisse fatto il suo nome. Quando toccò a lui, Miran si precipitò giù per gli scalini, incapace di attendere oltre: si mise in fila e, una volta di fronte al Magister, s’immobilizzò a guardarlo dalla sua misera statura. Quello gli diede in mano una pallina di metallo, cava. A muoverla, emetteva rumore.

Era un campanello.

“Devi metterlo nella conca, sulla destra del tuo banco. Poi aspetta.”

E via, un altro.

Miran tornò rapidamente al suo posto, posizionando il campanello nel buco, come gli era stato detto di fare. Portò le mani sulle ginocchia, cercando di attendere senza scalpitare troppo. Ma ormai era agitato.

Agitatissimo.

Per cercare di distrarsi, si mise a contare i presenti: erano rimasti in poco più di seicento. Riempivano quasi tutta l’aula – non serviva esser geniali per rendersi conto che era più piccola dell’altra, nonostante i posti fossero più ampi. Doveva essere per quello che avevano cambiato stanza, ed anche piano.

Forse mezza giornata era passata: quando finalmente tutti ebbero messo il loro campanello nella conca del banco, il Magister si schiarì la voce.

“State per iniziare il secondo anno.”

Miran schiuse le labbra, quasi sorpreso. Di già? “Prima di iniziare, dovete fare quanto vi viene

detto. Sullo schermo, davanti a voi.”

Il Magister diede loro qualche istante per raccapezzarsi in merito, e comprendere che lo schermo di cui stava parlando altro non era altro che la superficie illuminata del loro banco.

“Seguite le indicazioni. Se non sapete fare qualcosa, passate avanti.”

Fine delle spiegazioni.

Il Magister andò alla sua postazione, in procinto di sedersi.

“Tenete bene a mente una cosa.”

I bambini riportarono l’attenzione sull’uomo.

“Meglio fare poco e bene, che molto e molto male.” Li guardò, lasciando che quelle parole sedimentassero in loro.

“Faber est suae quisquae fortunae.”

Si sedette.

Iniziarono.


Era già buio da parecchio tempo quando il campanello di Miran spar nella conca, come risucchiato.

Fu quasi sorpreso nel sentire quel rumore, strano e insolito – plop. Lo schermo, spento da un bel po’, s’illuminò per dargli nuovi ordini.

Così il bambino si alzò, spostandosi il più silenziosamente possibile lungo il corridoio dietro alla sua fila di sedie: scese poi le scalinate, e andò dal Magister.

Quello gli disse di andare nella sua stanza, raccogliere i suoi vestiti e presentarsi all’entrata del dormitorio dei due stelle. Il bambino non se lo fece ripetere due volte, defilandosi con un’eccessiva rapidit.

Non aveva la più pallida idea di cosa fosse il dormitorio dei due stelle.


Ci arrivò ben prima del previsto, guidato da istinto e logica.

Accanto ai dormitori dove aveva passato le notti dell’anno passato, c’erano altre cinque palazzine, alte, larghe, bianche e squadrate – ben diverse dalla Sphaera. Aveva già notato da tempo le piccole stelle dorate che si potevano intravedere sugli stipiti delle porte e delle finestre, e senza difficoltà si era recato verso la palazzina dove di queste stelle ne apparivano sempre e solo due alla volta.

Miran restò immobile sulla soglia da parecchio tempo.

Faceva freddo.

Ai suoi piedi aveva posato la sacca, grigia, dove aveva buttato tutto quanto ci fosse nel suo armadietto: cinque camice, tre maglioni invernali, tre estivi, cinque tenute da allenamento, stivali, biancheria. La sacca era di poco pi piccola di lui, e, man mano che attendeva, iniziava a rendersi conto che forse ficcarvi dentro il vestiario a casaccio non era stata una trovata geniale. Stava armeggiando con la cinghia, con l’idea di tirare tutto fuori e ripiegarlo decentemente, quando fu chiamato: lasciò perdere, e, trascinandosi dietro la sacca, entrò.

Lo fermarono nell’atrio, dov’era radunata un’altra ventina di bambini: fa di loro, una era Alir. Se ne rese conto di colpo, sorprendendosi a riconoscerla dopo tanto tempo: era sempre stata l? Miran era convinto non fosse stata ammessa al Ludus.

Invece no. Lì era.

E in un anno intero, non l’aveva mai incrociata. O forse sì?

Confuso, si ritrovò a fissarla. Quella nascose dapprima il volto, guardando altrove, e poi si mise a fissarlo a sua volta.

“Mettete qui le sacche.”

Miran sussultò. Ma come gli era saltato in mente di non piegare le sue cose?

Se lo meritava.

Tempo qualche minuto e toccò a lui. “Miran?”

“Sì!” quasi urlò quello.

Un Magister – una donna, come se mai il sesso di un Magister avesse fatto una qualche differenza – stava controllando le sue cose, alternando lo sguardo fra quelle e gli occhi di Miran. Il bambino serrò le labbra, drizzando la schiena, pronto ad accettare la pena per l’errore commesso.

“Quanti richiami hai già avuto per il disordine, Miran?”

“Tre.” Mentire, con i Magistri, non aveva senso. Sapevano già tutto, dir loro il falso significava solo abbonarsi alla frusta.

“Adesso sei grande. Il limite è due. In tutto. Sei al quarto.”

Miran fece un enorme respiro: annu e basta. In fondo se lo sarebbe dovuto aspettare, che le cose non

fossero più tanto lisce. Gli venne quasi da pensare che quattro richiami prima dello scattare di una punizione fossero un’abominevole enormità: in che lusso aveva vissuto, al primo anno? Una punizione ogni due richiami aveva molto più senso.

Sì, ora era grande. Si sarebbe comportato come tale.

La Magister chiuse la sacca, lanciandogli un’occhiata perforante.

“La conta si azzera, per tua fortuna. La prossima volta il gatto ti aspetta.”

Di colpo, Miran si sgonfiò. Salvo.

La donna passò in rassegna le sacche restanti – tutte in ordine – mentre gli altri bambini scrutavano il biondino con espressioni che andavano dal disappunto allo sconcerto. Alir mal celava un’aria basita, quasi incredula di fronte all’atteggiamento che aveva avuto Miran: fosse stata al suo posto, come minimo avrebbe tremato e forse sarebbe andata in iperventilazione. Lei era di quelli che si sarebbero dissanguati, pur di non farsi punire. Aveva avuto a che fare con il gatto una sola volta: quella volta era bastata. Non c’era gesto che Alir non facesse senza chiedersi, consciamente o inconsciamente, se rischiasse d’essere richiamata.

Miran, invece, ci pensava una volta sì e dodici no. Per sua fortuna, durante quell’anno, era stato tenuto sufficientemente impegnato da non aver quasi modo di fare grandi danni. Il suo unico problema era l’ordine e, a volte, l’incapacit di tacere.

“Toglietevi i vestiti, tutto tranne le mutande, e dateceli. Ve ne diamo di nuovi.”

I bambini eseguirono.

Era già capitato che cambiassero i vestiti a causa della crescita – o per averli rotti, più spesso distrutti durante giochi o allenamenti. Si ritrovarono in mano un sacco di plastica contenente un intero corredo, tutto d’un colpo. Separatamente, diedero loro anche la sopravveste – un pesante e largo cappotto nero, opaco, con un ampio collo alto.

“Questa è la divisa. Lì ci sono le vostre stelle.”

Le stelle? Miran si illuminò.

Eccole, le stelle! Le aveva viste di sfuggita addosso ai più grandi: le avevano sui cappotti, alla manica destra. Un altro Magister diede loro delle toppe, d’un grigio argentato, a forma, per l’appunto, di stella. Insieme a queste, una striscia di tessuto colorato: blu per alcuni, verde per altri. Finita la consegna, l’uomo mostrò loro una sopravveste d’esempio, di qualche taglia più grande:

“A destra – ” indicò la manica “ – dovrete cucire le stelle. Alla manica sinistra, tutta intorno, cucirete la vostra striscia colorata. Il colore indica quanti anni avete: verde per sei, poi blu, viola, rosa, rosso, arancione, giallo, grigio dai tredici in su. Stesso colore ha il collo delle camicie nel vostro pacco: quando compite gli anni vi vengono consegnate camice nuove e una striscia nuova – che dovete sostituire. Le stelle, invece, le aggiungete di volta in volta: superato ogni esame ve ne sarà consegnata una. Se la divisa è sbagliata, sarete puniti. Immediatamente.”

Alcuni fremettero. Quelli spavaldi, come Miran, finirono con l’impettirsi.

“Siete grandi. Ricordatevelo. E non farete altro che crescere, il che significa che le cose continueranno a diventare sempre più difficili.”

Quelli annuirono, stretti al loro pacco di plastica. “Da oggi questa è la vostra casa. Al piano terra c’è la stanza del responsabile: se i vestiti vi sono stretti dovete andare da lui. Se vi si rompe un vestito lo dovete riparare da soli, d’ora in poi. Non si cambia nulla, se vi va ancora bene. La Regio non spreca, e così non farete voi.”

Avevano imparato a cucire al primo anno – chi meglio, chi peggio. Sapersi riparare le vesti era spesso cruciale, soprattutto nel deserto – dove un buco in una tuta termica poteva significare un’ustione.

“Niente più dormitorio comune. Ognuno ha la propria stanza, con il proprio bagno. Tutto deve essere sempre pulito: pavimento, letto, vestiti. Avete anche la vostra lavatrice, ed è uguale a quella che avete già usato. Vedete di non far danni. Coprifuoco e sveglia sono annunciati dai campanelli: se siete ancora fuori dalla vostra stanza dopo dieci minuti dal coprifuoco o se siete ancora dentro la stanza dopo quindici minuti dalla sveglia, scatta il richiamo. Il massimo di richiami, d’ora in poi, è due. Indistintamente dalla ragione per cui siete stati richiamati. Poi sapete cosa succede. Vi ricordo che più volte passate dallo stanzino delle punizioni, peggiore diventa la punizione. Badate bene.”

Annuirono.

Miran, fra un cenno d’assenso e l’altro, non riusciva a non guardarsi attorno: l’aver riconosciuto Alir dopo tanto tempo diede una nuova spinta alla sua mania di studiare i suoi compagni. Evidentemente si era distratto da loro talmente tanto che dopo un anno di lezioni continuava a far fatica a riconoscerli.

La cosa non gli piacque. Focalizzato com’era a ficcarsi in testa i volti dei presenti, fin col non ascoltare più.

“Miran.”

La sua disattenzione non piacque alla Magister. “Miran!”

Il bambino si voltò di scatto verso la donna. “Così sono due.”

Ecco.

E il vago sospetto di essersela cercata.




[1] Pronuncia Saèb

[2] Pronuncia Lèna

[3] Pronuncia Pa-ì









____________________________________________________________________________________________________________


Nota dell’Autrice - angolo svarioni et al, per diletto e in parte noia.


Continuo con in ritmo leggermente serrato causa noia, e domanda ancora scusa.

Spero che il gippone introduttivo non sia troppo noioso, ma da qualche parte, certe cose, le devo dire. Cerco di far filtrare solo le informazioni che arrivano agli allievi, così da immergersi un po’ di più nella loro proverbiale ignoranza sul mondo.


Ho dato una sistemata aggiungendo noticine per le pronuncia dei nomi, giusto per essere pignoli :)


Al solito, se beccate incongruenze che mi sono sfuggite alle revisioni o che mi si siano generate in sistemazioni varie, fate un fischio!


Siamo ancora un po’ a rilento, ma vorrei prima creare una buona atmosfera di base per poi muovere tutto con più coscienza.


Saluti a tutti :)


Pandi


   
 
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