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Autore: keska    17/03/2009    12 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Le mie urla erano sorde, si perdevano nella vastità dell’aria e nell’assoluto silenzio che mi circondava copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Le mie urla erano sorde, si perdevano nella vastità dell’aria e nell’assoluto silenzio che mi circondava. E ogni urlo ne portava con sé un altro, un altro e un altro ancora, facendo passare minuti, ore, giorni…

‘Qui giacciono Edward Cullen e Jacob Black, uccisi dal perfido amore di Isabella Marie Swan’

Quelle parole erano marchiate a fuoco nella mia mente. Il dolore che provavo era a dir poco immenso. Usavo le mie urla, le mie grida di voce straziata, come valvola di sfogo, ma quando pensavo che il dolore mi stesse per sopraffare quel paesaggio smorto mi dava energia, incupendosi sempre di più della sua luce innaturale.

Niente mi teneva ancorata a quella che pensavo potesse essere la realtà, come pure niente mi teneva ancorata a ciò che poteva dimostrarsi sogno, perché nulla nel sogno era vero. Ero sospesa in un limbo. Un limbo fatto solo di dolore e senso di colpa.

Un vento imponente e turbinoso si era alzato nel prato e mi frustava il viso con l’aria gelida.

Dai miei occhi non cadevano lacrime, non riuscivo a piangere. Avrei voluto farmi del male, del male fisico perché solo quello poteva farmi sfogare adeguatamente da ciò che sembrava, ma non poteva, essere vero.

Sì. Solo quella era la possibile soluzione: farmi del male.

«Fallo Bella, torna da me…» Mi votai di scatto. Era la sua voce, la voce di Edward, proveniva dalla lapide.

L’assurdità del pensiero mi colpì in pieno volto. Non poteva. Non poteva volere che mi facessi del male. Nonostante avessi sbagliato, mille volte, con lui, nonostante l’avessi tradito e fatto soffrire - fui pervasa dal fantasma della nausea al solo pensiero - nonostante questo, aveva promesso di non abbandonarmi mai. Mai.

Perfido amore… perfido amore… uccisi…

Risucchiai l’aria attorno a me, sentendola mancare nei polmoni.

Sagome apparvero da nugoli di fumo oscuro, agghiacciante in contrasto alla luce chiara e bianca del luogo.

Il vento si placò all’istante. Rabbrividii.

Erano nove, incappucciati. Mi portai una mano tremante alle labbra, per trattenere altre eventuali urla che oramai non potevano più fare a meno di uscire dalla mia gola.

La prima figura a destra fece un passo in avanti. Si tolse il cappuccio. Jasper. «Bella» mi chiamò, neutro, inflessibile e implacabile. I suoi occhi sapevano. Mi guardava, e nelle sue pupille c’era la consapevolezza di condividere la verità con me. «Sentivo le tue emozioni. Perché hai sbagliato? Così? Sarebbe stato tutto più semplice, se non ti fossi fatta ingannare da te stessa» fece, lieve nell’aria lieve.

Deglutii, distogliendo appena lo sguardo.

Una seconda figura, subito accanto a lui, fece un passo in avanti e si tolse il cappuccio. La luce bianca rivelò uno scintillio di capelli dorati. Rosalie. «Tu, piccola, ingenua, Bella» mormorò con voce intrisa di debole amarezza. «Cosa credevi di ottenere?» le sue sopracciglia sottili si unirono in una maschera di rimprovero «Ho sempre detto che saresti solo stato un peso. Hai distrutto le persone che ti stavano accanto».

Mi portai le mani alla bocca.

E ancora, mia madre. Reneè. La sua voce nostalgica veleggiò verso di me nell’aria inconsistente. «Piccola Bella… lo amavi. L’ho visto, te l’ho detto. La vostra forza di gravità vi legava. Perché ti sei allontanata? Perché li hai feriti, entrambi?». Mi rivolse uno sguardo addolorato, incomprensivo.

Tremai, mentre sentivo il cerchio chiedersi attorno a me.

«Perché?». Carlisle. «Perché, Bella? Perché hai dovuto ferire Edward? Aveva trovato la luce. Aveva trovato finalmente la luce…». La sua voce era vuota, secca, arida. Scosse il capo.

Strinsi una mano sul petto, annaspai. Quelle parole mi ferivano più che le lame.

Poi ancora. Mio padre, Charlie. L’uomo da cui mi aspettavo conforto, l’uomo che mi aveva spinto fra le braccia di un altro uomo. L’uomo da cui volevo comprensione. Scosse il capo. No. Lo sapevo. Mi bastava guardarlo, puntare i sui occhi sulla sua figura così strana in quel campo di erba verde stinta, per sapere che neppure lui l’avrebbe fatto. «Pensavo che lo sapessi» fece, e si strofinò i baffi. Scrollò le spalle, e la sua occhiata delusa mi raggiunse. «Speravo che almeno tu sapessi cosa volevi. O uno, o l’altro. Non va bene, così…».

Feci per muovere un passo, ma mi sentii bloccata. Bloccata da una forza inconsistente, pesante come tutta l’aria che mi sovrastava inchiodandomi al terreno.

Emmett. Nei suoi occhi spenti non c’era più quella naturale propensione allo scherzo, alla burla, al gioco che lo aveva caratterizzato. Niente che non fosse un’innaturale serietà, un’innaturale tristezza sul suo volto da bambino giocoso. Non parlò: sollevò le mani, scosse il capo. Afflitto.

Ogni battito del cuore nel petto era affannoso, bruciante, doloroso. Il male mi stava corrodendo.

La più minuta sagoma fece un passo. Vibrava, scossa dai singhiozzi. «Bella… come hai potuto? Ti volevo bene» mormorò, le labbra bianche che tremavano. Avrei voluto correre, stringerla a me, farmi stringere. Chiedere perdono, trovare un modo per tornare indietro nel tempo perché tutto ciò non accadesse ancora. «Sorellina…» singhiozzò. Scosse il capo. «Sono morti…».

Le sue parole mi entrarono nel petto come coltellate. Non riuscivo quasi più a sostenermi. Feci per parlare, per chiamarla, ma non c’era alcun modo in cui avrei potuto essere padrona consapevole delle mie labbra.

Un’altra figura, un altro passo, un altro dolore. Billy. «Hai ucciso tu mio figlio» scandì lentamente, la stessa voce lenta e pedante che gli avevo sentito usare quando parlava della sua tribù. Quando parlava, con odio, del vampiro ucciso. «Dovevi tirarti indietro quando potevi, e non pretendere l’amicizia quando non eri disposta a concederti al suo amore».

Portai le mani alla testa, scossi il capo. La verità delle loro parole mi trapassava da parte a parte. Era la paura di uno sbaglio, coltivata e cresciuta, giorno dopo giorno, che espressa a voce da qualcun altro mi bruciava la pelle, come se me la stessero tirando via, per entrarmi dentro e ricominciare a bruciare. Diventava evidente verità.

Ero in balia del dolore, ero in balia del vento. Servì davvero poco per farmi crollare.

Degli occhi ambrati, tondi, sempre dolci, ma ora pieni di dolore, rabbia, agonia, mi fissarono morti. «Mio figlio… Bella» esalò senza fiato Esme, «hai ucciso mio figlio. Non ti bastava il suo amore…».

Annaspai, indietreggiando appena. Terrorizzata.

«Tu volevi anche il suo cuore» sibilò.

«E il suo» aggiunse Bill.

Mi guardai attorno, disorientata, colpita, senza fiato. Se avessi potuto, se solo avessi potuto cancellare anche solo una parte dei miei peccati, concedere tutta la mia anima e il mio corpo a Edward, liberare Jacob dall’essenza della mia presenza. Se solo… se solo avessi potuto.

Senza che lo potessi prevedere sulla mia mano apparve un oggetto. Bianco, duro, freddo. Scintillante alla luce del sole. Sull’altra mano un altro oggetto. Rosso, caldo, pulsante.

Immobili. Morti. Per colpa mia.

Cacciai un urlo, inorridita. Erano i loro cuori.

«E’stata tutta colpa tua» disse Esme.

«E’stata tutta colpa tua». Bill.

«E’stata tutta colpa tua!» esclamò contemporaneamente il coro dissonante di voci.

Colpa tua… colpa tua… tutta colpa tua…

Mi rimbombavano nella mente, ferendomi e lacerandomi, straziandomi con l’assurda verità che portavano con sé. E volevo scampare, in qualche modo, a tutto quel dolore. Farlo prima di impazzire, poiché già pensare mi sembrava impossibile.

Tutto prese a girare vorticosamente, le sagome nere inconsistenti, il prato sbiadito, le forme irreali. Il vento il alzò, le voci si fecero man mano sempre più lontane, la luce sempre più forte, quasi accecante.

Finché non venni abbagliata e caddi riversa sulle ginocchia. Svuotata. Schiacciata.

Aprii gli occhi, ansante, stanca, distrutta. Il macigno della colpa sul cuore e nella testa. Ero ancora nel mio incubo personale. Stessa scena, stesso monotono paesaggio, stessa lapide.

La mia testa scattò in alto, veloce, tanto veloce da farmi male, colpire con una fitta il cervello, il centro dei miei pensieri. «Bella, vieni da me… insieme…». Era la sua voce, era la voce di Edward.

Mi alzai di fatica sulle ginocchia, il fiato corto. «Edward?» chiamai spaesata, angosciata. Mi sorpresi di quanto la mia voce fosse bassa e roca. Una speranza, una speranza. Cercavo un barlume di speranza in quel dolore accecante.

«Sono qui, ma tu adesso devi tornare da me…».

Ancora, la mia testa si mosse veloce. Proveniva dalla lapide. Mi misi a correre, affannata, verso la fonte della sua angelica voce. Ma faticavo incredibilmente, per quanto mi muovessi, per quanto corressi, si allontanava sempre di più, non la raggiungevo mai. Cadevo, mi alzavo, rinciampavo. E ancora e ancora. Sempre più lontana, sempre più distante.

«Edward!» urlai, frustrata e distrutta, lacerata.

E improvvisamente lo spazio fra me e la lapide si accorciò paurosamente. Mi ritrovai all’istante bloccata, davanti al masso freddo e privo di vita. Ansai, ferma. Con mille domande, con mille tormenti, ma senza neppure una risposta.

«Bella, torna con me…».

Singhiozzai, affranta e stremata. Un singhiozzo asciutto e per questo ancor più doloroso. Sapevo di non meritarlo, sapevo di non avere nessun diritto di chiederlo ancora al mio fianco, di averlo con me. Eppure non potevo fare a meno di desiderare, strenuamente, riaverlo vicino, come sempre, per sempre. Desiderare risvegliarmi ed essere tornata indietro nel tempo.

«Come?» chiesi, piano. Troppo piano, forse, perché potesse sentire la mia voce tremante. Il sangue mi pulsò nelle vene.

Silenzio. Assoluto.

«Come?!» gridai, sentendo le forze esplodere fuori dal mio corpo e insieme venir meno.

Ancora, nulla. E in quel momento la disperazione soppresse ogni germe di speranza. La realtà e l’illusione si erano confuse, rendendo vero anche cosa non lo era. E ora ero persa e straziata, senza alcuna via di fuga, sospesa in un limbo di dolore e senso di colpa.

Immaginata. Dovevo aver immaginato la sua voce angelica. E la realtà, non esisteva. Edward… era morto. Jacob… questa era la realtà. Lui… anche lui. Certo. Come sarebbe stato possibile pensare il contrario? Erano entrambi morti.

I miei pensieri si aggrovigliarono e si contorsero, si strinsero, uno addosso all’altro, vorticando nella mia mente. Mi uccidevano, mi struggevano.

Tutta colpa tua! Quella, quella era la voce che riuscivo a sentire e distinguere nettamente, l’unica che riuscissi a pensare. Che le conseguenze fossero state portate allo stremo o no, che potessi ancora avere la possibilità di ricucire o meno, quello era vero, nella realtà o nell’illusione. Era completamente, tutta, colpa mia. Come dare torto a quella voce nella mia testa?! Come, se lo sentivo anche nel cuore affannato o nel dibattersi veloce nel mio petto?! Non c’era limite alla sofferenza che avevo causato.

Passai le mani sui bordi irregolari della lapide, graffiandomi i palmi. Osservavo il percorso che compivano con occhi spenti, stanchi, pesanti. Sentivo di non riuscire quasi più a respirare. Avevo raggiunto un livello di dolore così acuto da desiderare la morte come cessazione dei miei mali.

Volevo morire. Volevo uccidermi.

«Sì…Ricongiungiti a me…».

Annaspai, portandomi le mani alla gola. Era quello che voleva. Che mi suicidassi per ricongiungermi con lui. All’inferno. Abbassai il viso sulle mie mani, deglutii. Se questo fosse stato il mondo reale… Mi portai una mano alla guancia. Sembrava così vero…

Sussultai quando una sagoma mi apparve di fronte agli occhi. Alice. «Fallo. Ucciditi». Nella sua voce non c’era odio. Freddezza, gelo.

Scossi il capo, afflitta, incredula. No, lei non era reale, tutto quel mondo non era reale. «Vattene!» esclamai debolmente, spaventata, portandomi entrambe le mani alle orecchie e chiudendo gli occhi. Non volevo vedere, non volevo sentire. «Tu non sei reale!».

Una ristata, diabolica e agghiacciante si levò dal suo petto. «Ah, no? Non sono reale?».

Aprii gli occhi, la fissai, sofferente e angosciata. Dovevo negare, negare. Questa non poteva essere la vita reale. Non poteva. Era solo un terribile incubo. Malgrado lei sembrasse così maledettamente vera. «No!» urlai, sopraffatta, prendendomi la testa fra le mani.

Scosse il capo, per nulla ferita o turbata. La verità nella sua voce. «E qual è la realtà? E tu perché parli con me se non sono reale?» fece, un tono di pazzia nella voce, fissandomi negli occhi con un sorrisetto divertito.

Tremai, farfugliai. Retrocedetti di un passo. «No…non lo so…».

Sui suoi lineamenti calò una maschera di indifferenza. «Ucciditi» mi disse, e svanì.

L’illusoria voce soffocante e liberatoria di Edward tornò a farmi compagnia. «Amore…Dobbiamo stare insieme».

Non feci in tempo ad ansimare, a crollare, o a tentare di versare anche solo una lacrima. Sentii improvvisamente qualcosa di freddo e duro fra le mani. Abbassai il viso. Era un pugnale argentato.

«Stringi» m’incitò delicata la voce del mio amato.

«Ma…» feci per obbiettare, sussultando. L’istinto di conservazione mi legava a quel mondo orrendo e forse irreale, combattendo con l’amore e la dedizione che mi dicevano solo di lasciarmi andare, lasciare andare la mia vita e affidarmi a Edward.

«Avanti, torna da me…».

Le emozioni contrastanti, il dolore, la paura, il senso di colpa, perirono dinanzi a qualcosa che si scaldava e pulsava nel mio petto. Avevo sbagliato, certamente. Il mio comportamento era stato incredibilmente deleterio. Ma lo amavo. Lo amavo, e se amarlo avesse significato dargli la mia vita, se fosse stato quello il prezzo dei miei errori, l’avrei pagato.

Strinsi il pugnale fra le mie mani. Lo girai e lo puntai fra le costole.

Una sola, solitaria lacrima, mi rigò il viso.

«Ti amo, Edward».

Mi trapassai il petto. Fui avvolta da un immenso dolore. Poi, spirai.

 

Edward

 

La mia piccola umana. Le accarezzavo la fronte, e con l’altra mano tenevo la sua, piccola, calda, senza forze. Giaceva nel letto, con i capelli mori scompigliati sul cuscino. Alice le aveva messo una vestaglia di seta, chiara, color avorio, lo stesso colore della sua pelle... di solito. Non il colore pallido, quasi bianco, che c’era ora sulle sue guance.

Ma nonostante questo, nonostante il pallore della malattia, i numerosi tubicini e cavi che in qualche modo le agevolavano il compito di vivere, rimaneva sempre un angioletto.

Carlisle diceva che dovevamo aspettare ancora, che era rimasta senza ossigeno e sangue per un po’ di tempo e che solo il suo risveglio ci avrebbe portato informazioni. Comprensibile che il suo corpo stremato dovesse cercare riposo, dopo quattro ore di intervento d’urgenza.

Mi sentivo prosciugato, e arrabbiato. Era davvero strano che le emozioni più forti provate in tutta la mia esistenza si concentrassero negli ultimi anni. Assurdo. Eppure, non avevo mai provato questa furia, questa rabbia, questa gelosia… questo amore. Con il pollice disegnai il contorno delle sue piccole labbra, forzatamente da un lato. Un tubicino, passando dalla bocca alla trachea, le soffiava il respiro nei polmoni. Presto, Carlisle l’avrebbe rimosso, provando a farla respirare con la mascherina perché il risveglio non fosse doloroso e…

Sospirai. Come eravamo potuti arrivare a questo?

Mi ero sentito frustrato, amareggiato, ferito da quello che era accaduto negli ultimi mesi. Ero arrivato a pensare di averla persa per sempre. Ma poi, non potevo negare di leggere nei suoi occhi quella scintilla d’amore che mi teneva legato a lei. Non potevo negare l’adorazione assoluta che il suo corpo e la sua mente rivolgevano nei miei confronti. Perdendo Jacob Black poteva aver perso un amico, un fratello, forse un innamorato, una di quelle cotte liceali. Ma me lo diceva. Era me, me, che voleva. E il mio cuore fermo non si poteva rifiutare di crederle, troppo incline a farlo, egoisticamente, a tenerla stretta a me.

Sospirai, osservando attentamente la sua figura eterea. Aspettavo un tremolio, un battito di ciglia, un riflesso di un dito. Aspettavo.

Mi chiedevo cosa avrei fatto se fossi stato dalla parte di Black. Lo sapevo. Avrei, come lui, tentato in ogni modo di averla per me. Avrei provato a legarla al mio vincolo, a persuaderla. Ed ero un vampiro. E lei era umana. E io troppo attratto dal suo sangue.

Ma mai, mai, mai le avrei fatto del male. Perché prima, un istante prima, avrei fatto in modo di uccidermi piuttosto che ferirla.

Per questo, mai, avrei potuto perdonare il lupo. Lui non poteva amarla davvero. Perché altrimenti lei adesso non sarebbe stata su quel letto, le palpebre livide sul viso emaciato, soffrendo le pene del suo dolore per…

Strinsi con rabbia i pugni, fino a fare sbiancare le nocche. Mi allontanai di qualche centimetro da lei, attento a non farle del male. Avevo detto che avrei aspettato, e forse, forse, per amore di Bella sarei riuscito ad aspettare. Ma poi Jacob Black me l’avrebbe pagata cara.

Sospirai, provando a calmarmi, e mi chinai a baciarle la fronte. Le presi la mano fra le mie, attento a non staccarle l’ago della flebo. Me ne sarei accorto. Se si fosse mossa, me ne sarei accorto. Ma mi sembrava troppo che non lo faceva. «Fallo Bella, torna da me…» la implorai, piano, vicino all’orecchio, parlandole come sapevo che adorava. Ma non ottenni alcuna reazione.

«Edward». La presenza di Charlie, già preannunciata dal suo pesante passo umano, dal fiato pesante e dal susseguirsi dei suoi pensieri umani, si palesò quando comparve sulla porta «sono tre giorni che sei lì. Vai un po’ fuori o giù al bar, che ne dici?» mi chiese, provando, dopo 72 ore, ad essere gentile.

Non lo biasimavo. Pensavo che al suo posto, al pensiero di chi aveva ridotto così una creatura a così cara, sarei andato su tutte le furie. Quello che avevo fatto, dopotutto.

Anche Esme provò a farmi ragionare, sospingendomi coi pensieri. «Edward, dovresti farlo, anche solo mezz’ora. Non hai bisogno di riposo fisico, ma il riposo mentale potrebbe aiutarti, tesoro».

Anche Carlisle entrò nella stanzetta, posando la sua mano secolare sulla mia spalla. «Vai, figliolo, almeno per salvare le apparenze. Ti chiameremo appena avremo notizie».

Scossi il capo, per nulla persuasa ad allontanarmi. Era quello il mio posto, lo sentivo. Quello e nessun altro. «No. Ti ringrazio, ma preferisco rimanere qui…» feci, provando a restituire la stessa cortesia. Non mi sarei allontanato, e non l’avrei di certo fatto proprio nel momento della visita. Speravo che ci fossero cambiamenti.

Malgrado fosse una fitta costante nel costato, rimasi accanto a lei quando Carlisle la staccò dal ventilatore artificiale, aiutandola con la mascherina. Non sapevo quello che poteva percepire, e mi dannai per non poter leggere nei suoi pensieri. Ma in ogni caso, volevo esserci. Volevo che percepisse la mia presenza, che si sentisse rassicurata. Che immaginasse di avermi accanto anche in quello che speravo fosse un sogno. Perché, quando si sarebbe svegliata… sapevo quanto avrebbe patito in ospedale.

«Risponde bene allo svezzamento. In breve tempo potrà tornare a respirare autonomamente» informò gentilmente mio padre Esme e Charlie.

Al momento di cambiare la medicazione uscirono, lasciandoci soli con Bella. Con il suo corpo stanco. Non mi ero mai attardato, per rispetto della sua persona e del suo corpo, a osservare le sue nudità. Eppure avrei potuto, facilmente, in qualsiasi momento. In quell’istante, niente mi sconvolse come vedere il suo petto. E non erano sentimenti positivi.

Una lunga cicatrice rossa, pulsante, regolare, le divideva un lato del petto, uno squarcio sulla sua pelle pallida. Qualcosa che sarebbe rimasto lì. Per sempre.

Mi alzai di scatto, meno di un ottavo di secondo, irrigidendo i muscoli e gonfiando i polmoni, precludendomi quella vista straziante. Uccidere. Lo volevo uccidere, per quello che le aveva fatto.

«Edward» mi ammonì mio padre, «controllati».

Tentai di sciogliere i muscoli tremanti, pentendomi della mia reazione. Non avrei voluto che Bella mi vedesse così.

Carlisle mi raggiunse, prendendomi un braccio per farmi voltare. «Vai a cacciare, ne hai bisogno. Ci vorrà poco. Non puoi starle accanto in queste condizioni. Vai».

Sospirai, costretto ad ascoltarlo. Non era passato molto da che ero andato a caccia, ma lo stress a cui ero stato sottoposto psicologicamente e l’odore di fondo dell’ospedale avevano messo a dura prova il mio autocontrollo.

Annuii seccamente, avvicinandomi in un istante a Bella e posando un lieve bacio sulla sua fronte nivea. Sospirai, accarezzandole una guancia. Svegliati. Ti prego.

Lasciai la stanza, incontrando immediatamente Charlie nel corridoio.

«Sto uscendo, tornerò fra poco» mormorai piano, allontanandomi.

Annuì in silenzio. Era rimasto colpito dalla mia fedeltà e dalla mia devozione nei confronti di Bella. Niente. Niente in confronto a quello che avrei fatto davvero per lei.

Uscii in fretta dall’ospedale. Non mi fermai ad indugiare su nessun pensiero intorno a me. In pochi secondi, appena fui fuori dall’edificio, immerso nella fredda aria umida e condensata, mi ritrovai lanciato nella corsa fra la boscaglia di Forks. La caccia fu veloce e vicina, i miei pensieri rivolti a Bella. Un antilope risentì di tutta la mia furia accumulata e repressa. Deglutii, osservando il corpo martoriato e dolorante dell’animale, e, disgustato da me stesso, le spezzai il collo, finendo di dissetarmi.

Appena mi trovai ad una distanza apprezzabile dall’ospedale, distinsi i pensieri di mio padre. «Edward, la febbre è salita…».

Strinsi la mascella, correndo più veloce. Mi sentivo spezzare dagli eventi. E, secondo dopo secondo, accumulavo una rabbia cocente, spessa, che mi impediva quasi di muovermi o di parlare. Che mi totalizzava, spingendomi ad agire per istinti. Uccidendo. Uccidendo chi l’aveva ridotta così.

Bella, sul letto, aveva il viso imperlato di sudore. L’avevano sistemata fuori dalle coperte e le avevano messo delle borse di ghiaccio sui polsi e sulle caviglie. Si agitava, farfugliando parole senza senso.

Mi avvicinai a lei, il dolore a stringermi la gola. Le posai una mano sulla fronte, tentando di contribuire, in qualche modo, a darle sollievo.

Mio padre, in piedi all’altra parte del letto, le lasciò andare il polso. «Delira» m’informò cautamente, «la temperatura si aggira intorno ai 40-41 gradi».

Sospirai, tremante e angosciato, abbassando il viso alla sua altezza e sussurrando piano. «Bella, vieni da me. Dobbiamo stare insieme, te l’ho promesso» la implorai, mormorando piano.

Le guance erano arrossate per la febbre, il fiato caldo disegnava nuvolette sulla mascherina. Le sue piccole labbra, asciutte, tremolarono. «Edward…». La sua voce, poco più di un sussurrò, colpì le corde della mia anima. Da troppo non la sentivo, e quel tono mi straziava.

Mi sedetti accanto a lei. Presi una pezza dalla bacinella d’acqua sul comodino e le bagnai le labbra.

«Vado a prendere qualcosa di più forte per abbassare la febbre» pensò mio padre, concitato.

Annuii, concentrato sul volto della mia amata. «Sono qui, ma tu adesso devi tornare da me…» canticchiai piano al suo orecchio, stringendo più forte la sua mano. Torna Bella, ti prego, torna.

Non si muoveva coerentemente, ma le sue labbra tremolarono ancora, più decise. «Edward!» esclamò, la voce appena più alta, ancor più distrutta. Si agitava nel letto, accaldata. Il mio angelo ferito dalle ali strappate.

«Bella, torna con me» la implorai ancora, disperato, posandole le dita alla base del collo sudato.

Si agitava, si muoveva, farfugliava parole incomprensibili. Ma non rispondeva. Soffriva.

«Sì angioletto mio, sono qui. Ricongiungiti a me, ti sto aspettando».

Si mosse, si agitò ancora. Speravo che in quel limbo in cui stava bruciando avesse posto per le mie parole.

«Te l’ho promesso, dobbiamo stare insieme» la rassicurai con voce flebile, stringendomi sul suo petto, attento a non farle male. Le strinsi il polso abbandonato sul lenzuolo, misi un mio dito nella sua manina aperta.

«Stringi» la incitai, «avanti, torna con me».

Fu allora che sentii una lieve pressione. Una lacrima, confusa fra il pallore, il rossore, e le perle lucenti del suo dolore, le rigò il viso.

«Ti amo, Edward» una flebile e inconsistente promessa, tremolante da labbra tremolanti, dolorante da un corpo martoriato. Poi il respiro le si bloccò in gola.

Sentii puzza di cagnaccio.

   
 
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