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Autore: Opalix    27/01/2016    1 recensioni
[Di carne e di carta]
Fanfiction su “Di Carne e Di Carta” di Mirya, con un pizzico di paranormal romance. O paranormal taglio-di-vene, se preferite. Ambientata diversi anni dopo la fine del libro, vediamo Leonardo in un periodo davvero brutto della sua vita trovare una luce tra gli incastri bui che gli hanno cambiato per sempre l’esistenza.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fanfiction su “Di Carne e Di Carta” di Mirya. Grazie a Layla Mayfair per essersi prestata come beta reader!
NdA: “Mi sa che ho fatto un po’ di casino….”

Sguardi

(Quello che resta)

Il loro primo incontro risaliva a un paio di anni prima della nascita di Grazia. Chiara se ne stava raggomitolata sul divano, preparando una lezione. Usava una vecchia copia dei Promessi Sposi, la sua vecchia copia del liceo piena di scritte fitte fitte, a matita, e appunti successivi presi a penna su post-it spiegazzati. Chiara sollevò lo sguardo e gli lanciò un sorriso distratto, il sorriso a cui lui aveva imparato a dare l’importanza che altri non vi avrebbero attribuito: per altri – altri che non fossero lui – lei non avrebbe nemmeno alzato gli occhi.
Lui sbatté le palpebre e Leanne gli strizzò l’occhio dal divano, rigirandosi un ricciolo nero tra le dita. Le sbattè di nuovo e Chiara imprecò sottovoce perché il libro le era caduto dalle ginocchia. Non la rivide per anni.

Quando Chiara si ammalò cominciò a vederla più spesso. Brevi sprazzi, sorrisi tristi, riccioli scuri che apparivano, registrati appena dalla visione periferica, proprio nell’istante in cui distoglieva gli occhi dal viso tirato di sua moglie. Per non farle vedere la paura. Per non buttare sulle sue spalle anche il proprio dolore.
Le riteneva allucinazioni. Del resto, era plausibilissimo: era impazzito dal momento in cui aveva ascoltato quella diagnosi.
Osteosarcoma.
Dei banali, ma persistenti, dolori all’anca sinistra. Qualche accertamento in più per escludere un’eventuale erosione della cartilagine all’interno dell’articolazione – così improbabile, Chiara era giovane. Le prime schegge di paura erano arrivate dagli occhi del radiologo che guardava quella risonanza sullo schermo. Poi il tracollo: altri esami, l’intervento per la biopsia, l’attesa dell’istologico, la conferma. La chemioterapia.
E Grazia che capiva molto di più di quanto non fosse sopportabile per Leonardo, che stringeva al cuore quella bimba di quattro anni nelle lunghe sere in cui Chiara era ricoverata per le fasi peggiori della cura.

Leanne gli aveva parlato una volta. Gli aveva detto chi era, cos’era, perché. Poi Chiara era morta e Leonardo con lei, almeno in parte. E se non ci fosse stata Grazia sarebbe morto del tutto, davvero, ma doveva tenere insieme i frammenti, almeno in apparenza, almeno per lei, almeno per quella bimba dai capelli biondi e dritti come spaghettini spettinati e gli occhi grandi di paura. Se avesse fallito come padre Chiara lo avrebbe preso a calci nel culo giù per tutto l’Inferno, poi su per il Purgatorio e infine lo avrebbe portato in Paradiso solo per il gusto di buttarlo di sotto.

“I was standing at the edge of the water,
and I noticed my reflection in the waves,
then I saw you looking back at me
and I knew that for a moment
you were calling out my name”
Dream Theater – Take away my pain

Tre anni dopo.

Grazia corse verso la vetrina del Disney Store, e si alzò in punta di piedi, schiacciando il naso e le mani sul vetro, davanti a una sbrilluccicante bambola di Elsa alta quasi mezzo metro. Leonardo le corse dietro, trattenendosi a stento dallo strillare il suo nome e dominando il terrore inconsulto che lo attanagliava ogni volta che lei gli sgusciava via dalle mani.
Da tre anni conviveva con l’istinto continuo di chiudere quella bambina indipendente ed esuberante in una scatola di cristallo (magari antisfondamento, antiproiettile e anti-radiazioni) pur di averla sempre, perennemente sotto controllo, al sicuro.
Pur di non perderla come aveva perduto sua madre.
Era un istinto che dominava con fatica, concentrandosi sul giuramento di essere un buon padre: un giuramento che Chiara non gli aveva mai chiesto, dando per scontato che Leonardo fosse una persona migliore di quanto lui stesso non si ritenesse, ma che lui aveva prestato comunque, nel silenzio opprimente della propria anima in agonia, mentre guardava la madre di sua figlia spegnersi piano piano.
Quando la raggiunse, Grazia si voltò, gli occhi accesi dall’emozione e la bocca atteggiata in una linguaccia irriverente. Chiara le aveva dato un nome etereo, da danzatrice, che avrebbe dovuto ricordare l’atteggiamento degli angeli rinascimentali, ma che, addosso a quel biondo demonietto impudente che ormai era tutta la sua vita, faceva solo commentare, scuotendo la testa, sì, come no…
“Entriamo?”
“Grazia è tardi, la nonna ci aspetta per cena,” protestò debolmente Leonardo.
Grazia giunse i guantini rossi davanti al viso atteggiato in una supplica degna di un’attrice consumata.
“Ti prego! Un minutino, un attimino-ino-ino….”
Traduzione: se osi dirmi di no mi metterò a strillare come un’aquila e ti sentirai in imbarazzo al punto da non voler mai più tornare in questo posto.
Entrarono. (Ovviamente).

Troppo colore, troppo vociare, troppe canzoni dei cartoni animati. Troppa gente. Troppi sorrisi, troppe famiglie.
Leonardo si sentì male.
Teneva sotto controllo Grazia che correva da un giocattolo all’altro: nessuno avrebbe potuto accorgersene, ma Leonardo la conosceva bene, e sapeva che, passando, sua figlia posava lo sguardo su ogni donna dell’età di Chiara - ogni donna che stesse abbracciando, tenendo per mano, sgridando un bambino, o semplicemente sorridendogli.
Sapeva che quello sguardo rimaneva fermo per una frazione di secondo più del necessario, si rabbuiava un istante, poi passava oltre, luminoso come prima.
Era impercettibile ma lui lo vedeva, e ad ogni sguardo un coltello affondava un po’ di più la lama nel suo petto.

Saltellando, Grazia andò a sbattere contro il grembiule a pallini di una commessa vestita da Minnie. La donna rise e acchiappò al volo la bambina prima che cadesse rovinosamente a terra.
“Stai bene?” chiese, chinandosi. “Sicura?”
Grazia annuì, sorridendo, poi lanciò un’occhiata alle proprie spalle per cercare Leonardo. La commessa seguì la direzione dello sguardo della bambina e alzò il viso.
Leonardo sbiancò.
“Chi…”

“Chi diavolo…”
“Sono Leanne.”
“Chi?”
“Leanne.”
“Come quella dei libri di Chiara?”
Per mesi lui le aveva detto di pubblicare in rete quelle storie fantasy che si divertiva a scrivere. Proprio lui.
“Lei.”
Leonardo aveva deglutito. Qualche secondo prima, seduta sulla poltrona davanti alla finestra c’era Chiara; aveva il sonno leggero e nervoso di chi non ha tregua dal dolore nemmeno mentre dorme, le mani bianche erano strette su una coperta che teneva avvolta attorno alle spalle, le palpebre frementi erano così pallide da risultare quasi azzurrine. Ora la poltrona era vuota e una figura snella, con una corona scomposta di riccioli, si stagliava, scura, contro la luce grigiastra del pomeriggio d’inverno.
Aveva premuto i palmi sugli occhi.
“Sono pazzo.”
La mano di Leanne aveva sfiorato la sua. Un brivido elettrico, irreale.
“Forse un po’, Chiara lo dice sempre.”
“Sei nella mia testa?”
La domanda più idiota che un pazzo possa fare; come se le voci nella tua testa potessero risponderti
certo che si, sei fuori come un copertone.
Non era il sorriso di Chiara, era qualcos’altro - più sfacciato, meno sereno.
“Sono nella testa di Chiara. O almeno, è da lì che provengo. Lo sai come funziona.”
“Lo so?” chiese, stancamente.
“Mi ha scritta. Mi ha creata. Sono qualcosa di lei che resterebbe, anche se lei se ne andasse.”
Il sole sbucò dalle nubi e il suo riflesso improvviso accecò Leonardo; quando riaprì gli occhi Chiara era di nuovo sulla poltrona e apriva gli occhi, fissando su di lui uno sguardo confuso.

“Signore?”
“Chiara…”
Leonardo non si era accordo di aver esalato il nome di sua moglie. Grazia gli prese la mano e lo guardò dal basso, confusa.
“Signore, va tutto bene?”
Lo sguardo della sconosciuta era perplesso. Era una donna sulla trentina, dai capelli scuri e ricciuti, sui quali troneggiava un cerchietto con grandi orecchie da topo e un fiocco rosso; il viso era pallido e giovanile, o almeno lo sembrava, ma poteva essere colpa del trucco da topolina – con nasino nero e baffi disegnati sulle guance – e del glitter dorato che le illuminava gli occhi.
“Mi sa che mio papà ti ha scambiata per la mia mamma.”
“Oh,” disse la donna guardandosi attorno, “dev’essere qui in giro? Vi siete persi?”
Grazia scosse la testa, attaccandosi alla gamba del padre.
“No, la mia mamma non c’è più. Era molto malata.”
Un lampo di comprensione e imbarazzo passò negli occhi della sconosciuta. La donna si chinò, portando il viso a livello di quello della bambina, forse per cercare di confortarla in quel momento di confusione per il comportamento del padre, forse per lasciare Leonardo per un attimo solo in quell’evidente dolore che il suo aspetto doveva aver risvegliato.
“Come si chiamava la tua mamma?”
“Chiara,” rispose la bambina, “Io invece mi chiamo Grazia.”
“Hai un bellissimo nome, sai?” disse la donna. “Io mi chiamo Anna. Alla cassa ho dei lecca lecca a forma di albero di Natale, ne vorresti uno?”
Grazia alzò gli occhi sul padre, ancora immobile.
“Posso?”
Anna gli lanciò un’occhiata. Quell’uomo stava ancora soffrendo le pene dell’inferno, era palese nella confusione del suo sguardo sfocato – chissà da quanto era morta la moglie, chissà se davvero le somigliava così tanto – e, allontanando per un minuto la figlia con la scusa della caramella, voleva concedergli il tempo necessario per recuperare il controllo.
Leonardo si riscosse e annuì.
“Ti aspetto lì fuori.”

Qualche giorno dopo Leonardo tornò al negozio, in assenza della figlia, per comprare la bambola di Elsa che Grazia aveva chiesto a Babbo Natale. Era un momento di relativa quiete – la pausa pranzo di un giorno feriale - e Anna era in un angolo del negozio, intenta a riordinare i peluche.
“Volevo scusarmi per l’altro giorno. Non so se si ricorda,” esordì, a bruciapelo, più brusco di quanto intendesse.
Anna si voltò.
“Oh,” disse, riconoscendolo, “non si preoccupi! Dispiace a me averla involontariamente sconvolta, signor…”
“Leonardo,” disse lui, allungando la mano. Non sorrideva, non la guardava negli occhi, ma non sembrava intimidito.
Arrabbiato, ecco cosa sembrava. Arrabbiato con se stesso, e con lei.
“Anna,” fece lei stringendogli la mano.
Lui fece per voltarsi ed andarsene, ma Anna lo trattenne.
“Somiglio molto a sua moglie?” gli chiese, in fretta.
Leonardo rispose senza voltarsi. “No, non le somiglia affatto.”
“Oh, ma allora….”
C’era una nota ferita nella voce di lei che indusse Leonardo ad interrompere la fuga.
“Mi dispiace,” si trovò a ripetere, pacato, “non ci pensi, davvero.”
Anna si morse il labbro.
“No, è che…” Anna si interruppe e si guardò attorno. Non c’era quasi nessuno nel negozio. “Senta, lo so che sembra assurdo, ma vorrei… lo prenderebbe un caffè con me?” chiese, indicando il bar di fronte.
Leonardo spalancò gli occhi, sorpreso. Lo sguardo di Anna era urgente, quasi implorante; non rifiutò.

“Non le ho chiesto se sua moglie mi somigliava per rigirare il coltello nella piaga,” esordì la donna. Era molto diretta, ma nulla nel suo modo di fare e di parlare suggeriva maleducazione o arroganza. “Mi dispiace se sono sembrata invadente, ma vorrei spiegarle il motivo della mia domanda.”
Leonardo annuì, e continuò a mescolare il caffè, dominando il disagio.
“Ho perso la memoria in un grosso incidente stradale, qualche anno fa. Non ricordo nulla della mia vita prima di quel giorno, nessuna delle terapie tentate ha dato alcun frutto.” La voce di Anna, mentre raccontava, era piatta, come quella di chi ripete una poesia imparata a memoria. “Nessuno dei coinvolti nell’incidente è sopravvissuto. Nel taxi da cui sono stata estratta non è stato ritrovato nessun documento che mi riguardasse, e nessuna ricerca di parenti, amici o familiari ha dato alcun frutto. Sono una donna senza passato, non so chi sono, da dove vengo, perché mi trovavo sull’autostrada per Padova quel giorno.”
Leonardo la guardava, interessato e incredulo, ora.
“Impossibile, di certo qualcuno…”
“No. Il taxi era partito da Ferrara quel pomeriggio, ma il conducente è morto nello scontro e non ha potuto dire dove fossi salita. Sono state fatte ricerche per un paio d’anni, ma è come se fossi comparsa dal nulla. Il nome Anna lo ha scelto un’infermiera all’ospedale, diceva che era un personaggio di un libro che stava leggendo.”
“Mio Dio.”
Anna bevve il caffè, poi rimase per qualche secondo a guardare la tazzina vuota, quasi cercasse nel fondo del caffè la risposta alle sue domande. Voltò la testa verso la finestra, stringendo gli occhi al riflesso del sole invernale sui vetri delle macchine parcheggiate; Leonardo notò una cicatrice scura e in rilievo alla base del collo, sulla nuca, visibile perché i vaporosi riccioli erano raccolti più in alto, con una matita.
La donna si schiarì la voce, prima di ricominciare a parlare.
“Per questo le ho chiesto se sua moglie mi somigliava. Ho pensato…” si interruppe, accennando una risatina amara, “a volte penso che se qualcuno riconoscesse una somiglianza tra me e un amico o un conoscente, forse avrei una speranza di trovare un parente, qualcuno che possa riconoscermi, dirmi chi sono.”
Leonardo si sentì stringere il cuore. I ricordi di Chiara erano tutto per lui. Erano lui. Non sarebbe stato nulla se avesse perso anche quelli.
“Mi dispiace,” disse con molta sincerità, “ma non c’è alcuna somiglianza fisica tra lei e mia moglie. Ha visto mia figlia: somiglia moltissimo a Chiara. Quello che ho visto l’altro giorno, che mi ha sconvolto, è stato…” Leonardo sospirò: non c’era un modo per dirlo, non c’era possibilità, lo avrebbe ritenuto un pazzo. “È stato altro.”
Anna abbassò gli occhi e annuì.
“Capisco.”
No che non capiva.
“Quando è successo?” le chiese Leonardo.
“Il 29 Febbraio di tre anni fa.”
Il giorno in cui Chiara era morta.

“Il caso non esiste.”
Kung Fu Panda

Leonardo deglutì, imponendosi un controllo che gli riusciva sempre meno naturale in presenza di quella donna che sembrava uscita dal libro che Chiara aveva scritto, una donna senza passato, comparsa all’improvviso sul luogo di un incidente il giorno in cui il suo mondo era invece scomparso per sempre.
“Mi dispiace,” mormorò per l’ennesima volta, cercando di contenere l’emozione nella propria voce. “Dev’essere difficile.”
Anna sorrise e Leonardo rivide il sorriso di Chiara quando diceva a Grazia che no, non aveva poi tanto mal di testa, poteva leggerle una favola.
“Si impara a conviverci, come con il dolore” disse la donna, alzandosi. “Ora torno al lavoro. Ma tornate a salutarmi, lei e sua figlia, se ripassate di qui. Io lavorerò al negozio anche l’anno prossimo. Mi farebbe piacere rivedervi.”
Ritorna. Ti prego.
“Va bene. Grazie.”
“Grazie a lei.”
A te.

“Non c’è di che.” D.

   
 
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