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Autore: EdemaRuh    28/01/2016    1 recensioni
Una soffitta, una videocassetta e noi, che non sapevamo farci gli affari nostri. Così è iniziata.
Un manicomio di notte, il cliché perfetto. Così è finita.
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Di nuovo domenica, stavolta mattina. È passata appena una settimana da quando per la prima volta siamo saliti in soffitta e tutto questo è iniziato. E ora, chi l’avrebbe mai immaginato, siamo in macchina diretti verso un manicomio con un nome discutibile, abbandonato da chissà quanti anni, con lo scopo di saperne di più su una misteriosa cassetta paranormale, una fotografia rinvenuta nella suddetta soffitta e un ancora più misterioso paziente 507 che ha tutta l’aria di essere un mio parente.
È una mattina straordinariamente limpida, vista la nebbia dei giorni passati, probabilmente grazie al vento gelido di ieri notte. Il sole splende indisturbato, cercando di far alzare di qualche grado la temperatura e la pianura scorre tutta uguale a se stessa fuori dai finestrini. Alessio è alla guida, affiancato da Riccardo che gli indica la strada con il navigatore del cellulare. Erika e Luca parlano di non so cosa mentre io mi distraggo come al solito. Alla radio i presentatori  ridono di qualche stronzata appena detta per risollevare il morale di chi, come noi, si è svegliato all’alba per uscire di casa. L’atmosfera, tutto sommato, è tranquilla, forse troppo considerando il fatto che stiamo andando in un postaccio.
 
La statale lascia spazio ad una stradina piena di buche che come tante altre stradine piene di buche porta in un posto abbandonato da tempo. Tipico degli esseri umani riempire la natura di schifezze e poi dimenticarsene da un giorno all’altro, quando smettono di avere un’utilità.
La guida di Alessio si fa più cauta, mentre procediamo tra i cipressi che una volta dovevano essere allineati perfettamente, tutti uguali tra loro ma che in mancanza di attenzione umana stanno finalmente riuscendo a prendere la forma che vogliono. La struttura compare dietro l’angolo poco dopo.
Si tratta di un immenso edificio in cemento, ormai coperto dai rampicanti. Esattamente come me lo immaginavo, anche se speravo fosse più piccolo; non sarà affatto facile trovare qualche indizio lì dentro. Molte delle finestre hanno i vetri rotti, probabilmente a causa di qualche ragazzino che per sembrare impavido agli occhi dei suoi amici ha deciso bene di entrare lì dentro. Spero per lui che ne sia anche uscito vivo, non voglio trovare cadaveri.
Parcheggiamo tra gli alberi, poco lontani, di modo che la macchina sia invisibile ad eventuali altri visitatori che si avvicinano alla struttura. Anche se qualcosa mi dice che saremo più che soli. Il portone è semiaperto, soltanto alcune assi di legno bloccano l’accesso all’interno. Non serve toglierle, dato che la finestra a pochi metri da noi è rotta.
Dal momento che io ho già dato prova del mio coraggio avventurandomi in soffitta da sola, non sta certo a me entrare per prima. È Riccardo ad assumersi il gravoso compito, lasciando per un attimo lo zaino nelle mie mani mentre scavalca il davanzale e si ritrova dall’altra parte. Subito comincia a guardarsi in giro, senza però fare commenti, lasciandoci il gusto della sorpresa. Mi faccio avanti, passandogli la borsa e seguendo il suo esempio.
Una volta atterrata sul pavimento dopo un salto di addirittura settanta centimetri, mi prendo il lusso di guardarmi intorno. L’entrata è abbastanza spoglia, polverosa almeno quanto la mia soffitta, piena di cartacce e graffiti. Tipico di un posto abbandonato. In un angolo, appoggiata al muro, c’è una vecchia sedia di legno a cui manca una gamba, poco lontano quella che ha tutta l’aria di essere stata una scrivania. Niente di particolarmente inquietante insomma.
Dal momento che siamo qui per cercare informazioni non aspetto nemmeno di vedere gli altri arrivare e mi dirigo verso di essa, cominciando ad aprire i cassetti cercando di non fare troppo rumore. Prima troviamo qualcosa prima possiamo andarcene, stesso principio della soffitta.
Posso quasi sentire le maledizioni che Riccardo mi sta rivolgendo nella sua testa mentre gli infilo nello zaino tutto quello che ho trovato, ovvero probabilmente un mucchio di scartoffie inutili ma che comunque ci prenderemo il lusso di rubare, tanto sicuramente qui non servono più a nessuno. Vedo le espressioni confuse degli altri tre che mentre rovistavo sono riusciti ad entrare e non so perché me ne compiaccio.
Cerchiamo di fare il punto della situazione per capire come muoverci. Abbiamo due possibilità: un corridoio a destra e uno a sinistra. Visto che dividersi è troppo cliché, dopo qualche scrollata di spalle da parte degli altri prendo in mano le redini della situazione e scelgo la prima opzione. Varcata la soglia ci ritroviamo davanti ad un corridoio piuttosto lungo, costeggiato da ampie vetrate che danno sul viale all’esterno su un lato e da stanze chiuse o quasi sull’altro. A circa metà mi sembra di vedere delle scale ma difficile dirlo da qui.
Non ci sono cartelli che segnano i numeri o che danno un qualsiasi tipo di indicazione quindi l’unica strategia è quella di aprire tutte le porte, dalla prima all’ultima, cercando di non perdersi. All’improvviso sono assalita dalla sgradevole sensazione che ci perderemo eccome, ma cerco di scacciarla e mi faccio coraggio, andando ad aprire la prima porta che trovo.
All’interno è buio, se ci sono delle finestre sono state sbarrate. Prima di essere così stupida da entrare estraggo il cellulare dalla borsa e attivo la torcia. Alessio mi affianca filmando tutto quello che succede, ma sono troppo impegnata a pensare a quello che potrebbe esserci nella stanza per fargli notare che sembra un perfetto idiota.
 
 
Il più assoluto nulla. Quando il manicomio è stato chiuso è stato anche evidentemente svuotato di tutto, perché dopo ore non abbiamo ancora trovato niente di interessante se non qualche materasso e tanti rifiuti arrivati qui dentro chissà come. Stiamo tutti perdendo la pazienza e l’entusiasmo iniziale si è spento da un bel po’.  Una volta che abbiamo deciso che abbiamo esaminato tutta questa parte dell’edificio decidiamo di tornare all’entrata per esplorare anche l’ala sinistra. Erika finisce di disegnare la cartina delle parti della struttura che ora conosciamo e poi possiamo finalmente muoverci.
Attraverso le finestre si vede chiaramente che il sole è alto nel cielo, segno che abbiamo ancora qualche ora di luce prima di dover battere in ritirata. Nessuno di noi vuole restare qui al buio, anche se è tutto vuoto è abbastanza chiaro che questo posto ci inquieta tutti.
Destra, sinistra, giù dalle scale, sinistra, di nuovo giù. Percorriamo tutto il corridoio già esplorato e finalmente sbuchiamo nell’ingresso principale. Non ci siamo persi.
Sento chiaramente Riccardo tirare un sospiro di sollievo, anche se cerca di dimostrarsi temerario anche lui un po’ d’ansia ce l’ha. Proseguiamo decisi verso il corridoio a sinistra ma una volta giunta sulla porta ho l’illuminazione e mi blocco. Mi giro di scatto, prima che il cervello mi dica di non farlo.
È esattamente come mi era parso di vedere, anche se non ci ho fatto caso subito. E sinceramente speravo proprio di sbagliarmi. La finestra con il vetro rotto dalla quale siamo entrati ora è sbarrata dall’interno.
«Aspettate.» sussurro. Cerco di non urlare ma non corro rischi, la voce a momenti non mi esce nemmeno dalle labbra. Ammetto che in questo momento ho davvero paura. Mi giro per controllare se gli altri mi hanno sentita o se almeno esistono ancora, anche se mi costa un enorme sacrificio dare le spalle a quanto ho appena visto. In qualche modo sento che sto lasciando al nemico la possibilità di pugnalarmi alle spalle. Fortunatamente i miei amici sono ancora qui e mi guardano con aria interrogativa. Chiaramente non si sono ancora accorti di nulla ma hanno capito dal mio sguardo terrorizzato che non sto scherzando.
«La finestra dalla quale siamo entrati è stata chiusa dall’interno, non l’avete notato?» chiedo esasperata. Ora le loro occhiate sono confuse. Io sono nel panico più totale e loro continuano a non capire.
«Veramente è esattamente come l’abbiamo lasciata, è tutto normale.» mi fa notare Riccardo con calma glaciale.
No. Non è possibile. Mi giro di nuovo. Ha ragione lui, ovviamente, non c’è niente ad ostruire il passaggio davanti alla finestra. Se prima avevo paura ora voglio uscire di qui. Immediatamente.
«Ale, magari l’hai filmato. Sono sicurissima di quello che ho visto.» aggiungo quasi volessi giustificarmi. Ma non voglio che gli altri mi diano ragione, voglio solo sapere che non sto impazzendo. Ho la certezza di aver visto quella finestra chiusa allo stesso modo di come ora sono sicura di vederla aperta, esattamente com’era quando siamo entrati. Non era solo un’allucinazione, non può esserlo stata. D’altra parte però sono contenta di aver evitato il terribile cliché di essere intrappolati da qualche parte.
E va bene, proseguiamo, troviamo quello che cerchiamo e usciamo di qui. Per favore.
 
La parte a sinistra si rivela essere molto più interessante di quella che abbiamo già visto. Quasi subito troviamo una stanza piena di archivi che non sono stati completamenti distrutti quando questo posto è caduto in disuso. Ci sono decine, forse centinaia di cartelle, una per paziente, così dopo qualche minuto di ricerca troviamo finalmente la cartella clinica del paziente 507. Sfortunatamente vuota. Ad attenuare la nostra delusione è un intero reparto dedicato alle videocassette, anche se ormai ne sono rimaste ben poche. Ed è proprio qui che troviamo la cassetta CR68-507.3. Nonostante svariate decine di minuti di ricerca, purtroppo, non c’è altro. Alessio si infila il prezioso ritrovamento nello zaino e procediamo.
Ancora stanze vuote, letti abbandonati a se stessi, cumuli di sporcizia ovunque, prima che circa un’ora dopo troviamo una stanza diversa dalle altre. Anche in questa è buio ma non appena apriamo la porta ci accoglie un odore non esattamente piacevole. Vedo Erika costretta ad allontanarsi per non vomitare e io stessa mi obbligo a soffocare i conati mentre mi faccio avanti ed entro tappandomi il naso con le dita. La stanza è completamente vuota, come quasi tutte le altre, nonostante questo però deve esserci qualcosa che non va, solo che non sono in grado di trovarlo. Indirizzo la luce della torcia verso le pareti, cercando qualsiasi indizio, poi esco di lì per riuscire a pensare più lucidamente.
Gli altri stanno già pensando di proseguire quando realizzo. Riapro la porta già chiusa e mi guardo nuovamente intorno. Questa stanza è perfetta. Le pareti sono immacolate come se fossero appena state verniciate, non si vede una sola crepa nel colore. Anche il pavimento è pulito e ha tutte le piastrelle, come se qualcuno se ne fosse preso cura per tutto questo tempo. Il che è abbastanza strano, se non impossibile.
Mi faccio passare il cellulare da Alessio e riprendo tutto cercando di non lasciare fuori nemmeno un centimetro di questa camera, poi finalmente esco e mi chiudo la porta alle spalle definitivamente.
«So che sembrerà difficile da credere ma lì dentro era tutto immacolato, come se quella stanza non fosse mai stata abbandonata. Dovremmo segnarla sulla mappa per ricordarci dov’è.».
Gli altri, che non sono riusciti ad entrare, si limitano ad annuire, poi proseguiamo.
 
Alle cinque di pomeriggio ci arrendiamo e torniamo verso l’entrata. Abbiamo visto praticamente tutto senza fare ulteriori scoperte agghiaccianti, per fortuna. La finestra dalla quale siamo entrati è ovviamente ancora aperta, così possiamo uscire senza problemi, recuperare la  macchina e tornare a casa.
Affidiamo la videocassetta a Luca, decidendo di incontrarci due giorni dopo per vederla tutti insieme. Stavolta sarà una sorpresa per tutti. Oltre a quella vedremo anche i video  di Alessio, così potremo finalmente stabilire se quello che ho visto era reale o no e gli altri avranno occasione di vedere anche la camera che ho visto soltanto io. Non voglio correre il rischio di portare con me tutti i documenti che abbiamo rubato, ovvero quelli che ho trovato all’ingresso e la cartella clinica del paziente 507. Si tratta semplicemente di un foglio, con numero di camera, alcune indicazioni sui suoi tratti fisici e poco altro: il suo nome e la sua data di nascita. Che, giusto per toglierci ogni minimo dubbio rimasto, corrispondono a quelli del nonno di mio cugino.

 
   
 
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