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Autore: piccolo_uragano_    03/02/2016    3 recensioni
"Ma tu lo avresti mai detto, Ben?"
"Che cosa?"
"Che saremmo finiti con l'amarci sul serio."
Lui sorride, e io, nonostante tutto, non riesco a smettere di stupirmi.
[CROSSOVER GREY'S ANATOMY/ BEN BARNES]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Girasoli nella tempesta – capitolo otto: il signor Destino.
 
“Mamma, che vuol dire ‘mi manchi’?”

Mi manca Ben. Sono partita da tre ore, non sono nemmeno a metà del viaggio, eppure Ben mi manca già. Oh, maledetto inglese. Come fa a mancarmi dopo solo tre ore? Mi perdo a guardare l’immenso oceano sotto l’aereo, pensando a Ben, al viso di Ben, agli occhi di Ben, a quanto amo Ben, a quanto mi manchi più di ogni altra cosa. 
Ma è giusto così: la vita ci porta a prendere strade e a fare scelte radicali prima di poter capire che queste strade e queste scelte ci porteranno a chilometri di distanza dalla persona che amiamo – o che ameremo. 
Ben ha fatto in modo che, una volta arrivata a Seattle, io abbia una casa decente, una casa vera, con la porta le finestre la caldaia e lo scarico autonomo. 
“Avrai anche un bel divano.” Ha detto. “E anche una splendida vista di Seattle, perché le finestre sono enormi.”
Io avevo sorriso. “Sarebbe luminosa, se a Seattle battesse il sole.”
“Sai perché a Seattle non batte il sole?” aveva chiesto.
Io, seduta ai piedi del letto con addosso la sua camicia, lo avevo guardato, nudo e fiero, coperto solo dalla coperta. “No, perché?”
“Perché non ci vivo io.”
A quel punto ero scoppiata a ridere. “Oh, che ragazzo modesto!” 
Il ricordo delle sopracciglia aggrottate di Ben mi fa sorridere. “Ragazzo? Non sei tanto più vecchia di me.”
Io avevo risposto che mentre me ne stavo in riva al mare a festeggiare i miei diciotto anni, lui era un brufoloso ragazzino di quindici. 
“Smettila, bionda: io ero già bellissimo, a quindici anni!” aveva risposto, tirandomi un cuscino. “E non ero affatto pieno di brufoli.”
Io avevo riso di quel suo finto broncio, e poi il discorso era caduto su ciò che lui era davvero stato a quindici anni: uno studente con una media dei voti notevole, appassionato di arte e letteratura, che passeggiava per la scuola in cerca di quella bionda di nome Anne, che poi sarebbe diventata la sua Anne.
Il suo sguardo non è malinconico quando parla di lei: non gli manca, la vede solo come un periodo bellissimo della sua vita. I suoi occhi scuri si perdono a fissare un punto nel vuoto, mentre la sua mente vaga alla ricerca di ricordi che solo lui possiede, di cose che solo lui sa. Mi ha raccontato tutto di Anne: ora so che il suo colore preferito era il verde, il verde chiaro, quello fine ed elegante – “come lo era lei.”
“Lei era fine ed elegante?”
“Oh, si: era quasi regale.”
“E che ci fai ora con me?”
“Beh, in realtà non ne ho idea.”
“E quindi?”
“Quindi, quando vedrò il signor Destino gli farò un paio di domande.” 
Io avevo sorriso, pensando che quando avremmo visto il signor Destino passeggiare per Londra anche io avrei avuto parecchie cose da chiedergli e rinfacciargli. 

Welcome back, Doctor Martin.” 
La prima voce che sento quando entro in ospedale è la sua: Richard Webber, primario di Chirurgia di questo dannato ospedale. Sorrido e riporto la mia mente sulla lingua inglese, dandogli il buongiorno e accettando il caffè che mi sta offrendo.  “Fatto buon viaggio?”
“Ottimo, direi.”
“Quando sei atterrata?”
“Dieci minuti fa, in effetti.” Rispondo, entrando in ascensore e salutando un paio di infermieri. 
“Non vuoi tornare a casa a dormire, magari?” mi chiede Webber.
In quel momento, in ascensore entra Addison, che mi saluta con un abbraccio e mi soffoca con i suoi capelli rossi. “Sembri stanca, tesoro: perché non vai a casa a dormire un po’?” 
“No, ho dormito in aereo.” Rispondo. 
“Hai nostalgia del bisturi?”
“Moltissima: Ben giura che operassi ogni cosa che tentavo di cucinare.”
Lei sorride. “Come sta, Ben?”
“Bene, sta lavorando a un nuovo film.”
“Si, ho visto i giornali.”
“Oh, sono arrivati fino a qui?” sbuffo.
Webber mi sorride. “C’è stata un’intera giornata in cui si è parlato solo di te e Benjamin Barnes.”
“Che noia!” ironizzo. 
Addison mi osserva. “Non hai intenzione di sposarti, vero?”
“Ehm, no.” rispondo.
“Visto, Richard? Io lo avevo detto!”
“Oh!” esclamo, mentre usciamo dall’ascensore. “Avete creduto ai giornali!” 
“Si, in effetti è così.” Ammette Richard. “Devo dire che è stato molto divertente.”
Io mi fermo davanti alla porta dello spogliatoio degli strutturati: “Scusate, signori, ma sarei ansiosa di prendere in mano un bisturi.”
Addison mi sorride. “I tuoi specializzandi ti aspettano.”

“Julie!”
Forse è la parola che ho sentito di più, e sono qui da solo due ore.  Questa volta è Derek Sheperd, affascinante neurochirurgo, questa volta, come le altre, sono persone con cui prima raramente avevo a che fare. 
“Ehilà.” Gli dico, mentre controllo una cartella clinica.
“Come stai?” 
“Bene.”
“Com’è Londra?” 
Io alzo gli occhi e  sorrido. Di tutte le persone con cui ho parlato stamattina, lui è il primo a chiedermi di Londra. “Londra è splendida.”
“Ci sono stato da ragazzo.  Tu ci tornerai?”
“Immagino di sì: Ben verrà qui tra qualche settimana, ma poi l’idea sarebbe di tornare lì.” 
Lui sembra dispiaciuto. “Ci lasci?”
“Forse: dipende dove sarebbe più comodo lui.”
“E per il tuo lavoro?”
“Beh, ospedali ce ne sono ovunque.”
Lui sorride. “Ma non questo ospedale.”
Sorride e se ne va: lui è fatto così, vuole sempre avere l’ultima parola ma è dolce, alla fine. Credo. 
Non questo ospedale.
Oh, al diavolo l’ospedale. Voglio tornare a casa la sera e trovare Ben ancora vestito da Dorian Gray, voglio uscire di casa la mattina con lui ancora addormentato nel letto. Voglio urlare perché non ha comprato il latte, voglio arrabbiarmi perché la tavoletta del gabinetto è sempre alzata e perché Jack, ubriaco, dormirà nella stanza degli ospiti per la milionesima volta. 
Come fa Derek a non capire? 
Non m’importa dove saremo, penso, salutando un paziente del postoperatorio. Non m’importa, m’importa solo che ci sia lui, che ci siamo noi. Mentre cammino per le vie di Seattle, leggendo i messaggi di mia sorella Nicole, mi rendo conto che spesso mi sembra di avere bisogno di lui anche per respirare. 
L’aria di Seattle sa di mare e grattacieli, ma da quando Ben non se ne sta più qui, a camminare con me per queste vie, l’aria di Seattle mi soffoca. Sto soffocando, sto annegando, Ben dov’è? 
Nessun messaggio. Nessuna chiamata. Tre giorni da quando ho sentito la sua voce. Tre giorni che soffoco. 
Perché nessuno lo vede? Rispondo a Nicole che ne parleremo domani al telefono, e mi sento quasi in colpa: darle una mano con la sua vita mi faceva sentire utile, vicina a lei, ma ora non riesco a gestire la mia, di vita. Come faccio? 
Aiuto. 
Sto chiedendo aiuto, qualcuno mi può sentire? 
Aiuto.

Mi rigiro nel letto portando la mano sulla metà fredda. Ben non c’è. Non c’è mai stato, non ha mai dormito qui. Non ha mai visto quella magica finestra che sta in salotto, non ha sentito lo strano rumore che fa il frigorifero aprendosi e non ha visto quanto stanno bene le nostre foto appese in giro per l’appartamento. 
“Ben?” chiedo al buio con voce assonnata. 
So che non ci sei, so che non mi senti, so che sei lontano, ma mi manchi. 
In ogni secondo.

Mi alzo e vado in cucina, senza nemmeno accendere le luci: dalle finestre si vedono le luci di tutti i palazzi di Seattle e illuminano tutto quanto. 
Prendo un bicchiere e lo riempio d’acqua. Che ore sono? Quanto ho dormito? Da quanto sono qui?
È l’una e venti del mattino. Che ore sono a Londra? Come sta Ben? 
Domande, domande, domande. Troppe domande. Dove sono le risposte? 
Osservo il mio salotto buio come se potessi trovarle che passeggiano sul parquet. Voglio risposte
Ad esempio: perchè proprio Ben?
Torno in camera e afferro il telefono: Ben mi ha scritto un messaggio tre ore fa. Schiaccio il tasto verde e strizzo gli occhi. 
Ti prego, Ben, rispondimi. Ho bisogno di te. 
“Ehi, bionda.” 
“Ben?” 
“Sono proprio io. Perché non dormi?”
“Perché mi manchi. Sono due giorni che non ti fai sentire.” 
Lo sento sospirare. La sua voce. Quanto mi mancava la sua voce?
“Ricordi il discorso sul signor Destino, Julie?”
“Sì.” 
“Il signor Destino mi riporterà da te.”
E questo mi riempie di felicità pura.

Odio la domenica. Odio ogni cosa della domenica. No, odio le domeniche in cui non sono di turno. Le domeniche in cui lavoro sono piene di adrenalina: le gente di domenica si sente in grado di fare molte cose, come cucinare con coltelli affilatissimi, mettere insieme barbecue con cui si ustioneranno, fissare antenne sul tetto e cadere. 
Oh, Ben. 
Sono passate tre settimane e l’ho sentito al telefono una volta ogni due giorni, e poi abbiamo passato tre ore al telefono cinque giorni fa, di notte per me e di mattina per lui. L’ho visto in video chat cinque volte, ma era stanco e con i vestiti di scena mi faceva ridere. Sembrava uno di quei galantuomini dei vecchi film: sembrava proprio Dorian Gray. 
Giro per casa con una tazza di camomilla, guardando Seattle avvolta dalla notte: quanti chilometri ci sono tra me e lui? Quante persone, quante case, quante ore mi separano dalla mia felicità?
Il telefonino suona. “Ben?” 
“No, sweetheart, hai sbagliato Barnes.”
Io sorriso. “Ciao, Jack.” 
“Come te la passi?” 
“Alla grande, tu?”
“Sono annoiato.”
“Da cosa?”
“Dal mondo.”
“Che stupido.” 
“Non insultarmi così gratuitamente, bionda.”
Io sorrido. “Sei con Ben?”
“No, Ben sta lavorando.”
“Di domenica?”
“Sta ripassando il copione.”
“Perché non lo aiuti?”
“Non vuole. Lo conosci meglio di me, dai.”
Io scuoto la testa. “Mi manca, lo sai?”
“Non lo avrei mai detto.” Scherza lui. “Quando torni da questa parte del mondo?”
“Presto.” Rispondo, sospirando. “Però devo ammettere che lavorare mi mancava.”
“Questa è la Julie che conosco! Sei al lavoro, ora?”
“No.” rispondo, istintivamente. “Però potrei andarci.”
“Ecco, brava, vai a salvare qualche vita.” Scherza lui.
“Tieni d’occhio Ben.” Gli dico.
“Lui ha detto: tieni d’occhio Julie.”
“Julie dice di tenere d’occhio Ben.”
Lo sento sorridere. “Agli ordini, capo!” 
E attacca. E io sono felice che Ben abbia accanto una persona così. 
Improvvisamente, sento il bisogno di vomitare.

“Scusi, lei è un medico?”
No, ho il camice bianco perché mi piace come mi sta. “Sì, posso aiutarvi?” chiedo, sorridendo. 
Sono due ragazzine che avranno al massimo vent’anni, castane, truccate moltissimo ma nessun tipo di mascara può nascondere quello sguardo d’angoscia mista a paura e vergogna. 
“Io … insomma, si, credo di essere incinta.”
Okay, procedimento base. “Quando hai avuto le ultime mestruazioni?” chiedo, calma.
“Il sei dicembre.” 
“Beh, sono passati più di due mesi.” Le dico, facendole segno di seguirmi verso il laboratorio. “Quanti rapporti non protetti hai avuto?” 
“Ehm … un po’.”
Mi fermo e la guardo. È in imbarazzo. “Non ti preoccupare, non c’è nulla di male. Sai dirmi quando sono stati?”
“Tra Natale e Capodanno.” Risponde. “Lui si chiama Tim, e vive … in Inghilterra, era qui per le feste.”
Io le sorrido. “Anche il mio ragazzo vive in Inghilterra.” 
Inghilterra. 
Tra Natale e Capodanno. 
Sei dicembre. 
Oh, cazzo.

“Grey!” dico, vedendo passare la specializzanda. Lei si ferma e mi guarda. “Grey, ho un’emergenza personale: questo è un tuo caso.” Mi rivolgo alle due ragazze. “Scusatemi.”
Prego un Dio in cui ho smesso di credere che, per una volta, il mio istinto si sbagli. 

“Stevens!” dico, entrando nella cucina di casa Grey. Come mi ha raccontato la stessa Meredith Grey, lei è in cucina a cucinare muffin, e ha l’aria di esserci da molto, molto tempo. Era così anche ieri sera quando sono passata a salutarla, e anche la sera prima e quella prima ancora. 
Si finge entusiasta. “Julie! Gradisci un muffin?” 
“Izzie, tu sei un medico.” 
Lei abbassa lo sguardo. “No, non lo sono.”
“Hai una laurea in medicina, indipendentemente da ciò che hai fatto a Danny.” Prendo un muffin e lo osservo, ignorando l’effetto che il nome del mio amico ha su questa ragazza. “Quali sono i sintomi di una gravidanza?”
“Sei incinta?” mi chiede.
“Stevens, i sintomi.”
“Spossatezza, nausea mattutina, alterazione del seno, sbalzi d’umore, alterazione del senso del gusto, sensibilità agli odori, crampi …”
“Perfetto.” Le dico, riponendo il muffin. “Ora io non sono il tuo superiore, okay? Sono la donna che sarebbe dovuta essere la testimone di nozze del tuo fidanzato.”
Lei abbassa lo sguardo. “Okay.” 
“E in questo caso, questa donna ha nella borsa un test di gravidanza rubato in ospedale che da sola non riesce a fare.”
Lei sorride. “Okay!” ripete, facendomi segno di seguirla su per le scale. 

“Quanto tempo hai detto che deve passare?”
“Tre minuti.” Risponde lei, sbuffando. “Che faresti se fosse positivo?”
Io mi passo una mano tra i capelli. “Tutto questo è già successo, Izzie.”
Lei corruga la fronte. “Che vuol dire?”
Lei non sa. 
Non sa di Manuel, il mio bambino. Non sa quanto ero felice quando otto anni fa mi hanno detto ‘signora, lei è incinta’. Ero felice perché era la cosa più giusta da fare, era quello che tutti si aspettavano da me. Ma poi è andato tutto nel verso sbagliato, e questo Izzie non lo sa. Non sa quanto male possa fare un figlio che non ti ha mai nemmeno guardata negli occhi. Non sa quanto male possa fare immaginare che quel figlio non crescerà mai. Non sa il male che tutto questo ha fatto a me: ero una persona diversa, certo, ma ero comunque una mamma che non aveva avuto la possibilità di sentire il pianto del suo bambino. 
Io, lentamente, decido di mostrarmi. Mostrare le mie debolezze, il mio passato. È una cosa che mi ha insegnato a fare Ben: mi ha insegnato a mostrare ciò che sono e cosa mi ha resa così, senza vergognarmene o nasconderlo. Perché le cose tenute dentro, prima o poi, esplodono. 
Le mostro il polso destro, con tatuata quella M con quella stellina che ho disegnato io. 
“Lo avevo notato.” Mi dice lei. “Ma che vuol dire?”
“Manuel.” Dico, in un sussurro. “Mio figlio, nato morto.” 
Lei si porta una mano alla bocca e mi guarda con occhi pieni di paura. “Oh, Julie, mi … mi dispiace.” 
Odio la gente che dice mi dispiace. Ecco perché di solito evito di raccontarlo. “Sì, anche a me.” Dico. 
“Io … è per questo che hai divorziato?” mi chiede.
Io faccio spallucce. “Anche. Era finita da un pezzo, ma …” mi tornano in mente le parole scambiate con Ben quella prima sera sul molo. “Sai, una donna diventa mamma quando scopre di essere incinta. Un papà diventa papà quando stringe il suo bambino. Lui non ha mai tenuto in braccio Manuel, io sì, l’ho stretto forte e l’ho cullato anche se sapevo che era morto. Lui era lontano, per lavoro. Quando è arrivato era già tutto finito. Io ero la mamma di Manuel e lo sarei sempre stata, ma lui non era mai diventato il suo papà. E … non ha mai capito quanto soffrissi.”
Lei deglutisce. “Tre minuti!” esclama poi. Corre verso il bancone della cucina e afferra quel maledetto test, per poi guardarmi e sorridere. “Sei incinta, Julie.” Mi dice. 
Io sento chiaramente l’impatto della fredda piastrella della cucina sulla mia guancia. 

“Julie, Julie!” 
Qualcuno mi sta schiaffeggiando. 
“Julie Martin!” 
No, cinque minuti.
Apro un occhio e vedo Izzie che mi guarda con aria preoccupata. 
“Oh, grazie al cielo!” esclama. “Temevo di doverti portare in ospedale. Prendi” mi dice, porgendomi un bicchiere d’acqua. “bevi, respira.” 
Io mi metto seduta e la guardo. “Sei … sicura?” dico, afferrando il bicchiere d’acqua. 
“Sicurissima.” Mi dice. “Immagino che non sia una gravidanza programmata.”
“Oh, certo che lo era: avevo proprio in mente di avere un bambino con un uomo con cui sto da tre mesi che vive in un altro continente!” 
“Hai intenzione di abortire?”
NO!” strillo. “Dio, Stevens, passo le giornate a cercare di salvare vite umane, come puoi credere che possa pensare di abortire?!”
“Non urlare. Ehi, ma tu fumi!” esclama.
“Buongiorno, dottoressa Stevens. Hai frugato nella mia borsa o hai notato le macchie tra le dita?”
“No, ti ho vista una volta.” Mi dice. “Devi smettere.”
“Sì, mamma!” rispondo, alzandomi in piedi. Immediatamente, il mio telefono suona. Ben? Di già? Gli fischiavano le orecchie, immagino. “Che ore sono?” chiedo, notando il tramonto. 
“Le sei e trenta. Non rispondi?”
Le sei e trenta. No, allora a Londra sono le tre e trenta della mattina di domani. Non è Ben. Respira, Julie, non è Ben. Allora afferro il telefono, più tranquilla, ma il nome che leggo è comunque quello di quell’inglese maledetto. 

“Ti ripeto che non c’è nulla che non va!” strillo, salendo le scale del condominio. 
“Non mi piace il tono che hai.” Risponde lui. 
 Io alzo gli occhi. E dovrei dirgli che sono incinta? 
Ripenso a queste due parole strane. Sono incinta. Sono incinta, Ben. Avremo un bambino. Aspetto un bambino. Come facciamo? Come faremo?
“Che ci fai sveglio, piuttosto? A Londra saranno le … quattro del mattino!”
Lo sento sorridere. “Ti pensavo, bionda.”
Alzo gli occhi al cielo. “Alle quattro del mattino?” 
Spero solo che questo bambino non sia in grado di mentire, come il padre. E dire che è pure un maledetto attore!
“Dì un po’, Barnes, ma come fai a fare soldi mentendo? Non sei credibile nemmeno un pochino!” strillo, cercando le chiavi di casa. Lui non risponde, e quando apro la porta di casa il telefono mi cade a terra. 
Benjamin Barnes, padre del bambino che porto in grembo e uomo che amo immensamente, è in piedi in casa davanti alla porta, con il telefono ancora sull’orecchio e un sorriso che mi fa quasi perdere l’equilibrio. 
“Non sto mentendo perché non sono a Londra.” Mi dice, sorridendo. 
“Io ti amo.” Sussurro, con le lacrime agli occhi, mentre mi corre incontro e mi stringe, sollevandomi da terra. “Dio, se ti amo.” 
Quando mi bacia non ho dubbi. Non posso vivere senza di lui
E non voglio separarmi da lui mai più.
   
 
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