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Autore: Helsingoring    04/02/2016    1 recensioni
Leto è una ragazza di 18 anni con un nome pesante, una bocciatura alle spalle e sogni che faticano a spiccare il volo.
In un anno scoprirà che il mondo le è meno ostile di quello che pensa, che anche con un'ala spezzata è sempre possibile volare e che l'amore è tanto misterioso quanto complicato.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
 
Leggere D'Annunzio mi calma. È una virtù rara per me che vivo tra uno stato di nervosismo e quello seguente. Chi era quello che diceva che la vita non è altro che un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia? La mia oscilla soltanto tra lo stress e lo stress. O, almeno, così è stato da giugno a questa parte. Da quando sono stata innegabilmente e irrevocabilmente bocciata.

Inglese, scienze, matematica e fisica. Anche loro oscillavano tra un'insufficienza e quella seguente, finché non è diventato palese che non mi avrebbero fatto passare. Vani i tentativi di auto-convincermi che potevo ancora recuperare, vani anche quelle ripetizioni dell'ultimo momento che sono servite soltanto a far buttar via un quantitativo non specificato (anche se io so essere piuttosto ingente) di soldi da parte dei miei genitori. Soldi che mi stanno rinfacciando da due mesi. Come mi rinfacciano di aver sprecato la mia intelligenza.

Sotto sotto riconosco la mia colpa. Ero al parco quando dovevo studiare, in giro prima delle verifiche importanti, impegnata con la chitarra prima delle interrogazioni d'inglese.

Ho le mie colpe, lo ammetto. Ma allo stesso tempo anche quella d'inglese dovrebbe ammettere le sue. 

Ci siamo detestate dal momento in cui in nostri sguardi si sono incrociati: lei, con i suoi tailleur neri e i suoi capelli laccati, ed io, con i miei jeans strappati e quel cespuglio selvaggio che mi ritrovo. Se l'inglese non mi era mai piaciuto, lei me lo ha fatto odiare. 

Vediamo un po' chi posso sentire oggi su Shakespeare. Leto, vieni tu?

Poi, come sempre, provava un piacere sadico a pormi le domande più strampalate parlando il più velocemente possibile. Anche Chiara, la secchiona della classe, lo ha ammesso: con me alla cattedra si scatenava. Domande così machiavelliche a cui persino il Bardo non avrebbe saputo rispondere.

Se non ci fosse stata la Pecchi, l’anno lo avrei superato. Con tre debiti e la prospettiva degli esami di riparazione a settembre, ma lo avrei passato.

Invece ho passato l’estate chiusa nella mia stanza, privata del cellulare e del computer, controllata a vista da mamma e papà e con ogni via di fuga sbarrata. Gli afosi pomeriggi di luglio e agosto li ho trascorsi sui libri: una tizia di nome Serena (che, poi, tanto serena non era) laureata con 110 e lode in non ho ben capito cosa ha tentato di colmare le mie lacune matematiche e fisiche; un tizio dal naso appuntito e dal nome impronunciabile si è premurato di farmi capire la stechiometria e Susanna, una ex-compagna di scuola di mia mamma, ha disperatamente cercato di farmi apprezzare Shakespeare e compagnia bella.

Quello che ci ho guadagnato io? Tre mesi sprecati, una vacanza con Ricky e Valérie mancata e litri di sudore versati nel caldo torrido di una Lodi deserta. Il tutto condito dagli sguardi più o meno di disapprovazione (a seconda di come era stata la loro giornata lavorativa) dei miei. Che si aspettavano faville e si sono ritrovati con delle ceneri abbrustolite.
           
È tempo di migrare.

Se tutte le materie fossero scorse liscie come italiano! Un nove senza se e senza ma su cui non ho nemeno dovuto versare una goccia di sudore. Ma si sa, italiano è sempre stata e sempre sarà la mia materia e non c’è professore che possa mettersi tra me e Dante. O tra me e D’Annunzio.

Fuori ha cominciato a piovere. Le gocce rumoreggiano sul mio davanzale e contro la finestra. Chiudendo le persiane, un po’ d’acqua mi riga il volto. È fresca e sa di terra, sa di quell’estate che sta volgendo al termine, sa di nostalgia per un anno che è passato e che non vivrò più. Ma sa anche di nuovo, di cambiamento.

Il libro d’inglese poggiato sul tavolo sembra non credere troppo a questo cambiamento e mi guarda di traverso. Gli faccio la linguaccia. Andarci d’accordo è impossibile.

Mi rifugio sotto il lenzuolo, voltandogli le spalle, e continuo ostinata a leggere D’Annunzio.

Domani è il primo giorno di scuola. Il primo giorno in cinque anni in cui non sarò più nella mia classe, non sarò più con Ricky e Valérie, non sarò più un membro di quel covo di matti che tanto odiavo il primo anno e che ora amo da impazzire. Sarò con gente nuova, gente che ho incrociato tra un corridoio e l’altro, ma di cui non so nulla, gente che mi guarderà come una reietta, lasciandomi in un angolo. Quattro lunghissimi anni per ritagliarmi il mio spazio ed ora mi toccherà fare tutto da capo. Peggio di così cosa ci può essere?

Ah perché non son io cò miei pastori?
 
Perché sono stata bocciata, segata, cannata, mi dico mentalmente. E un po’ mi maledico. 

A pensar bene qualcosa di peggio c’è. Alberto. Alberto e i suoi lunghi capelli nero corvino, Alberto e i suoi occhi smeraldo, Alberto e il suo sorriso miracoloso. Alberto che ha deciso di andare a studiare Fisica a Padova, Alberto il cui ultimo messaggio risale a due mesi fa: ci si vede presto. E poi il nulla. Alberto che è riuscito a rendere quest’estate ancora più infernale di quello che già era. Non si è ricordato neanche del mio compleanno, niente.

Alberto che so bene che dovrei dimenticare, ma proprio non ci riesco. Perché i pomeriggi passati a discutere di come mettere su un gruppo, perché il suo cerca di essere un po’ più precisa quando suoni, perché la sua voce, il suo esistere non si possono dimenticare.

Valérie me l’aveva detto a gennaio che non sarebbe rimasto e che la fisica l’avrebbe portato lontano, ma io, testarda quale sono, ho fatto finta di non sentire. E gli sono morta dietro per i restanti cinque mesi. Finché, maturità finita lui, bocciata io, mi ha sorriso e mi ha detto di Padova.

Ancora non ci credo e ancora calde lacrime cadono sul cuscino, memorie di un amore che non si è ancora placato e che, forse, non si placherà mai.

Chiudo gli occhi e lascio che le ultime lacrime bagnino la federa. Le gocce di pioggia che rimbalzano sul tetto mi cullano e così mi addormento.

Sogno Alberto. Sogno un pomeriggio assolato di un’estate che non abbiamo vissuto. Vedo il blu dell’Adda e il verde degli alberi che lo bordano. Siamo entrambi in bicicletta, lui con i soliti bermuda grigio slavato e la maglietta degli Slayer ormai a buchi, io con un fisico da fare invidia a Bar Rafaeli che non c’entra niente con la vera me, un paio di shorts rossi che non potrei mai indossare nella realtà ed una maglietta che definirla tale è un reato contro la lingua italiana, tanto è corta e trasparente. Stiamo facendo una gara a chi raggiunge per primo il ponte della tangenziale, ci inseguiamo, ci raggiungiamo, ridiamo spensierati come se il domani non contasse. Vince lui. Scende dalla bicicletta e sorride trionfante. Gocce di sudore gli imperlano la fronte.

“Ho vinto.”

“Vedo.”

“Non si dà un premio ai vincitori?”

Sorride ancora, gli occhi verdi in cui si specchia il mio viso mi scrutano. Si china in avanti senza mai distogliere lo sguardo né smorzare il sorriso. Mi bacia. Sa di sudore, ma non importa. Sono le mie labbra attaccate alle sue ed è tutto ciò che desidero, e vorrei che non finisse mai, che la mia vita fosse un incubo da cui potermi svegliare e che il sogno fosse la realtà.
   
 
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