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Autore: theuncommonreader    14/02/2016    3 recensioni
Richmond, 1879. Madeline Moon è una giovane di buona famiglia priva grandi mezzi, penosamente consapevole delle sue misere prospettive future. Per il compleanno, riceve uno splendido dono: un meraviglioso specchio intarsiato di rose, recuperato chissà da dove da quella volpe di sua zia. La superficie di vetro macchiata dal tempo finisce per mostrarle più di quanto abbia mai desiderato vedere. A lei e a chi le è caro.
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Ti mostro non quello che sei, ma quello che vuoi.
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Storia partecipante al contest "Malia" indetto da YUKO CHAN sul forum di EFP e betato dalla splendida Flora.
Genere: Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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III.

Dreaming is a form of planning

 

 

Madeline sedeva a terra, le gambe incrociate e il busto chinato in avanti. Il collo piegato dolorosamente, strizzava gli occhi, concentrata.

Tra le dita, i gambi di rose si incurvavano docilmente, lasciandosi intrecciare senza troppa difficoltà. Le spine si conficcavano nella carne come sottilissimi spilli, ma Madeline non provava alcun dolore. Inalava profondamente l’odore pungente dei fiori, lasciandosene inebriare.

“Perché le rose, Alice?”

“Come “perché”? Non sono il tuo fiore preferito?”

Madeline arrossì in risposta, levando lo sguardo su quello limpido di Alice per poi riportarlo sul bocciolo intrappolato tra pollice e indice, i petali ancora stropicciati. “Nei tempi antichi si credeva che fosse nata dal sangue mortale e lacrime di dea [1],” spiegò anche se si sentiva sciocca a confidarle ad alta voce pensieri che Alice conosceva già.

“È il simbolo dell’amore che trionfa sulle avversità, ma della Vergine, di Gesù Cristo e dei martiri.”

Ricordava vividamente il discorso di commiato del reverendo Plumptre [2] alle Regine uscenti – più di qualcuna con le lacrime agli occhi, e Madeline non aveva fatto eccezione. Nella vecchia aula tirata a lucido, aveva lasciato che le lacrime le rotolassero sul viso liberamente e tirato su col naso senza un briciolo di decenza.

Il preside le aveva rimproverate bonariamente – Madeline rammentava lo sguardo gentile negli occhi appesantiti da sopracciglia folte – augurando loro di crescere forti come la rosa d’Inghilterra. “Ci hanno tirato su per essere rose inglesi [3] ma il massimo a cui posso aspirare, temo, è quella di Natale [4].”

Alice allungò una mano per sfiorarle il volto in una amorosa carezza.

“Ti sottovaluti, Maddie, come in ogni altra cosa. Di fronte a me vedo una giovane donna bella e intelligente – non certo una timida gramigna di campagna.” Raccolse dalle sue mani la rosa, portandosela al naso grazioso.  “E se anche fosse?” concluse, strofinando il bocciolo sulle labbra incurvate di Madeline, “Ciascun fiore ha i suoi pregi.”

 

 

 

 

Nella nebbia mattutina una sagoma si muoveva lentamente, trascinandosi lungo la schiena arcuata del ponte in pietra di Portland. I lampioni spenti gettavano ombre lunghe sulla pavimentazione di un grigio pallido, mentre la figura, un passo dopo l’altro, si faceva più vicina al parapetto, leggermente ingobbita – come gravata da un peso.

Madeline la vide arrestarsi, i nastri del cappellino nero che ondeggiavano nel vento gravido. Nella destra guantata di rosso stringeva i manici rigidi di una borsa Gladstone [5] di pelle invecchiata, non dissimile da quella che zia Martha usava portarsi dietro nei suoi brevi soggiorni londinesi a casa di amici. La dragona [6] che la fermava era tesa, quasi il contenuto premesse per evadere dai suoi confini. 

Con uno sforzo evidente, la giovane donna – perché di una giovane si trattava, la gonna dell’abito che si apriva ampia sulla vita sottile, gonfiandosi attorno agli stivaletti lucidi – si sporse appena col busto oltre il parapetto, riuscendo a sollevare la borsa e tenendola sospesa per lunghi attimi sulle acque limacciose del Tamigi, di un verde nerastro, che scorrevano chetamente sotto di loro.

La borsa ne perforò la superficie con un tonfo sordo, un rumore liquido che riecheggiò nelle orecchie sensibili di Madeline, mentre lo sguardo le scivolava sulle dita della ragazza, abbandonate sul corrimano.

Si rese conto allora di essere caduta in errore: non era un guanto di seta quello che aderiva alle dita lunghe e affusolate, ma un sottile, lucido strato di sangue non ancora rappreso.

Madeline spalancò gli occhi con tanto impeto da farseli dolere: dalla stufa emanava un bagliore aranciato che l’accecò per qualche momento, costringendola a battere le palpebre una, due, tre volte.

Il freddo della parete penetrava oltre il tessuto dell’abito da tè, gelandole la schiena quanto il fuoco le accaldava le guance, facendola sudare sotto le ascelle e tra i seni.

Inspirò profondamente, impiegando qualche attimo per comprendere dove si trovasse. Riconobbe la stanza quando mise a fuoco la grossa credenza di legno addossata al muro, i piatti di porcellana impilati ordinatamente sulla mensola e gli ingombranti barattoli di conserva ben etichettati uno affianco all’altro sul piano in acero. Non ricordava di essere scesa in cucina – rammentava i richiami di Kate, che, chissà per quale ragione, aveva insistito affinché scendesse dal letto e la raggiungesse dabbasso.

Si stropicciò la pelle sottile sopra gli zigomi, avvertendola gonfia di sonno, guardandosi attorno alla ricerca della cameriera – la sentiva intonare una canzonaccia, forse da qualche parte nel retrocucina.

Di malavoglia, si sollevò dalla sedia di legno, staccando la schiena dal candido muro nudo a mattoncini.

Sul tavolo al centro della piccola stanza era posato il vassoio per il tè, dove la teiera fumava placida in compagnia delle tazzine ordinatamente disposte l’una accanto all’altra, due soldatini che imbracciavano i cucchiai di porcellana come fucili, scortati dalla zuccheriera e dai piattini per i bignè.

Mrs. Barlow doveva essere arrivata per le solite chiacchiere del venerdì: Madeline era certa se avesse mosso qualche passo nel corridoio e teso l’orecchio, avrebbe colto la sua vocetta petulante in preda alla solita, irritante risatina – o peggio, i lamenti sussurrati sul futuro di zitellaggio che il buon Dio aveva in serbo per lei.

Alice aveva ragione su quella matrona perdigiorno: non aveva altro da fare, ora che il figlio s’era sposato, se non venire a mettere pulci nell’orecchio di zia Martha. Come doveva godere, come doveva sentirsi superiore alla sua amica, ora che quella perla di giovanotto aveva messo l’anello al dito della piccola Houghton.  

Uno sbuffo lieve le sfuggì dalle labbra; cercò con gli occhi la finestra, trovando con lo sguardo il profilo dolce della collina rinverdita dalla primavera.

Il suo compleanno si avvicinava – il loro compleanno – e la vivacità di Alice, che era tutta un fremito all’idea, aveva finito per contagiare un poco anche lei: con la mente già lontana ai loro progetti per quella fatidica notte, Madeline si accorse a malapena di non essere più sola.

Il respiro trafelato di Kate, con le guance arrossate per la fatica e il caldo del retrocucina [7], la spinse a voltarsi di scatto, nascondendo le mani dietro la schiena.

“Miss Maddie!” La cameriera le regalò un’occhiata perplessa. “Che fate qui in cucina? Vi serviva qualche cosa?”

Confusa, Madeline aggrottò la fronte, mentre l’altra si srotolava le maniche sollevate fino ai gomiti, senza curarsi di abbottonare i polsini troppo stretti.

Non era forse stata lei a chiamarla di sotto?

La domanda che le prudeva sulle labbra rimase incastrata in gola, mentre un senso di vergogna le stringeva lo stomaco sotto il vestito. In fede sua, nonostante se lo ricordasse chiaramente, non era così sicura di poter fare reale affidamento sulla propria memoria.

A dirla tutta, non sarebbe stata la prima volta che si fosse ritrovata in una delle stanze della casa senza apparente motivo, quasi il suo corpo avesse una propria volontà e si divertisse a ingannarla.

Ma no, non stava diventando pazza. Strinse gli occhi osservando la cameriera, studiando la sua reazione stolida alla propria presenza. A volte era certa che Kate e la zia si prendessero gioco delle ritrovate energie che la compagnia di Alice le aveva riguadagnato, assieme alla voglia di scendere dal letto, chiamandola da un lato all’altro della casa come una palla impazzita.

Le giornate erano sempre troppo lunghe, ma poteva spenderle tratteggiando su carta il bel volto di Alice, o muovendo agilmente le dita sui tasti del pianoforte, nella speranza che il suono le arrivasse oltre lo specchio.

Forse, vedendola così rinvigorita, quelle due avevano deciso di testarla, come si mette alla prova un bambino che affermi di esser malato per saltare la scuola. Si accorse di aver posato lo sguardo sulle tende a scacchi alla finestra. Riportò l’attenzione su Kate.

“Nulla, Kate,” fece dunque, cauta. “Avevo un languore e sono scesa per sgranchire le ossa,” continuò, prevenendo la domanda sul perché non avesse semplicemente suonato il campanello. “Mrs. Barlow è arrivata?”

“Ah sì, Miss Maddie, devo portare il tè. Se avete pazienza, tra qualche minuto torno e vi taglio una fetta di crostata. L’ho fatta con l’ultimo barattolo di conserva, sentirete che bendidio.”

Il tono era allegro, ma a Madeline non sfuggì la nota forzata dietro quel cinguettio ostinatamente gioioso. Annuì brevemente, mentre la cameriera si affrettava a prendere il vassoio tra le braccia, attenta a tenere in equilibrio le delicate porcellane, e si dirigeva fuori dalla cucina, imboccando il corridoio già illuminato dai lucernari a gas.

Madeline la seguì acquattata come un gatto.

Non una risatina tagliente, non un brusio eccitato dal pettegolezzo le giunse alle orecchie mentre si faceva vicina al salotto da disegno, abbastanza da sbirciare all’interno quando Kate fu sparita oltre la soglia. Madeline si concesse un’occhiata veloce.

Le due amiche tenevano vicine le teste: i riverberi del candelabro che faceva luce nella stanza colpivano quella grigia e incuffiata di Mrs. Barlow e quella rossa della zia, sospese sopra il tavolo basso dove facevano mostra delicati piattini di biscotti e canditi, e sottili fette di pane imburrato rimaste intoccate. Persino il cioccolato che la zia tanto favoriva giaceva abbandonato, senza un’occhiata dalla zia Martha, evidentemente troppo occupata a confabulare.

Kate si chinò a versare il tè, ma le due non parvero badarle: parlavano fitto, e Madeline sentì pronunciare il suo nome in un sussurro cospiratorio.

Parlano di noi alle nostre spalle.

La voce di Alice sembrava venire da qualche parte nella testa, bisbigliandole all’orecchio.

Odo ciò che tu non cogli, testarda ragazza. Quante volte devo ripetertelo ancora? Non possiamo fidarci di loro.

Dicono che siamo strane, anormali. Che abbiamo la faccia di un morto, che per giorni digiuniamo e poi ci ingozziamo di cibo come pozzi senza fondo; che passiamo da una stanza all’altra silenziose e spiritate, simili a fantasmi; che nel sonno scendiamo dal letto e passeggiamo in preda al delirio.

Lunghi brividi le percorrevano la schiena, arricciandole la pelle sotto la seta. Madeline strinse le mani l’una nell’altra fino a ficcarsi le unghie corte nella carne, marchiandola di dieci mezzelune violacee e perfette.

La Barlow le sta consigliando il dottore che possa aprirti il cranio e guardarci dentro.

 

 

 

 

“Alice, non può essere possibile. Non ci posso credere.”

Madeline teneva nelle proprie le mani della gemella, rigide e ghiacce.

Come l’acqua e l’olio, la luce del sole morente fuori dalla finestra non riusciva a mescolarsi con quella ultraterrena che accompagnava le visite di Alice da oltre lo specchio. La sua candida brillantezza feriva le iridi di Madeline, facendole pulsare la testa.

Mrs. Barlow non se n’era andata da molto e aveva poco tempo prima di scendere per la cena. Il profumo di pesce si insinuava dalla fessura tra il pavimento e la porta serrata, ma lo stomaco di Madeline era stretto nel guanto di ferro della preoccupazione.

“È certamente così. La zia Martha è sempre stata tanto cara con noi, ci ha sempre voluto bene. Tuttavia, non ci comprende, Maddie. Solo noi riusciamo a capire il legame che ci unisce, quanto indissolubile esso sia.”

Gli occhi di Alice erano asciutti ma liquidi. Pareva stesse per scoppiare in lacrime.

“Ci vogliono separare.”

Madeline si liberò, voltandole la schiena. Il dubbio le martellava la fronte e le tempie dall’interno del cranio e lei scrollò il capo nel tentativo di cacciarlo via. Incrociò le braccia sul petto, stringendosi nella camicia da notte.

“Vai via, Alice.”

Un silenzio gravido seguì a queste parole, pronunciate con una voce tanto gelida che a fatica Madeline la riconobbe propria. Ai suoi piedi, le rose presero a ritirarsi in un fruscio serpentino, i tralci che si scansavano come di fronte a una bestia feroce che non desideravano eccitare.

Il fiato le grattava in gola mentre combatteva i singhiozzi.

“Vattene via!”

Questa volta non un mormorio, ma un urlo, di cui si pentì l’attimo stesso in cui sfuggì dalla prigione delle labbra. Ruotò su se stessa, un braccio teso verso la gemella, ma solo la specchiera ricambiava stolida il suo sguardo.

Desolata da quella vista, Madeline emise un gemito profondo come provenisse dal profondo di sé.

 

 

 

 

Madeline avvertiva il peso dello sguardo di Kate gravarle sulle spalle.

La cameriera stava ritta dietro la sua schiena – era certa che la stesse fissando con quei suoi occhi di cagna. Maledetta lei che si era lasciata sorprendere e maledetto il tremendo tempismo della cameriera. Furtiva, strofinò un occhio arrossato, mentre la lingua di zia Martha riempiva il silenzio del salotto, coprendo l’ululato del vento.

“… ci potresti credere, mia cara? Piccola ingrata di una Barlow, sono certa che neanche mi avrebbe detto che sarebbe partita… Madeline, tesoro, che succede ora?”

L’impazienza nel suo tono costrinse Madeline a raddrizzare le spalle e a stiracchiare un sorriso.

Se in passato la sua esistenza non era stata altro che un’altalena di giornate buone e cattive, avrebbe sacrificato una mano per tornare a quella vita, quando Alice non esisteva e la specchiera non stava a guardarla agitarsi nel letto senza risposte né consolazione.

Il dolore abissale che la tormentava avrebbe potuto prevederlo; la collera che le bolliva dentro – un’ira cieca contro il mondo – per nulla.

“Cerca di stare su, figliola: è pur sempre la tua festa, santo Cielo.”

 Vent’anni, priva di prospettive e irrimediabilmente zitella: Madeline non capiva proprio cosa ci fosse da stare allegri.

“Vi ringrazio, zia, ma non vedo per quale motivo dovrei esserne contenta.”

Si alzò in piedi di scatto, con un’energia che non credeva di possedere, facendo cozzare una forchetta d’argento contro il piatto semipieno. “Sono certa che pensiate di fare il mio bene, spronandomi a questo modo, ma vi assicuro che non mi aiutate!”

Si drizzò con impeto, una mano che si abbatteva sul cristallo del bicchiere mandandolo in frantumi sul tavolo apparecchiato con la tovaglia buona.

La zia la fissava come se le fosse spuntata un’altra testa.

“Sono stanca di essere pungolata continuamente a fare meglio, a fare di più, a scendere dal letto. Lasciatemi vivere in pace!” urlò, mentre un controcanto di singulti isterici le faceva tremare la gola.

Raccolse le gonne, incespicando sulla gamba della sedia che fece rovinare a terra, e corse di sopra, gli ammonimenti di Alice che riecheggiavano nella mente come un rombo di tuono lontano.  

 

 

 

 

Quando la zia richiese la sua presenza in salotto, Madeline scese senza una protesta, pure se la collera che era esplosa a tavola ancora le ribolliva dentro, facendole stringere i pugni chiusi, la pelle che tirava sulle nocche.

Zia Martha la osservava grave, accomodata sulla poltrona dietro la scrivania. Un raggio di sole le cadeva sulla fronte, esaltando le pieghe di preoccupazione che la solcavano.

“Non sarei voluta arrivare a questo, Madeline,” principiò solenne. “Tuttavia, vedo che tu mi costringi. Ho preso appuntamento con un professore, a Londra – uno che si occupa dei mali della testa.”

Nella tiepida luce di metà marzo, Madeline prese a tremare.

  

 

 

 

NOTE

[1]: Si riferisce alla leggenda della morte di Adone, giovane principe frigio pianto dalla sua innamorata Afrodite.

[2]: Edward Hayes Plumptre era un famoso reverendo e professore del tempo, realmente preside del Queen’s College fino al 1879.

[3]: La rosa è il simbolo dell’Inghilterra ma indica anche la pelle chiara tipica del paese.

[4]: L’elleboro, pianta ornamentale dal fiore a cinque petali, estremamente velenoso.

[5]: L’antenata della valigia, una borsa larga generalmente in pelle.

[6]: Cordino in tessuto intrecciato.

[7]: Locale in cui, nella casa vittoriana, veniva fatto il bucato e lavati i piatti.

 

   
 
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