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Autore: Kat Logan    19/02/2016    2 recensioni
Paradiso e Inferno; è ciò che si ritroveranno ad affrontare i protagonisti di Stockholm Syndrome in questa nuova avventura.
Hanno amato, realizzato i propri sogni, hanno accarezzato il paradiso nella pacifica Osaka ed ora devono ristabilire l'equilibrio; troppa gioia tutta in una volta è da pagare.
Per uno Yakuza la cosa più importante è l'onore, così, Akira e Haruka seguiranno le proprie tradizioni.
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"Ovunque andrò, sarai con me. E avrei voluto dirlo in modo diverso, in un’occasione differente…magari al lume di candela, su un tetto, sotto alla luna, al nostro terzo matrimonio. Ma sai, un momento giusto non c’è mai. Quello giusto è quando lo senti, ovunque tu sia..quindi…lo dico adesso, forte come non l’ho mai sentito prima d’ora. Ti amo e questo non cambierà, non è cambiato nemmeno nel momento in cui non mi sono più riconosciuta".
[Sequel di Stockholm Syndrome].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Nessuna serie
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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Kissing The Dragon
Capitolo 4
La regina rossa
 
 
Kabukichō sapeva come spassarsela alla grande. Quartiere trasformista di giorno mostrava la faccia tranquilla e di notte diveniva cantiere di sogni perversi, fantasie oscene e baccanali a non finire. Tokyo le aveva donato un soprannome adatto solo ad una bellezza del genere “Sleepless town”, città senza sonno dove si concentravano love hotel, night club, strip club, case chiuse e discoteche per soli uomini. Kabukichō faceva la preziosa, mostrava le sue meraviglie spesso solo a chi scorreva in corpo sangue giapponese lasciando agli stranieri la bocca arida come avessero percorso chilometri nel bel mezzo del deserto senz’acqua.
 
“Sento la tua puzza di pesce fin qui”.
Una giovane ventisettenne dai lunghi capelli rossi raccolti in due code morbide sedeva su quello che aveva tutta l’aria di essere un trono. Attorno a lei sei energumeni dall’espressione poco rassicurante vestivano di nero e sedevano in posizione seiza[1] come fossero pronti a fare seppuku[2] se solo la donna lo avesse ordinato.
“Onee-sama”. L’uomo si prostrò in un inchino profondo e lei deliziata a quella visione ridacchiò soddisfatta accavallando una gamba sull’altra per poi puntare un gomito al bracciolo del suo eccentrico trono cremisi.
Era annoiata dallo stare lì a gestire tutte quelle puttanelle che dovevano solo far divertire i loro clienti per guadagnare una barca di denaro che lei avrebbe poi sperperato per quel che riteneva più giusto.
“Che fai non ti scusi per il tuo puzzo?” inarcò il sopracciglio mentre l’uomo al suo cospetto senza alzare lo sguardo respirò a fondo pronunciando un “è imperdonabile il mio olezzo, mia signora”.
“Odio Osaka, qui mi piace di più!” esclamò lei leccandosi le labbra. Non capisco come il nostro clan possa avere la sede in un posto del genere. Sbuffò, alzò le iridi al cielo e sbatté le ciglia un paio di volte. Ma quel viscido topo di fogna, come lo riteneva lei, chinato al suo cospetto era diventato una piacevole distrazione da quel lavoro notturno.
“Sei venuto qui per baciarmi i piedi o hai qualche buona notizia per me?” indagò lei giocherellando con una ciocca infiammata che le ricadeva sui seni fasciati da un succinto top nero dalla trama amaranto vagamente orientaleggiante.
“Hanno ricevuto l’avvertimento”.
“E come hanno reagito?” domandò visibilmente incuriosita spostandosi in avanti con tutto il corpo.
“Scappano tremanti ed impauriti al loro covo, Onee-sama”.
La giovane parve soddisfatta e provò un malsano piacere da capo a piedi per ciò che le era stato appena riferito.
Amava la paura, era la sua emozione preferita. La paura se non la sai usare a tuo vantaggio ti fotte il cervello ma se riesci a domarla allora sarà la tua via di salvezza. Per lei la paura era un’arma a doppio taglio ma anche potere immenso e non a caso, tutti quei bastardi al suo cospetto, se li era guadagnati schiacciandoli proprio sotto quel tipo di emozione.
“Goditi qualcuna di queste aitanti bellezze Azuma. Per sta sera sei il mio orgoglio”.
La Sakaume – gumi aveva appena annunciato a Tokyo che qualcun altro da temere e  rispettare era arrivato in città.
 
***
 
“Che diavolo è successo?!”
Haruka aveva l’aria di un’invasata nel varcare la soglia della stanza sterile ospedaliera.
“Sarà stato il tuo disinteresse ad avermi fatto collassare! Brutta bestia l’amore” disse in tono scherzoso Michiru con un leggero sorriso ad illuminarle l’incarnato di porcellana.
Haruka non colse l’ironia dell’altra e ancora in preda alle palpitazioni e al terrore che qualcosa di terribile fosse accaduto all’unica cosa preziosa della sua vita si avvicinò al lettino senza salutare Ami, seduta al capezzale della sorella intenta a guardare i valori degli esami a cui l’aveva sottoposta.
“Non scherzare”.
“Okay, credo sia ora che io vada!” esclamò Ami con la sensazione addosso di chi si trova tra due fuochi. “Ritiro solo l’ultimo accertamento e…”.
“Si ecco. Ribaltatela da cima a fondo non voglio sia escluso niente!” la interruppe la bionda sotto lo sguardo incredulo di Michiru.
“Haru, non sto morendo…”
“Ami, puoi confermare?”
La specializzanda ridacchiò imbarazzata accennando poi col capo un gesto affermativo per poi dileguarsi lungo il corridoio.
“Quindi dove sei stata tutto il giorno?” cercò di distrarla Michiru sospirando per poi far frusciare con un movimento del braccio il filo della flebo sul lenzuolo ancora intonso e piegato.
“Prima tu” incalzò l’altra sedendosi al posto di Ami.
“Ho solo avuto un attacco di panico, penso si possa definire così. Nulla di più. Ovviamente Ami, per prevenire forse ogni tua paranoia, ha ben pensato di ribaltarmi come un calzino così da escludere persino un raffreddore”.
“L’ho già detto che tua sorella è una persona intelligente e ha la mia stima?”.
“Non penso ma l’avevo già intuito…”.
Il ticchettio dell’orologio a muro scandì quaranta secondi di silenzio nella stanza. Haruka ritrovò il suo self-control e il suo momentaneo esser logorroica svanì sotto la sua solita soglia. Le era preso un colpo quando aveva saputo che Michiru si era sentita male in sua assenza, così non era più riuscita a mettere un freno alla lingua oltre che alle buone maniere, visto e considerato che il taxista chiamato non era stato pagato adeguatamente per il suo servizio – a causa della fretta della bionda – e si era pure beccato un paio d’insulti da lei.
Michiru sospirò allungando una mano verso la sua ragazza e azzerare le distanze tra loro. Senza grande sforzo riuscì ad intuirne la preoccupazione anche se non sapeva se fosse tutto dovuto al suo mancamento o meno. Leggeva Haruka come fosse un libro aperto, il suo preferito per inciso, quello che se anche lo si rilegge più e più volte non risulta mai noioso.
Intrecciò le dita tra i fili d’oro della sua frangia e con voce pacata le domandò nuovamente ciò che aveva già chiesto in precedenza.
“Che è successo?”.
“Ho preso un acquazzone in testa…” tergiversò.
“E oltre a questo?”
“Setsuna mi ha chiamata”.
“Ah”. Michiru fu tanto stupita da rimanere per qualche istante senza parole. Non riusciva a trovare una ragione per cui Haruka fosse stata convocata dalla poliziotta a meno che non si fosse cacciata in qualche guaio. Ma con la pazienza di una madre alle prese con un monellaccio si limitò ad aspettare che fosse l’altra a confessare il proprio misfatto.
“Non è stato un incontro romantico”.
“Non fare quella smorfia di compiacimento per il tuo aspetto!”.
“E perché scusa?! Pensi che il mio fascino non abbia potere su di lei?”.
Michiru si lasciò andare ad una risata, alle volte era davvero difficile rimanere impassibili davanti al buffo egocentrismo di Haruka.
La sua mano discese dai capelli agli zigomi fino a trovare quella dell’altra come a farle capire che poteva fidarsi ancora una volta, che avrebbe potuto farlo in eterno. Bastò quello senza alcun incitamento a parole per farla sbottonare quel po’ che bastava per far intravedere uno spiraglio della sua giornata a Michiru.
“Collaboro con la polizia…dovrò tornare a Tokyo”.
“Da yakuza a poliziotto?! Che salto di carriera!”.
“Sono una donna dalle mille risorse”.
“L’ho sempre sospettato. E dimmi…è una novità?”.
“E’ una novità. Per oggi può bastare l’interrogatorio agente Kaiō?”.
“Direi di sì”.
“Allora dammi un bacio e scappiamo! Come al solito…”.
“Dovrai portarmi in spalla”.
“Come un sacco di patate”.
“No, come una signora!”.
“La signora dei sacchi di patate!”.
“Che maniere!”.
“Di che hai avuto paura?” domandò senza alcun preavviso Haruka per poi avvicinarsi al viso di Michiru. “Devi aver avuto paura di qualcosa per essere stata vittima di un attacco di panico…” . Soffiò sulle labbra dell’altra, affondando col suo sguardo blu intenso negli specchi d’acqua che la fissavano.
“Mi prenderai in giro se te lo dico?”.
“Michiru”.
“Ok. E’ solo che…” Michiru indugiò un momento e ad Haruka parve che l’elegante sicurezza dell’altra vacillasse come un lampadario a vetri sotto le scosse di un terremoto.
“Solo che…?” la incalzò impaziente la bionda senza riuscire a trattenersi oltre.
“Credo di aver visto un fantasma”.
Seguì un istante di pausa in cui gli unici rumori erano quelli ovattati al di fuori della stanza in cui si trovavano loro due.
Haruka non era superstiziosa ne tanto meno una che credeva a certe cose, eppure sentì chiaramente la spina dorsale venir percorsa da una scarica di brividi nel momento in cui Michiru le rivelò di quale fantasma stesse parlando.
 
“Assomigliava a Daisuke”.
 
Ken Azuma ci sta braccando. Le parole di Akira, come una profezia funesta, le tornarono alla mente in quel preciso momento.
E se la sua vera preda fosse chi ci sta vicino?
Gli incubi peggiori stavano prendendo vita nella mente di Haruka.
Non avrebbe mai permesso che Michiru fosse preda di un occhio per occhio, non in questa vita e tanto meno in qualche altra.
 
***
 
Setsuna si strinse nel cappotto.
Anche tra gli alti palazzi di Kabukichō il vento soffiava impietoso quella sera.
Tre ragazze in vetrina, vestite di sola biancheria intima bianca, giocavano dentro ad una vasca tirandosi acqua e sapone addosso per gli sguardi di qualche cliente voglioso.
Setsuna, col suo tipico cipiglio severo, guardò dritto davanti a sé per incrociare la sola figura con cui aveva appuntamento.
Sulla strada principale del quartiere, tra la folla di uomini che comprendeva i più disparati strati sociali della popolazione cittadina, qualcuno la stava pedinando a distanza.
Un paio di all stars nere dalla suola consumata macinava l’asfalto confondendosi in mezzo a tutto quel brusio senza mai perderla di vista.
L’agente Meiō, in borghese, si bloccò davanti ad un host club e con fare disinvolto strinse il nodo dell’impermeabile beige piantonando con le pupille la porta del locale di fronte a sé.
“Sembri sempre così arrabbiata!” la voce che la raggiunse era squillante, pareva uno scampanellio. “Brutta serata, agente?”. Una mano pallida e affusolata le si poggiò sull’addome agganciandosi poi al nodo di stoffa che chiudeva l’indumento beige quasi a volerglielo sfilare di dosso.
“Non particolarmente”.
L’altra rise. Era una ragazza esile, di bassa statura con una lunga frangetta a coprirle la fronte che pareva volersi impigliare con le lunghe ciglia folte finte nere.
La chioma corvina era raccolta in due treccine che ricadevano morbide sulla scollatura troppo ampia che metteva in mostra i piccoli seni sodi.
Anche chi pedinava Setsuna si bloccò. Si fermò davanti ad un cowboy club notando la vestita da scolaretta hot della più giovane e del suo approcciarsi all’agente.
“Hai un nome da darmi?”.
La ragazza si guardò attorno vigile, parve trattenere il fiato e con una moina scroccò ad un passante sigaretta e accendino. Una palpata al sedere fu uno scambio equo e tornò a rivolgersi a Setsuna con un tono di voce più basso da quello con cui l’aveva accolta.
“So solo che la chiamano la regina rossa…”. Prese una boccata di fumo, poi allargò un poco le labbra e provò a fare un anello con scarso successo.
“Non è una con cui si scherza. O almeno così si dice. Ma posso dirti per certo che sebbene sia da poco in città è una che conta eccome”.
“Non puoi dirmi di più?”.
Questa volta lo sbuffo di fumo le scivolò fuori dalle labbra andando a solleticare il mento di Setsuna.
“Oh agente…” la cicca cadde a terra e le mani con lo smalto nero alle unghie presero a giocherellare con il bavero della giacca della donna. “Per sta sera ho finito la mia pausa, saranno guai se non rientro. I pervertiti hanno poca pazienza e i datori di lavoro ancora meno…”.
“Mimì, potrei portarti via da tutto questo schifo”.
“Non si fanno promesse alle persone che sguazzano in mezzo a topi di fogna e gente pericolosa”.
Mimì ammiccò, sorrise a Setsuna e con una piroetta fece per tornare al locale.
“Quelli che fanno il mio mestiere non hanno paura di…”
“Non ho mai detto di voler essere salvata” la interruppe così. Con una frase un occhiolino malizioso e una sculettata disinvolta come saluto.
La donna segnò su uno scontrino la dicitura regina rossa. Raccolse il mozzicone in onore del suo senso civico per riporlo in un apposito contenitore a un paio di metri da sé, mentre la sua ombra dalle all star nere si dileguò in mezzo a quel caos di corpi.
 
 
***
 
 
Benché avesse nuovamente messo piede a Tokyo, Akira non aveva avuto il coraggio di tornare al suo vecchio appartamento. Con Minako al suo fianco – attaccata al cellulare da circa venti minuti per riorganizzare la propria vita – aveva deciso di non disfare ancora le valige e trascinarsele dietro poiché Haruka pareva non potesse aspettare oltre per incontrarlo.
I due si sedettero al tavolino di un eccentrico caffè nel cuore di Shibuya in attesa della loro compare.
Minako finalmente tagliò il suo “cordone ombelicale” col telefono sospirando pesantemente da quella che per lei era stata una vera e propria faticata.
“Fatto, ho sistemato tutto. Farò tirocinio nello stesso ospedale di Ami” affermò soddisfatta per poi abbandonarsi con la schiena al morbido schienale rosso che le stava dietro.
“Torneremo al quartier generale?” domandò poi perdendosi con lo sguardo sulla vetrina dei dolci poco distante da loro.
“Non so se sia il caso Mina…” sentenziò all’erta Akira.
In ogni momento sarebbe potuto sbucare qualche Yakuza del proprio clan e fare domande scomode. Sentiva l’acciaio freddo della propria revolver contro la pelle del ventre pronta ad essere estratta in caso di bisogno. Ad Osaka aveva dimenticato quella sensazione, quella di essere costantemente sul filo del rasoio, braccato come un animale in fuga da un cacciatore.
“Ci sono abituata ai brutti ceffi, dovresti saperlo” sostenne lei, attorcigliandosi all’indice una lunga ciocca di capelli biondi.
Akira capì che stava parlando a vuoto perché per quanto la fidanzata non smettesse di blaterare la sua attenzione era diretta alle squisitezze esposte al bancone.
Non cambiava mai lei, il mondo poteva essere in continuo mutamento ma Minako rimaneva una certezza con tutte le sue stramberie.
Si ridestò da quei pensieri solo quando riconobbe la figura alta e magra di Haruka farsi strada all’interno del locale.
“Perché non scegli tu qualcosa per tutti e tre Minako? Di certo sei quella che se ne intende di più”.
Alla ragazza non parve vero di aver voce in capitolo senza che nessuno si opponesse. Non se lo fece ripetere due volte, scattò in piedi con gli occhi luccicanti di emozione e con un saluto frettoloso all’amica appena arrivata annunciò che non avrebbe deluso nessuno.
“Torno fra poco!! Siediti Haruka, penso a tutto io! Vedrai che bomba che ti faccio avere!”.
“Bella dolce mi raccomando! Che il caratteraccio di Haru bisogna smussarlo con lo zucchero quando non c’è Michiru nei paraggi!” gli urlò dietro Akira.
“Cosa mi sono persa?” domandò Haruka facendo stridere i piedi della sedia al pavimento dalle piastrelle color fluo.
“Nulla, un diversivo. Come sta Michiru?”.
“Niente di grave. Ha solo avuto un mancamento dovuto ad una brutta sorpresa. Ha avuto un incontro ravvicinato con Ken Azuma, il monco!”.
“Merda”.
“Lo hai detto fratello”.
“Pensi che sospetti qualcosa? Non ti pare strano le stia ronzando intorno per caso?”.
Haruka si sedette sporgendosi sul tavolo per arrivare col viso più vicino all’amico di modo da parlare con un tono più basso.
“Penso solo una cosa ormai Akira…” dovette deglutire prima di pronunciare quelle parole. “Penso abbiamo bisogno della protezione della ikka, o finiremo a fare compagnia a tu sai chi molto presto”.
Il ragazzo si sentì gelare il sangue. La coda dell’occhio le cadde sulle spalle di Minako incurvate per indicare meglio alla barista una fetta di torta dalle chilocalorie innumerevoli.
Non riusciva a far altro che ad immaginare quelle due piccole spalle in una fossa contro le sue.
“Non posso farlo senza di te Akira”. L’amica le poggiò una mano al polso.
Oceano e ghiaccio si scontrarono in uno sguardo che valeva più di mille parole.
“Collaboro con la polizia Akira…possiamo distruggerli dall’interno…”.
“E a Michiru e Minako non pensi?” chiese tra i denti.
“ Non capisci? E' l'unico modo per tenerle al sicuro. L' unico per cambiare le cose una volta per tutte”.
E in quel “E' l'unico modo per tenerle al sicuro” Akira riuscì a carpire tutto quello che nessun altro avrebbe potuto mai.
Sgranò gli occhi portandosi la mano destra al petto. Il dragone sul suo braccio parve prendere vita da quel movimento brusco e inatteso.
“ Chiederai a Michiru…”.
“ECCOMI! Torta con fragole e panna, Tortino di cioccolato e pistacchio con granella di mandorle e…questa cosa coloratissima di cui ho scordato il contenuto ma dev’essere micidiale! Arrivano i frappè! Il tè è vintage ormai. Di cosa state parlando?!”. Minako poggiò il vassoio indagando subito sul loro confabulare vista l’espressione esterrefatta del fidanzato.
“Haruka diceva che…”
“Che ho visto una casa Minako, potrebbe fare al caso vostro. Sembrava carina dal volantino”.  Lo interruppe l’amica per mettere a stroncare ogni germe di curiosità di Minako nei confronti dei suoi piani con Michiru.
“Ah si?”.
“Si. Uno di quegli appartamenti da neo sposini…intimo e accogliente”.
“Oh…” Minako schiuse le labbra incuriosita.
“Eh…” Akira riuscì solo ad emettere quel verso in aiuto all’altra, ancora shockato per tutte quelle novità che gli erano state sputate addosso senza mezzi termini.
“E adesso mangiamo queste…”
“Delizie”, puntualizzò la ragazza.
“Si, delizie” l’assecondò Haruka.
Akira diede un colpetto di anfibio alla punta delle scarpe di Haruka.
La bionda le mollò un calcio al polpaccio per tutta risposta rivolgendogli uno sguardo serial killer, mentre Minako era già intenta a mandar zucchero ai propri neuroni per poi coglierli in fallo al momento più opportuno.
 
 
*** 
 
 
Nelle città senza Mare… chissà a chi si rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio… forse alla Luna…
 
Michiru chiuse il libro che riportava su pagine quelle parole, alzò lo sguardo fuori dalla finestra e notò che Tokyo sembrava non possedere nemmeno la luna oltre le stelle. Non quella notte per lo meno. E allora a chi si rivolgeva la gente senza mare e senza nemmeno la luna?
I pensieri divagavano al di là del vetro e solo il passo educato di Ami che entrò nella stanza riuscì a sgrovigliarla da quelle domande inutili e prive di risposta.
“Pensieri profondi?” domandò con cautela e un sorriso a fior di labbra la più giovane.
Michiru scosse in segno di diniego la testa per poi coprirsi un po’ di più col lenzuolo blu di e poggiando Banana Yoshimoto sul comodino.
“Papà è a letto?”.
“Papà è letto”.
Seguì un momento di silenzio interrotto da Ami che ripose il camice dell’ospedale di ricambio, fresco di bucato, nell’armadio della stanza.
“Avevi bisogno di lui?”
“Non proprio. Ma…credo di dovermi spostare definitivamente da Osaka, qui. Credi avranno bisogno di un’insegnante di musica?”.
Ami arricciò le labbra per poi guardarla con sguardo interdetto. “Mi stai dicendo che temi il tuo curriculum non valga a nulla? Puoi stare tranquilla, faranno a botte per te se necessario!”.
In realtà Michiru continuava a pensare al mare. Alla sua buona notte prima di dormire e allo scrosciare mattutino che le dava il buongiorno con la sveglia. A Tokyo ci sarebbe stata Haruka, c’erano solo palazzi a perdita d’occhio anziché la spiaggia che salutava ogni mattina ad Osaka.
“Ti trasferisci perché Haruka è tornata vero?”, nel domandarlo socchiuse la porta così che Yoshio non si svegliasse sentendo parlare della fidanzata donna della sua figlia maggiore.
La risposta arrivò con un cenno di capo ed Ami non le lasciò dire altro.
Sentiva l’eccitazione schizzarle fuori da ogni poro della pelle e non poté trattenersi più a lungo.
“Hai un appuntamento?”
“Cosa?”.
“Qualcosa che ti migliorerà di gran lunga la giornata!”.
Michiru assunse un’espressione confusa ma la sorella fu pronta a togliere quanto meno una buona dose di dubbi.
“Devi andare al tempio Daijingu”.
“Devo?”.
“Assolutamente sì”.
“Oh…ok. Se lo dici tu…vieni con me?”.
“Non posso”.
“Mi spedisci da sola a Daijingu?”.
“Non sarai sola, ho detto hai un appuntamento!”.
“Giusto”. Michiru si alzò dal suo giaciglio pronta a vestirsi di tutto punto poiché se c’era una cosa che non sopportava era quella di apparire sciatta o non curata.
“Devi mettere questo”. Ami le porse una scatola che sembrò apparire magicamente da sotto il suo letto.
“Da quando sei diventata un’illusionista?”.
“Niente magia, è tutto vero! Su, aprila!”.
L’entusiasmo della sorella divenne improvvisamente contagioso e Michiru si ritrovò col batticuore ad aprire la scatola color ciclamino chiusa con un elegante nastro d’organza bianco. Sciolse il fiocco e sotto la velina trovò un abito nero elegante pronto per essere indossato.
“Indossalo, dai!”.
Michiru ubbidì ammirandone la lavorazione in pizzo sulle spalline una volta che l’altra l’aiutò ad allacciarlo sulla schiena.
“Ok, sei pronta. Vai o farai tardi!”.
“Ami, devo ancora truccarmi!”.
“Allora facciamo che ti trucchi in auto, ti scorto io!”.
 
 
Ami che solitamente si distingueva per pazienza e guida cauta al volante quella sera sembrava un’indemoniata. Imprecò contro un paio di semafori rossi cercando di non farsi sentire e osò sorpassare una quantità innumerevole di veicoli per uscire dalla zona più caotica della città.
L’auto percorse chilometri d’asfalto nero per arrivare al grande santuario nella prefettura di Mie sino a fermarsi davanti ad una breve rampa di scale.
“Ce la fai coi tacchi?”.
“Potrei scalarci le montagne!” la rassicurò con un sorriso Michiru scendendo dalla macchina per poi salire scalino dopo scalino.
Più la distanza all’entrata del santuario si riduceva più il suo cuore rimbalzava violento nella cassa toracica.
Una sfilza di lanterne accese illuminava l’ingresso del giardino interno di quel luogo di culto famoso per le promesse d’amore.
“Direi che hai addosso il vestito giusto…” la voce di Haruka accompagnò la sua comparsa fuori dall’ombra.
Michiru quasi non poté credere ai suoi occhi. Quella era la prima volta in cui la vedeva in abiti eleganti.
La bionda pareva essersi messa davvero d’impegno per indossare un completo nero con camicia bianca e tanto di gemelli ai polsi.
“E dimmi…il vestito giusto per cosa?”.
“Per questo?”.
A Michiru le mancò il fiato vedendola inchinarsi davanti a lei intenta nel mostrarle una scatolina blu oltreoceano contenente un piccolo zaffiro incastonato in un anello.
Haruka le aveva regalato una goccia di mare senza saperlo e Michiru non riuscì a fare altro che portarsi una mano davanti alle labbra per lo stupore.
“Non sono una da grande discorsi, ma…”.
“Dillo e basta!” le scappò all’altra in preda all’agitazione e all’entusiasmo che stavano esplodendo in lei.
“Vuoi sposarmi?” recise Haruka accontentandola.
“Si”. Glielo disse in uno scontro di labbra.
Michiru rubò il fiato di Haruka e Haruka lo prese a lei.
 
Daijingu non era mai stata così bella al chiaro di luna e le sue dee avevano appena benedetto un altro amore e un futuro matrimonio.
 
 
***
 
 
Rei era rientrata dopo quella che aveva definito una boccata d’aria addormentandosi al suo fianco. Era qualche giorno che le dava le spalle e il letto in quel modo sembrava più freddo e lei ancor più distante. Setsuna non aveva avuto modo di comprendere quale demone stesse rosicchiando i neuroni della compagna e la rendesse così nervosa e arrabbiata in sua presenza. Di certo lei era una donna adulta, avrebbe dovuto affrontare la cosa di petto, chiedere spiegazioni, ma Rei sembrava essere una ragazzina testarda ed evitava in tutti modi il chiarimento rifugiandosi dietro all’idea che Setsuna facesse la bella faccia davanti a fatto compiuto.
Così, sempre immersa nel lavoro e con poco tempo libero da dedicarle, Setsuna aveva optato per il lasciarle spazio e sbollire in santa pace. Ma qualcosa non stava funzionando nel modo giusto, poiché l’ira verso di lei non pareva esser ancora scemata e si ritrovava a guardare nel buio la siloutte dell’altra senza saggiarne il alcun modo il calore.
 
Una vibrazione e un doppio lampeggio del cerca persone rischiarò il buio della stanza.
Qualcuno la stava cercando e Setsuna maledì la sua reperibilità ventiquattro ore su ventiquattro. Possibile che i bastardi perdessero sempre il sonno a Tokyo e toccava a lei rincorrerli?
Sospirò pesantemente allungando un braccio in direzione dell’aggeggio per controllare il messaggio.
 
Omicidio a Rappongi.
 
Seguiva solo l’indirizzo e nulla più. Ecco perché Rei si ostinava a dirle di buttare quell’affare. Permetteva solo brevi messaggi privi di dettagli perciò lo riteneva qualcosa di altamente inutile.
Esistono i cellulari per una ragione, il mondo è andato avanti Setsuna!
Indecisa se svegliarla o meno si tirò su dal suo giaciglio facendo meno rumore possibile. Se il suo cellulare non aveva squillato in fin dei conti il caso non richiedeva la sua presenza e poteva riposare al contrario di lei.
Setsuna prese camicia, giacca e pantaloni dirigendosi in bagno. Si vestì velocemente, legò i capelli in una coda bassa e indossò solo una volta accanto alla soglia di casa le scarpe. Si voltò verso Rei, non un movimento.
Prese la propria pistola, il distintivo e si richiuse la porta alle spalle.
 
Rei aveva gli occhia aperti e respirava regolare. Abbandonò il letto solo una volta che l’altra mise in moto la macchina e in due minuti fu pronta per uscire. Lei non si diresse a Rappongi, la sua meta era Kabukichō, dove si trovava poche ore prima con le sue all star nere ai piedi. Aveva un conto in sospeso, non poteva aver tempo per gli omicidi se prima non risolveva i problemi presenti nella sua vita privata.
Uno strato di rossetto rosso bastò per renderla sicura di sé e andare ad affrontare quella che era solo una squallida puttana.
 
 
*** 
 
Rappongi Hills, con il suo imponente complesso illuminava a giorno le tre di notte. Setsuna frenò bruscamente sotto l’insegna di un night club frequentato per lo più da turisti. La gente entrava ed usciva come nulla fosse perché l’omicidio doveva essersi consumato nel retro del locale. Un agente in servizio la scortò verso il retro del palazzo aprendole la porta.
“Avete chiamato Ten'ō?” domandò ancor prima di dare un’occhiata alla vittima. Il sottoposto non fece in tempo a fiatare che la voce della bionda le arrivò alle orecchie con la risposta che cercava.
“Ormai è una routine. Per i posti di merda il mio numero risulta sempre nelle chiamate rapide della centrale a quanto pare”.
Era ancora vestita nel suo abito elegante ma decise di togliersi la giacca e lanciarla in faccia al poveretto che aveva accompagnato Setsuna per rigirarsi le maniche sul polso ed essere più comoda.
“Qualcuno me li da dei guanti?” urlò dando ordini come se fosse a casa sua.
Setsuna alzò un sopracciglio nel vederla così a suo agio e Haruka si affrettò subito a darle una spiegazione.
“Non sono una donnicciola non mi fa schifo toccare gente morta, ma sai com’è avete tutte queste formalità voi piedi piatti su impronte, inquinamento di prove ecc. ecc.”.
“Eri ad un appuntamento galante?” deviò il discorso la più grande in attesa che ad entrambe venisse portato qualcosa per poter ispezionare corpo e luogo senza alterare la scena del crimine.
“Siamo già così intime da scambiarci queste confidenze?”.
“Era per far conversazione…”
“Oh certo. Dove hai lasciato la fidanzata? Siete in crisi?”.
“Non sono affari che ti riguardano” rispose risoluta Setsuna ringraziando poi per aver ricevuto i propri guanti.
“Ok, vediamo che è successo qui…” si chinò sul corpo afflosciato su una sedia da ufficio. Era un uomo, aveva i capelli rasati sul lato destro del cranio e ciuffi più lunghi su quello sinistro.
“Bella acconciatura…” commentò sarcastica Haruka per poi infilare una mano nella tasca dei pantaloni della vittima e trovarci qualcosa.
“Un momento…” sibilò riuscendo ad acchiappare quello che al tatto appariva come uno scontrino.
Si rigirò in mano il foglietto accartocciato su se stesso per poi aprirlo e trovarci un piccolo disegno.
“aaah è un artista il nostro amico”. Sentenziò sottoponendolo all’attenzione di Setsuna che nel frattempo aveva ordinato di imbustare un bicchiere ritrovato sulla scrivania alla quale sedeva l’uomo per portarlo ad analizzare.
“Doveva annoiarsi parecchio tra queste scartoffie…”.
“Non credo l’abbia fatto lui” disse Setsuna sgranando gli occhi nel vedere ciò che vi era ritratto.
Una corona rossa. Degna di una regina.
La regina rossa.
“Guardagli la schiena Haruka”.
“Sissignora, non voglio finire in gatta buia per aver disobbedito”.
La bionda con uno strattone spinse in avanti la schiena dell’uomo tirandoli su la maglietta.
“Cazzo…”
“Un horimono?”.
“Si”.
Setsuna non ebbe bisogno di chiedere altro lo intuì dai tratti induriti che assunse il viso di Haruka e dalla mancanza di sarcasmo o battutine che condivano ogni sua azione.
“E’ ancora una volta un membro del mio clan”.
La donna chiese di analizzare l’inchiostro col quale era stato fatto il disegno della corona e di controllare ogni centimetro del corpo ritrovato precedentemente e ora nelle mani dei medici legali.
“Tutto bene?” non le venne da chiedere altro se non quella stupida frase.
Haruka spazientita buttò a terra i guanti e riprese poco gentilmente la sua giacca.
“Andrà meglio dopo aver fatto una cosa”.
“Niente cavolate ora hai sulle spalle anche i membri della polizia è chiaro?”.
“Non salterà la copertura ma sarò più utile rientrando nei vecchi ranghi”.
“Come?!”. Setsuna fece per fermarla ma Haruka con uno spintone l’allontanò quel che bastava per scomparire nella notte di Rappongi.
 
 
*** 
 
Tokyo non aveva mai conosciuto il sonno, soffriva d'insonnia e illuminava il celo notturno con i suoi neon a led sempre accesi.
Tokyo era luce pulsante viva e loro erano stati attratti lì come falene.
Il ragno nipponico aveva appena intrappolato Akira e Haruka nella sua ragnatela di strade, senza alcuna intenzione di lasciarseli sfuggire.
Quella città aveva vita propria, Haruka e il ragazzo l'avevano sempre sostenuto.
Tokyo li avrebbe masticati e digeriti, non era ammesso sputare resti dei suoi spuntini umani.
 
"Non posso farlo senza di te, Akira". 
Le parole dell'amica riecheggiarono nella sua testa, tra le sinapsi e i neuroni ormai pronti solo a ragionare su tempi di cottura e pietanze esotiche.
Aveva dimenticato il lato crudo della vita a meno che non si trattasse di carpaccio o sashimi.
Sarebbe scoppiato il finimondo, Akira se lo sentiva alla bocca dello stomaco. Un rimestarsi di viscere fin dalle prime luci del mattino era stato l'avvisaglia di un presentimento che in poche ore era riuscito a trasformarsi in realtà.
"La parte brutta è finita..." così le aveva detto a Tokyo con lo scrosciare incessante della pioggia a coprire ogni rumore tranne che le loro voci, nella notte in cui tutto sarebbe dovuto cambiare.
Lui lo aveva detto in buona fede. Era certo che il peggio fosse finalmento andato, liberando le loro esistenze da quell' intreccio mortale nel quale avevano vissuto sin dalla nascita, macchiandosi entrambi di rosso cremisi.
In quelle parole ci avevano creduto entrambi, eppure, in quel preciso momento, Akira si sentiva un bugiardo di prima categoria.
La verità è che Osaka era stata la loro Oasi nel deserto.
Era stata col suo mare e i sogni realizzati la quiete prima dell'ennesima tempesta che li avrebbe presi in pieno.
"E' l'unico modo per tenerle al sicuro. L' unico per cambiare le cose una volta per tutte".  Quando si trattava d'amore Akira cedeva.
"E poi è una questione d'onore" si ripeté tra le labbra a bassa voce.
La Ikka è la tua casa; la tua famiglia. Non la puoi tradire, sarebbe come tradire se stessi.
Devi proteggerla a tutti costi.
 
Il clan si riunì nell'ampia sala dove solitamente si teneva il Sakazuki Shiki per accogliere i nuovi membri. Si udì un rumore di passi, seguito dal tintinnare dell'acciaio sopra ad un tavolo.
Le armi dovevano essere tenute alla larga dai propri fratelli.
Akira trattenne il respiro, scambiandosi un'occhiata complice con Haruka che sedeva accanto a lui mostrando la mascella tirata, mentre l'aria si faceva piena dei respiri dei ceffi meno raccomandabili di Tokyo.
Circa quaranta uomini, vestiti in abiti eleganti che celavano porzioni di pelle tatuata si radunarono guardandoli dapprima con sguardo accusatorio e poi con curiosità.
Akira e Haruka avevano lottato contro tutto quello che uno Yakuza avrebbe invece dovuto tenere al sicuro. Erano dei traditori fatti e finiti, il loro kao probabilmente era irrecuperabile, ma l'avevano infangato per un buon motivo a loro avviso. Anche se di certo tutti i presenti non l'avrebbero pensata allo stesso modo se solo avessero scoperto ciò di cui erano colpevoli.
La violenza nella loro società era accettata, ma non certo contro l'Oyabun, l'unico per cui si doveva mettere in gioco tutto.
"E' tempo di ricominciare..." disse solenne Haruka, senza alcun preavviso, alzandosi in piedi per poi zittire tutto il brusio che si era levato in sala.
Gli anziani del clan si erano già ritirati per deliberare chi dovesse prendere il posto di padre di famiglia, ma con Daisuke fuori dai giochi l'unica discendente del precedente capo clan era lei. Finché nessuno fosse venuto a conoscenza del suo sporco segreto l'elezione non aveva bisogno di ulteriore tempo o ripensamenti.
 
Doveva far giuramento.
Doveva dimostrare che si sarebbe presa cura di tutti.
Doveva incarnare ciò che lei e Akira avevano ucciso sei mesi prima.
Una zaffata intensa d'incenso solleticò le lande ghiacciate racchiuse nelle iridi di Akira, il quale non cedette al pizzicore né tanto meno a lacrimare. Fermo, sulle ginocchia e le dita conficcate nella rotula socchiuse gli occhi a capo chino.
Pareva un moderno Samurai col suo feroce dragone che gli avvolgeva i bicipiti con spire verdi e rosse.
 
"Io, Haruka Ten'ō, in qualità della posizione che vengo a ricoprire...giuro eterna fedeltà, alla Ikka e mi prenderò cura dei Kobun del nostro clan come fossero figli miei".
Una serie di battiti forti e nitidi come lo scandire di un tamburo rimbombò nella cassa toracica di Haruka.
Non c'era più via d'uscita. Lei e Akira si erano appena rinchiusi nel loro pericoloso labirinto con le proprie mani.
Prese un lungo e profondo respiro, puntando gli occhi cobalto in ognuno dei presenti al proprio cospetto.
Adesso era intoccabile. Ma se solo Akira in quel momento avesse potuto fare una delle sue strampalate citazioni avrebbe sicuramente recitato "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità". Non c'era niente di più vero, poiché da quel preciso istante lei possedeva quel pugno di vite nelle proprie mani e sarebbe anche stata quella che avrebbe dovuto strapparne altrettante se in futuro se ne fosse presentata l'occasione.
 
"Da questo momento sino a che la mia vita non verrà cancellata da questo mondo, sono il vostro Oyabun".
Un mare di teste s'inchinarono a lei in sincrono. Ognuno di quei criminali porse i propri rispetti alla sua anima.
 
La bella Tokyo non si dimenticava di nessuno.
Vecchio e nuovo convivevano tra le sue fauci. Le tradizioni sedevano accanto ai nuovi grattaceli pieni di uffici e divertimento sfrenato.
Era la testimonianza che passato e futuro andavano a braccetto. Che nulla cade nell'oblio.



Note dell'autrice:
Carissime loganiane...so che volete l'action! (credo?). Vi rassicuro promettendovelo per il prossimo capitolo! Dovevo ricongiungermi al prologo o la storia non poteva partire! Ora ci siamo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e non sia risultato noioso. Io nello scrivere ho avuto una malsana ship per Setsuna e Mimì, mi sa che sono grave!! 
Ad ogni modo non vedo l'ora di sapere le vostre opinioni, i consigli, le cose che vi sono piaciute, i dubbi, le supposizioni...quello che volete! Sono sempre aperta al dibattito lo sapete! :)

Per le parole relative al mondo della Yakuza, non sono stata a rinserire quelle che erano presenti nel prologo. Le trovate in quel capitolo! Mi sono limitata a mettere le note per quelle nuove.
Una delucidazione: Azuma chiama Onee-sama la fantomatica regina rossa. (NON E' UNO SPOILER LO AVEVATE CAPITO VERO?!) Letteralmente ha il significato di "Sorella maggiore", ma qui non è intesa come una sorella di sangue poichè nei clan Yakuza le mogli degli Oyabun vengono chiamate così dai membri della ikka. Nella società Yakuza le donne solitamente non hanno valore. Vengono considerate solo in termini familiari, ovvero una donna deve badare ai figli, occuparsi della casa e delle faccende domestiche. La regina rossa in qualche modo è riuscita ad avere il rispetto dei propri uomini...come avrà fatto? (Lo scopriremo!) e Haruka se ben ricordate si è sempre finta un uomo nel suo clan. Solo Daisuke sapeva il suo segreto...ma è stato eliminato muhahahah!!!
Per ulteriori curiosità e chiarimenti...mi trovate sulla solita pagina fb, dove provvederò anche questa volta a lasciarvi una "scheda" curiosità sul capitolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

[1] è il termine giapponese per indicare la posizione seduta tradizionale. Il seiza è usato in diverse arti tradizionali giapponesi, come quella del tè, della calligrafia etc. Il seiza consiste nel sedersi a terra e non su una sedia.
[2] termine giapponese che indica un rituale per il suicidio in uso tra i samurai. In occidente per intendere la stessa cosa spesso usiamo la parola harakiri.
   
 
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