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Autore: effewrites    19/02/2016    2 recensioni
[College!AU, Taluke (+ Percabeth, + Charlena, + Lunabeth), rating giallo per il linguaggio usato (il rating potrebbe variare nel corso della storia.)]
E' il primo anno di università, e Talia Grace ha deciso di lasciarsi il passato alle spalle. Non sarà più la ragazza scontrosa che tutti evitano e che ha paura di tornare a casa. L'Olympia University, a sei ore di treno da New York, è il posto perfetto per costruirsi una nuova vita.
Aggiungete all'equazione Luke Castellan, che è stanco di gettare la propria vita alle ortiche così come è stufo di soccombere al rancore. L'Olympia University, che lo ha accolto nonostante il suo passato turbolento, è il luogo adatto per ritrovare sé stesso.
Considerate le incognite. Un naso (quasi) rotto, compagni di stanza litigiosi, convivenze forzate. Alcol, statue greche, un sexy shop.
Buon inizio semestre, studenti dell'Olympia!
Genere: Angst, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Percy/Annabeth, Talia Grace, Talia/Luke
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE: Il POV adottato il questo capitolo è quello di Luke.

step 1: do not be a jerk. step 2: don’t fail step 1 for fuck’s sake

Per quanto mi sforzi, non riesco a trovare una via di uscita a questa situazione che non mi faccia passare per un idiota. Me ne sto seduto cercando di occupare il minor spazio possibile, con le sopracciglia aggrottate mentre il professore inizia un discorso introduttivo al corso. Faccio oscillare la matita tra due dita senza mai farla sbattere contro la superficie del banco. Ogni tanto, quando mi sento abbastanza intrepido, con la coda dell’occhio rivolgo lo sguardo alla ragazza seduta accanto a me.

Quattro volte su cinque, lei mi sta già guardando.

Fingo indifferenza, ma in realtà cerco di sprofondare nella felpa che ho indosso in questo momento. Non so se a fomentare i sensi di colpa che mi aggrovigliano lo stomaco sia il cerotto che le copre il naso e che spicca di netto sul mare di lentiggini che le costellano la faccia, oppure la sua corporatura minuta rispetto alla mia. Merda. Avrei potuto farle davvero, davvero male…

Grugnisco, una lamentela che tento di soffocare sfregandomi il viso con le mani. Un tizio seduto nella fila davanti a me si volta e mi lancia uno sguardo sconcertato. Cerco di ignorarlo.

Una veloce occhiata alle lancette del vecchio orologio che porto al polso rivela che sono passati solamente poco più di quindici minuti da quando la lezione è cominciata. Ho ancora almeno un’ora da trascorrere in quest’aula, seduto accanto a una ragazza che, potenzialmente, mi odia.

Devo fare qualcosa, e devo farla adesso: non sono il tipo di persona in grado di mettere da parte i propri pensieri per concentrarsi sull’immediato, in questo caso la prima lezione del primo giorno di università – non esattamente qualcosa che sarebbe furbo lasciar scorrere come sottofondo delle mie elucubrazioni mentali. Tra l’altro, ogni minuto che passa è un minuto in più che mi ricorda come a causa mia questa ragazza si è ferita. E io… non…

Avevo promesso a me stesso che da ora in poi non avrei mai più fatto del male a nessuno. Una fitta alla bocca dello stomaco mi costringe a piegarmi lievemente in avanti, con una mano che stringe nervosamente la stoffa della felpa. Non riesco a credere di aver di già fallito.

“Hey,” mormoro nel voltarmi verso la ragazza. Lei mi guarda con la coda dell’occhio, senza girare il viso verso di me. Scivolo il più possibile verso di lei per poterle parlare a bassa voce.

“Ti devo delle scuse. E delle spiegazioni,” le dico. “Per quanto assurdo possa sembrare, io –”

“Shhh!”

Mi volto verso la fila dietro di noi, dove una ragazza mi fa cenno di far silenzio. Per un attimo la guardo sconcertato, con la tentazione di allargare le braccia con fare allibito. Poi ricordo che siamo in un’aula universitaria, per cui la sua richiesta non è poi così assurda.

D’accordo. Sospiro pesantemente e mi accorgo che la ragazza col cerotto sul naso mi sta ancora guardando. Stringo il labbro inferiore tra i denti e decido che se non posso usare la voce, ovvierò con altri mezzi.

Dallo zaino abbandonato vicino alle mie gambe tiro fuori un blocco per gli appunti, strappando la prima pagina. Su di essa scrivo:

                mi sento una merda sapendo che ti sei fatta male. mi dispiace, lo giuro.

Faccio scivolare il foglio verso la ragazza, che lo adocchia con le sopracciglia aggrottate prima di afferrarlo. Si volta dandomi la schiena per cercare qualcosa nella sua borsa, qualcosa che si rivela essere un astuccio da cui tira fuori una penna. Si china sul banco per scrivere qualcosa, dopodiché mi passa il foglio con un gesto secco. La sua scrittura è appuntita e a primo impatto ho qualche difficoltà nel leggere.

                non sono incazzata perché mi sono fatta male. sono incazzata perché non hai neppure avuto la decenza di fermarti a controllare che stessi bene.

Mordo nuovamente le labbra mentre accuso il colpo. Non posso fare altro: la ragazza ha ragione. Valuto attentamente cosa risponderle, rotolando la matita tra due dita. Poi, con lentezza, come se nel tracciare ogni singola lettera sulla carta la matita diventasse volta per volta più pesante, scrivo:

                ho ricevuto una chiamata importante.

Poi, più sotto, dopo aver stretto le palpebre in una muta lamentela:

                il fatto è che la verità risulterà in ogni caso patetica, e comunque non ci sono scuse. mi dispiace.

Quando la ragazza riceve il foglio e legge la mia risposta, vedo il suo petto gonfiarsi in un sospiro che viene trattenuto molto più del normale. Nell’espirare fa scivolare nuovamente il foglio verso di me, prima di incrociare le braccia al petto.

“D’accordo,” mormora con un filo di voce. Credo sia il suo modo di riferirmi che le mie scuse sono state accettate. La cosa, però, non migliora come mi sento.

Volo con la memoria a quell’istante di due giorni fa, quando mi sono scontrato con lei appena uscito dalla segreteria e prima che potessi rendermi conto dell’eventuale gravità della situazione ho ricevuto la telefonata che avevo aspettato e temuto da quando il giorno prima ero salito sul volo che dal Connecticut mi ha portato verso l’Olympia University.

Non appena ho visto il nome di mio padre sul display, tutto ciò che mi stava accadendo intorno è diventato un semplice rumore di fondo. Adesso sono consapevole di aver bellamente ignorato la ragazza dello scontro, ma sul momento la reazione più logica è stata quella di allontanarmi in fretta e furia per rispondere.

“Papà? Che succede? La mamma sta bene?” ho quasi urlato dopo aver accettato la chiamata. Avevo una fame da lupi, ma in quel momento lo stomaco mi si è chiuso e ho temuto di dover correre nel bagno più vicino per vomitare.

Mio padre, con la sua voce caratteristicamente calma, appena un po’ roca e venata stavolta di una certa urgenza, mi ha immediatamente tranquillizzato. La mamma stava bene, nessuna crisi, non c’era da preoccuparsi. Chiamava per dirmi che aveva trovato i documenti che ho dimenticato a casa, quelli per cui avevo trascorso quasi un’ora negli uffici della segreteria, e che li avrebbe inviati il prima possibile all’università.

Con lentezza, il mondo ha ricominciato a girare.

Adesso potrei dire la verità alla ragazza. Potrei dirle che ho una madre malata che mi aspetta a casa, che ogni volta che il mio telefono squilla mi aspetto che qualcuno mi stia chiamando per dirmi di prenotare il primo volo di ritorno per il Connecticut perché la mamma sta di nuovo male e ha bisogno di me. Potrei dirle che se ho completamente rimosso dal mio cervello l’incidente che ci ha coinvolti è stato perché una diversa preoccupazione mi ha occupato la testa impedendomi di funzionare come un essere umano decente.

Potrei dirglielo, ma mi rifiuto di farlo. Forse perché qui all’Olympia, dove nessuno mi conosce, vorrei evitare di vedermi rivolto quello sguardo di pietà che mi porta alla nausea al solo immaginarlo. Forse perché è qualcosa di troppo personale per essere distribuito in giro come una qualche giustificazione ai miei comportamenti.

“Oh, no,” è la lamentela che mi strappa ai miei pensieri, proveniente dalla ragazza con il cerotto. Sbatto più volte le palpebre, guardandomi intorno per capire a cosa sia dovuta la sua esclamazione.

“Cosa?” domando poi spontaneamente mentre mi volto verso di lei. Ha la testa piegata all’indietro, lasciando esposto il collo. Alza una mano ad indicare il professore, che ci sta dando le spalle in quanto impegnato a scrivere sulla grande lavagna dietro la cattedra.

“Non ascoltavi?” dice la ragazza. “Vuole che svolgiamo un questionario per rompere il ghiaccio. Ugh. Una roba tipo, ‘cosa ti aspetti da questo corso?’ e altre cazzate varie. Deve essere svolto in coppia.”

Annuisco, iniziando a leggere le domande che il professore sta scrivendo. Nulla di assurdo, domande sui dati anagrafici, su aspettative universitarie, motivazioni… facile. Una scocciatura, ma facile. Intorno a me le persone iniziano a voltarsi e a scegliere un partner con cui completare il questionario. La scelta ricade, ovviamente, sulle persone che sono sedute vicine.

Aggrotto le sopracciglia. Con un veloce sguardo alla mia sinistra scopro che il tipo seduto vicino a me ha già trovato un compagno. Anche nella fila davanti e in quella dietro sembrano essere tutti al completo. Per cui la mia scelta deve ricadere forzatamente sulla ragazza con il cerotto.

“Umh,” mormoro, sfregandomi il collo mentre mi volto verso di lei. “Partner?”

La ragazza rimane impassibile per un istante. Poi, sorprendendomi, le sue labbra si tendono in un sorriso. E’ piuttosto forzato e malriuscito per essere credibile, ma è comunque qualcosa.

“Prima iniziamo, prima finiamo,” dice, aprendo il suo quaderno per ricopiare nella sua calligrafia spigolosa le domande date dal professore.

“Vuoi iniziare tu?” le domando, principalmente perché a quanto sembra mi sono perso l’intera spiegazione su cosa dovremmo fare in questo test. La ragazza annuisce.

“Nome?” mi domanda, con un’aggressività tale che vacillo un istante, domandandomi se sia semplicemente il suo modo di fare o se ancora ce l’abbia con me.

“Luke Castellan,” le rispondo, e lei appunta la risposta sul quaderno.

“Corso di laurea principale?”

“Ancora non deciso.”

La ragazza alza lo sguardo dal quaderno. Le sue iridi blu mi scrutano. “Quindi frequenti Psicologia come parte delle classi obbligatorie?”
Annuisco.

“Mh-mh. Okay. Cosa ti aspetti da questo corso?”

“Che mi succhi ogni energia vitale da qui fino alla fine del semestre in cambio di una manciata di miseri crediti.”

La ragazza sorride di nuovo. Solo che stavolta è un sorriso più genuino. “Sii serio.”

“Lo sono! Se preferisci un’altra risposta, puoi sempre scrivere che mi aspetto di esplorare la psicologia umana e capire perché le persone si comportano in determinate maniere.”

“Okay. Perché hai scelto di iscriversi all’Olympia University?”

Abbasso appena lo sguardo. Una delle tante risposte che ho costruito a tavolino settimane fa ipotizzando che prima o poi qualcuno mi avrebbe posto questa domanda si fa strada dal mio cervello fino alla bocca.

“Ha degli ottimi programmi di studio e va decisamente incontro alle esigenze degli studenti.”

“E’ un fottutissimo labirinto,” commenta la ragazza. Rido appena.

Ci sono ancora tre o quattro domande prima che il questionario sia concluso e i nostri ruoli s’invertano. La ragazza m’informa del fatto che bisogna annotare anche il modo in cui viene formulata la risposta, tonalità della voce, sicurezza nel parlare, gestualità. Questo genere di cose. Di nuovo, non sembra difficile.

“Okay, cominciamo allora. Nome?” le domando.

“Talia Grace.”

“Talia?”

“Cosa?” ribatte lei, sulla difensiva. Mi affretto a scuotere la testa.

“Nulla, nulla! E’ un nome inusuale, tutto qui. Corso di laurea principale?”

“Ancora non deciso,” risponde, e mio malgrado mi trovo a rivolgere un mezzo sogghigno al blocco per gli appunti su cui sto scrivendo. E’ rincuorante sapere che non sono il solo a non aver ancora scelto cosa farne della mia carriera universitaria. Tutti quelli con cui ho avuto modo di parlare fino ad ora avevano le idee ben chiare sul proprio percorso accademico.

“Quindi Psicologia è una delle classi obbligatorie anche per te. Okay, andiamo avanti: cosa ti aspetti da questo corso?”

Talia aggrotta le sopracciglia e poggia il busto contro lo schienale della sedia mentre incrocia le braccia al petto. Sbuffa sonoramente, non come se fosse arrabbiata ma come se la risposta alla mia domanda fosse tanto difficile da mandarla in tilt. Scrivo velocemente le sue reazioni sul mio blocco e aspetto.

“Perché facciamo quello che facciamo,” dice infine, annuendo tra sé e sé. “Perché… perché certe persone funzionano in maniera diversa rispetto alle altre. Quali sono i meccanismi che condizionano le nostre azioni senza che possiamo rendercene conto.”

Abbassa il viso per un istante, liberando una mano per mordersi l’unghia del pollice. “Non è tanto diverso da quello che hai risposto tu alla stessa domanda, in fin dei conti.”

Annuisco. Be’, dubito fortemente che le aspettative degli altri studenti in quest’aula differiscano di molto da quelle mie e di Talia. “Perché hai scelto di iscriverti all’Olympia University?”

“Oh, questa è facile! Perché mi ha offerto una borsa di studio, e perché è lontana da casa.”

La mia mano si blocca di colpo mentre sto trascrivendo la risposta di Talia. Stringo appena la presa sulla penna e alzo lo sguardo sulla ragazza, adesso distratta nello sbirciare le risposte di una coppia seduta nella fila davanti la nostra. E’ una fortuna che non si accorga che la sto guardando. Non riesco a impedire che la mia espressione si adombri almeno un po’. Dalla prontezza della sua risposta Talia sembra entusiasta di essere lontana da casa, mentre io, se avessi avuto scelta…

Le pongo anche le restanti domande, e quando finiamo il questionario tra di noi scende il silenzio tipico delle collaborazioni forzate tra persone che non si conoscono. Intorno a noi una buona parte dei presenti sta ancora lavorando, per cui cerco di rubare un po’ del tempo per controllare ciò che ho scritto e correggere eventuali errori.

Talia non cerca di avviare una qualche conversazione. Se ne sta lì, seduta con le gambe accavallate nonostante il poco spazio tra le sedie e i banchi, legge qualcosa sul suo cellulare con fare annoiato. Ad un tratto, però, starnutisce. 

“Ouch!” esclama subito dopo, cosa  che spinge le persone nelle vicinanze a voltarsi verso di lei. Talia si massaggia il naso, coprendolo con
entrambe le mani, ed eccola di nuovo: i sensi di colpa alla bocca dello stomaco.

“Fazzoletto?” mi domanda, con gli occhi che saettano verso di me. Mi chino a raccogliere il mio zaino da terra e prego di aver effettivamente portato con me un pacchetto di fazzoletti. Quando lo trovo, lo apro e lo porgo a Talia.

“Ti fa male quando starnutisci?” le domando, osservandola di sottecchi mentre con gesti attenti tampona le narici con un fazzoletto. Lei annuisce e io mi stringo nelle spalle.

“Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto, io –”

“Smettila con questa storia,” m’interrompe seccamente. Si soffia il naso e poi si volta a guardarmi, le sopracciglia scure calate sugli occhi e la testa appena inclinata. “Ti dispiace, l’ho capito. Ti sei scusato e ho accettato le tue scuse, eppure hai un’aria tanto avvilita che stai facendo sentire me la stronza della situazione. Il che è sbagliato, perché sto davvero cercando di essere una persona gentile.”

Cerco di ridere, ma noto con piacere che la mia risata sembra essere un gesto spontaneo e non forzato. “Considerando che appena mi hai visto mi hai dato dello stronzo e adesso mi stai quasi confortando, direi che ci stai riuscendo.”

Talia aggrotta ancor di più le sopracciglia e mi pare che un vago rossore le colori le guance lentigginose. “Non ti sto confortando. Ti sto ricordando che a nessuno piace fare amicizia con una lagna.”

“Woah, una lagna? Stavo solo cercando di essere gentile!”

“Ci stai provando troppo.”

“Non prenderò lezioni di gentilezza da qualcuno che mi ha dato dello stronzo a prima mattina.”

“Piccola merda,” mormora Talia a denti stretti. “Ma se hai appena detto che ci sto riuscendo, a essere una persona gentile!”

Scoppio a ridere, non posso farne a meno. E Talia ride insieme a me.

***

Al termine della lezione consegniamo i questionari al professore. Non ho idea di cosa lo spinga a voler visionare dei lavori a cui non verrà neanche attribuito un voto, ma quando lascia l’aula con i fogli tra le braccia ha l’espressione felice di un bambino la mattina di Natale.

“Credo gli interessi sapere con che tipo di studenti ha a che fare,” dice Talia mentre infila lo zaino in spalla. “Dare una sbirciata nelle nostre menti.”

I nostri corsi successivi sono in due padiglioni diversi. La nuova lezione di Psicologia 1 si terrà direttamente tra una settimana. Vorrei chiedere a Talia quali altri corsi segue, per scoprire quando e se la rivedrò, ma prima che io possa farlo lei mi saluta frettolosamente e sparisce nella fiumana di studenti che abbandonano l’aula, lasciandomi solo.

Il resto della giornata scorre lentamente nonostante la frenesia del primo giorno che pare aver raggiunto ogni matricola, tra cui me. Muoversi tra i padiglioni è un buon modo per esplorare il campus, scoprire quali sono i posti migliori per mangiare qualcosa e incontrare nuove persone. Tutto sommato è un buon primo giorno.

Rientro al dormitorio nel primo pomeriggio. A quest’ora l’Hades è tranquillo e silenzioso, e l’unico rumore che si può ascoltare è il cinguettare degli uccelli fra gli alberi che circondano il palazzo.

“Hey,” saluto i miei coinquilini quando entro nella stanza. Lascio cascare lo zaino ai piedi del divano prima di dirigermi verso il minifrigo nel piccolo angolo che abbiamo improvvisato come cucina. Abbiamo solo una teiera elettrica, il minifrigo e un mobile adibito a dispensa: nella cucina comune del piano c’è un frigorifero più grande, un congelatore e persino un forno a microonde. Ci sarebbe anche un piano cottura, ma non sembra funzionare. Sui fornelli è stato attaccato con un nastro adesivo un foglio di carta con su scritto un grande e grosso “NO”. Nessuna spiegazione. Solo NO.

“Heilà,” mi saluta Beckendorf, con uno degli scatoloni del trasloco che ancora occupano la stanza tra le braccia. “Sopravvissuto al primo giorno?”

Non gli rispondo immediatamente, limitandomi ad annuire mentre agito la bottiglia di Kool-Aid che ho messo in frigo la sera prima. Prendo grandi sorsate della bevanda. Beckendorf ride.

“Ethan dice che quella roba è disgustosa.”

“Hey!”

Forse sentendosi chiamato in causa, forse per via di una tempistica perfetta, Ethan fa capolino dalla sua stanza per rivolgere un’occhiataccia a Beckendorf. Ha un occhio solo, ma è un asso nel lanciare sguardi velenosi alle persone. Mi sono bastati pochi giorni di convivenza per scoprirlo.

“Non ho mai detto che è disgustosa,” dice, andandosi a sedere su una delle poltroncine accanto al divano nel salone. Si sistema la benda che porta sull’occhio e che gli sta arruffando i capelli scuri. “Solo che è piena di zuccheri e chissà qualche altra porcheria chimica.”

Beckendorf scuote la testa. “Sembri mia madre,” dice, il che mi spinge a ridere e per poco non mi strozzo con il Kool-Aid. Il fatto è che Beckendorf è un gigante afroamericano dall’espressione perennemente torva nonostante sia una persona gentile, mentre Ethan è asiatico e con una corporatura più asciutta. E’ strano immaginarlo come sua madre.

“E’ stata una giornata non male,” rispondo finalmente a Beckendorf, riponendo poi la bottiglia nel frigo prima di ritirarmi nella mia stanza. Mentre chiudo la porta sento Ethan che accende la televisione e la lamentela di Beckendorf: “Non un altro programma di cucina, per favore!”

Con la porta chiusa la maggior parte dei rumori vengono bloccati all’esterno.

Le persiane sono ancora abbassate, come le ho lasciate stamattina. Le alzo e apro la finestra per far arieggiare la stanza, come mi diceva sempre di fare mia madre quando ero solo un ragazzino. Poi, esausto, mi lascio cadere sul letto ancora sfatto. Le lenzuola sono fredde ma accoglienti.

Resto così per un po’, con gli occhi chiusi e una brezza tiepida che mi scompiglia i capelli. Il silenzio mi permette di ripensare alla mattinata appena trascorsa.

Riapro gli occhi, fissandoli sul soffitto bianco. Un’idea mi è balzata in mente. Non è nulla di strano, in fin dei conti, ma resto immobile a valutarla ancora per qualche minuto. Alla fine prendo il mio cellulare dalla tasca e clicco sull’icona che mi porta all’homepage di Facebook.

Clicco sull’icona di ricerca.

Digito ‘Talia Grace’.









Note: l'idea di scrivere sia con il POV di Talia che con quello di Luke mi attirava davvero tanto, per cui da questo momento si alterneranno. Anche questo capitolo non è betato (sigh!) e cercherò di ricontrollarlo più volte per scovare tutti gli errori - volevo però poterlo postare entro oggi, in modo tale da rendere gli aggiornamenti con i nuovi capitoli settimanali. GRAZIE GRAZIE GRAZIE alle persone che hanno recensito, inserito la fanfiction tra le preferite e le seguite! Mi avete resa davvero tanto felice e motivata per continuare questa storia <3
  
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