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Autore: effewrites    13/02/2016    3 recensioni
[College!AU, Taluke (+ Percabeth, + Charlena, + Lunabeth), rating giallo per il linguaggio usato (il rating potrebbe variare nel corso della storia.)]
E' il primo anno di università, e Talia Grace ha deciso di lasciarsi il passato alle spalle. Non sarà più la ragazza scontrosa che tutti evitano e che ha paura di tornare a casa. L'Olympia University, a sei ore di treno da New York, è il posto perfetto per costruirsi una nuova vita.
Aggiungete all'equazione Luke Castellan, che è stanco di gettare la propria vita alle ortiche così come è stufo di soccombere al rancore. L'Olympia University, che lo ha accolto nonostante il suo passato turbolento, è il luogo adatto per ritrovare sé stesso.
Considerate le incognite. Un naso (quasi) rotto, compagni di stanza litigiosi, convivenze forzate. Alcol, statue greche, un sexy shop.
Buon inizio semestre, studenti dell'Olympia!
Genere: Angst, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Percy/Annabeth, Talia Grace, Talia/Luke
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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SETTEMBRE

you came in like a wrecking ball (no seriously dude what the fuck)



Vorrei poter dire di aver letto abbastanza fan fiction ambientate in college immaginari da essere emotivamente preparata a qualunque scenario possa presentarsi davanti a me quando scenderò dall’autobus. Vorrei poterlo dire, davvero. Non è un caso se ho trascorso l’ultima settimana a casa a New York a leggere pagine su pagine di letteratura gratuita scroccando la connessione wifi dello Starbucks a pochi passi da casa mia. Vorrei dirlo. Lo giuro. Ma sono consapevole del fatto che nessuna fan fiction avrebbe potuto prepararmi a questo.

“Porca merda,” mormoro, strabuzzando gli occhi mentre premo le mani contro il vetro del finestrino. L’autobus si ferma e l’autista chiama il nome della fermata, per cui scuoto il capo e mi sbrigo a raccogliere la mia valigia e la giacca che ho usato come cuscino durante il viaggio. Percorro il corridoio tra i sedili fino a raggiungere la porta d’uscita, e prima di scendere mi volto a salutare l’autista con un cenno della mano. E’ stato gentile prima, quando sono salita alla stazione. E ho deciso di lasciare la vecchia me, quella scontrosa, a casa.

Le porte si chiudono alle mie spalle e l’autobus riparte, lasciandomi sola ad ammirare la maestosità dell’Olympia University.

Due ragazze camminano sul marciapiede, ridendo tra loro. Mi scosto per lasciarle passare, ma loro deviano comunque il loro percorso e si avviano verso uno dei palazzi laterali passando per il prato. Scompaiono dalla mia visuale dietro ad un albero, lasciandomi nuovamente sola. Tiro un po’ più vicino a me la mia valigia. Quando una brezza leggera scompiglia le foglie degli alberi che decorano il viale decido d’indossare la giacca – la finta pelle nera ha un doppio effetto quando scivola sulla pelle nuda delle mie braccia: mi riscalda e mi fa sentire più forte. Un po’ più tosta. E’ il potere delle giacche di pelle, un potere di cui sento di aver bisogno mentre mi avvio verso quello che credo sia il palazzo principale del campus, accompagnata dal rumore delle ruote del mio trolley sui ciottoli del viale.

E’ ora di pranzo, per cui non c’è quasi nessuno in giro salvo qualche studente che cammina svelto nei corridoi o controlla gli avvisi affissi alle bacheche che incontro più di una volta nella mia ricerca di qualcuno a cui rivolgermi per chiedere indicazioni riguardo alla stanza che occuperò per i prossimi mesi.

L’Olympia è fottutamente enorme, ragazzi. Non sono una cima quando si parla di arte, ma il fatto che vi siano colonne ovunque, insieme a statue di marmo a grandezza naturale di personaggi vestiti di tuniche e con sguardi austeri, mi dà l’illusione di trovarmi in qualche costruzione neoclassica. Linee pulite ed eleganti ovunque si posi il mio sguardo. Marmo e legno sono i materiali che predominano. Le pareti hanno colori chiari, dei bianchi perlati tendenti a tonalità più calde quando vengono illuminati dalla luce del sole. Con i miei abiti neri risalto come una macchia d’inchiostro su di un foglio bianco.

Dopo un quarto d’ora di vagabondaggio solitario decido di prendere coraggio e intercetto una ragazza che arranca nella mia direzione portando tra le braccia una colonna di libri talmente alta che a stento riesco a vederla in viso. L’unica parte di lei che riesce a sbucare al di sopra dei libri è una crocchia disordinata di capelli rosso fragola.

Mi sento quasi in colpa mentre la fermo, domandandole se sa indirizzarmi vergo la segreteria. La ragazza mi rivolge un singolo sguardo prima di abbassare di qualche centimetro le braccia, in modo tale da non avere la visuale coperta. Mi dà le indicazioni che mi servono, parlando lentamente e ripetendo più volte le direzioni che devo prendere nonostante il peso che si porta dietro spingerebbe chiunque a essere sbrigativo, ma prima che io possa ringraziarla chiedendole se ha bisogno di una mano la ragazza sorride e riprende a camminare a passo svelto.

Oh, be’.

Trovare la segreteria è molto più facile adesso. Scopro con un moto di stizza di esserci già passata davanti almeno due volte, ed entrambe le volte non me ne sono accorta perché non vi è nessun cartello a indicare che quella minuscola, misera porta nascosta tra un ficus benjamin e la statua di una capra sia l’entrata della segreteria.  

Sospiro silenziosamente. Sono stanca e affamata, e il braccio inizia a dolermi per aver trasportato il trolley per ore intere da questa mattina all’alba. Ma, mentre le mie dita sfiorano la fredda maniglia della porta, sono anche calma. Serena. Non lascerò che il mio umore venga guastato da qualcosa di così –

“WOAH!”

La maniglia sfugge alla mia presa e in men che non si dica mi ritrovo spintonata all’indietro. Sbilanciata anche dal peso del trolley inizio a cadere, e tutto prende a scorrere a rallentatore: ci sono io, inclinata pericolosamente all’indietro, con una mano ancora sporta in avanti, e il mio primo istinto è di aggrapparmi a qualcosa. Qualunque cosa. Ma le mie uniche opzioni in questo momento sono la statua di una capra o una maledettissima pianta.

Chiudo gli occhi mentre le mie dita si stringono intorno a un ramo del ficus benjamin, con l’unico risultato di farlo cadere insieme a me. Per cui, oltre al cadere con il culo per terra, inciampando tra l’altro nella mia stessa valigia, mi ritrovo con una pianta in faccia e un forte dolore all’altezza del naso. Ahia.

“Oh mio Dio,” sento mormorare al di sopra di me, ma le foglie sul viso mi oscurano la visuale. Qualcuno alza la pianta caduta, e registro distrattamente la sensazione di essere ricoperta di terreno. Senza le foglie davanti agli occhi vedo un ragazzo alto, bianco cadaverico, con un’espressione impietrita in viso. “Stai bene? Oddio, merda, mi dispiace! Sei sbucata dal nulla!”

Io sarei sbucata dal nulla?!” esclamo. “Mi hai letteralmente travolta!”

Il biondo boccheggia qualcosa, apre e chiude la bocca come fosse un pesce, ma l’unico suono che arriva alle mie orecchie è quello di un cellulare che squilla. Alzo una mano a toccarmi il naso e chiudo gli occhi quando una scarica di dolore mi attraversa il viso. Si tratta di un dolore sordo, però, e sotto le mie dita non mi sembra ci sia nulla di rotto. Se avessi afferrato la capra, anziché la pianta, forse adesso starei raccontando una storia diversa.

Quando guardo di nuovo di fronte a me il ragazzo è scomparso. Fottutamente incredibile. Sgrano gli occhi per via della rabbia e dello stupore di fronte alla sua vigliaccheria e faccio per rialzarmi con una smorfia, ed è allora che un paio di braccia mi aiutano a rimettermi in piedi.

“Cielo, stai bene? Ti sei fatta male?”

Davanti a me c’è quella che credo possa essere la ragazza più bella che io abbia mai visto nel corso dei miei diciannove anni di vita. I suoi grandi occhi azzurri contornati da ciglia lunghe e folte mi scrutano con apprensione. Le labbra piene sono arricciate in una piega preoccupata. Dai suoi capelli neri e luminosi giunge al mio naso pesto un profumo di gelsomini che per qualche assurdo motivo sembra rendere il dolore più sopportabile. Wow.

“Penso di aver ucciso la pianta,” biascico, e la ragazza mi guarda confusa prima di aprirsi in un sorriso.

“A nessuno piaceva quella stramaledetta pianta,” mi dice. “Vieni con me.”

***

La ragazza si presenta come Silena Beauregard.

“Talia Grace,” rispondo. “E grazie per avermi accompagnata in infermeria.”

Silena scuote il capo, sprigionando altre ondate di profumo dai suoi capelli. “Nessun problema. E poi era sulla strada per i dormitori.”

Prima di lasciare la segreteria maledetta per accertarmi di non aver riportato ferite gravi per via della caduta ho insistito per domandare a chi di dovere informazioni riguardo la mia stanza. La segretaria, lanciandomi strane occhiate, mi ha procurato una pianta del campus e mi ha segnato la strada per giungere al dormitorio, dandomi poi la chiave d’accesso magnetica della stanza 235.

“Le tue compagne di stanza sono già arrivate,” mi ha informato la segretaria. Ha poi stampato alcuni documenti da farmi firmare, e poi si è sporta verso di me per suggerirmi con fare confidenziale di passare per l’infermeria a far controllare il mio naso.

Ho deglutito. Le ho detto, sentendomi vagamente in colpa nonostante i residui di rabbia, che mi dispiaceva per il ficus che ho fatto cadere.

Lei si è stretta nelle spalle e mi ha risposto che tutti odiavano quel ficus.

“Quiiindi,” mormora Silena, fermandosi a gettare le carte dei sandwich che abbiamo comprato in uno dei bar lungo la strada per far calmare i nostri stomaci. “Starai nel dormitorio della zona nord, giusto? Il Poseidon. Come me,” sorride, e si tratta di un sorriso talmente genuino che sento le orecchie arrossarsi. Non so se Silena sia gentile di natura o se la pietà per le mie recenti disavventure la stia spingendo a essere carina nei miei confronti, ma in ogni caso il suo atteggiamento è… confortante.

“Non sapevo neanche vi fosse più di un dormitorio, a dire il vero,” rispondo, grattandomi il naso. L’infermiere di turno ha giudicato opportuno spruzzarmi una qualche sorta di spray ghiacciato sul naso per poi piazzarci sopra un enorme cerotto, che adesso inizia a pizzicare. Silena nota i miei gesti e, con le sopracciglia aggrottate, scaccia via la mia mano dal viso intimandomi di lasciar stare la medicazione.

“Be’, c’è il Poseidon a nord e l’Hades a circa una ventina di minuti a piedi da qui,” dice, mentre ci avviciniamo sempre di più al Poseidon, un palazzo bianco di dimensioni notevoli che si curva lievemente intorno a un prato con una piccola fontana in pietra nel centro. “I docenti che restano nel campus hanno le proprie abitazioni nella zona a ovest più esterna, e anche molti degli studenti sono pendolari. Due dormitori bastano e avanzano.”

All’interno, il dormitorio è in netto distacco rispetto all’edificio principale dell’università. Si tratta chiaramente di una costruzione moderna, con porte scorrevoli attraverso le quali si entra nell’atrio, molto simile alla hall di un qualunque albergo. Silena mi indica la strada che porta alla zona relax, dotata di televisione comune e diversi divani e poltrone, e mi suggerisce quale delle macchinette poggiate contro il muro distribuisce gli snack migliori. Ci avviciniamo poi al bancone della reception per comunicare le mie credenziali al ragazzo di turno. Il tipo digita velocemente sul computer e prende la mia chiave per magnetizzarla. Silena sorride ancora ed esclama: “Siamo nella stessa ala!” quando, recuperata la chiave, ci avviamo verso gli ascensori. La mia stanza è al secondo piano, ma la prospettiva di usare le scale ora come ora mi atterrisce.

Il chiacchiericcio di Silena mi distrae abbastanza da allontanare dalla mia mente l’idea che sto per incontrare le mie compagne di stanza, vale a dire le persone con cui volente o nolente dovrò trascorrere il resto dell’anno. Una parte di me si trova a fantasticare su come sarebbe stato essere compagna di stanza di Silena, se non altro per il fatto di aver già rotto il ghiaccio.

Quando le porte dell’ascensore si aprono, alzo il mento e mi auto convinco che andrà bene, e se anche così non fosse allora be’, non sarà la fine del mondo. Sono in quest’università per prendere una laurea, e posso farlo anche se detesterò le mie compagne di stanza. E poi si tratta solo per un anno. Appena avrò abbastanza soldi da parte, prenderò anche io un appartamento fuori dal campus.

“Andrà bene,” mi dice Silena, come se avesse letto nei miei pensieri. La sua stanza, seppure nella stessa ala della mia, è in un corridoio diverso. Prima di lasciarmi andare mi stringe in un abbraccio, cogliendomi totalmente di sorpresa.

So di essere rigida tra le sue braccia, e per quanto mi sforzi non riesco a ricambiare il suo abbraccio. Anzi, cerco di allontanare il viso. Ma Silena non pare esserne turbata, e dopo avermi salutata con un cenno della mano s’incammina verso la sua destinazione.

Sono di nuovo sola.

Il display del mio telefono – uscito miracolosamente inerme dalla caduta di poco fa – segna le tre del pomeriggio passate, e nonostante ciò nel corridoio risuonano voci concitate. Riprendo a camminare, stringendo in una mano il manico del trolley, che pare essere divenuto in queste ultime ore un prolungamento del mio braccio, e nell’altra la chiave magnetica della mia stanza. 235.

Mentre le ruote della valigia scivolano placidamente sul linoleum del pavimento, realizzo che le voci che risuonano per tutto il corridoio provengono esattamente dalla stanza 235.

Questa intera giornata sembra essere una sfida alla mia pazienza e ai miei buoni propositi.

Il click della serratura è appena udibile quando inserisco la carta magnetica, e non appena apro la porta ho un déja-vu di questa mattina – solo che a travolgermi adesso non è una persona fisica, ma le urla delle persone che stanno occupando la stanza.

Due ragazze. La prima che cattura la mia attenzione è anche la più massiccia: alta e muscolosa, mi basta gettarle uno sguardo per intuire che è il tipo di persona con cui non bisogna fare gli idioti. I suoi capelli castani sono tirati indietro da una bandana rossa, all’incirca dello stesso colore del suo viso contorto in un’espressione furiosa.

La destinataria di quello sguardo deve essere la mia seconda compagna di stanza. E’ più minuta rispetto all’altra, ma il suo viso abbronzato trasmette la stessa determinazione. Parla muovendo le mani e la testa, e la cosa deve crearle fastidio perché a un tratto usa un elastico che porta al polso per fermare i capelli ricci e biondi in una coda di cavallo.

“Il fatto di essere arrivata per prima mi dà il diritto di occupare la stanza singola, punto! Fattene una ragione, scricciolo!” esclama Bandana. La bionda stringe i pugni così tanto che mi sembra di vederli tremare, e oddio, porca puttana, vi prego non ditemi che mi troverò nel mezzo di una rissa il mio primo giorno qui all’Olympia.

“Ti sto dicendo che sono comunque arrivata prima io, ma ho avuto il buonsenso di non iniziare a marcare il territorio, perché sarebbe stato semplicemente un comportamento da rozzi e–”

Mi stai dando della rozza?!

Lascio sbattere con forza la porta alle mie spalle. Il rumore improvviso fa sobbalzare le due ragazze, distraendole momentaneamente dalla loro lotta territoriale. Ben consapevole della mia espressione impassibile, le scruto in viso una per una, cercando di placare il sordo rimbombare nel mio cervello che oramai non so più se sia dovuto alla stanchezza per il viaggio, alla caduta o al fatto di essere apparentemente in stanza con due persone che non sanno essere fottutamente civili.

“Sei la terza inquilina?” domanda infine la bionda.

Annuisco lentamente.

“…che ti è successo alla faccia?”, domanda Bandana con una smorfia in viso.

Sono a un tanto così dall’esplodere.

“Te lo spiego subito,” mormoro. “Mi sono svegliata alle quattro del mattino. Alle cinque e mezzo ho raggiunto la stazione del treno. Dopo sei ore di viaggio scendo dal treno solo per salire sull’autobus che mi ha portata al campus. Ho vagato come un’anima in pena alla ricerca della segreteria, stanca e affamata, e quando finalmente l’ho trovata un coglione mi ha gettata per l’aria per poi sparire, e nel mentre mi sono fatta cascare in faccia una cazzo di pianta enorme. Ma la scelta era tra quella e una capra di marmo, per cui non mi lamento.”

Bandana lascia sfuggire dalle labbra un fischio. La bionda fa per dire qualcosa, ma la interrompo alzando una mano.

“Ora, mi sembra di capire che il problema sia una stanza singola. Non m’importa nulla di chi la occupa. Non la voglio neppure. Ma adesso andrò a crollare sul primo letto che troverò, e qualunque problema abbiate a riguardo rimarrà non discusso fino a quando non avrò in corpo almeno otto ore di sonno e un paio di antidolorifici.”

Mi faccio strada per la stanza, registrando distrattamente il fatto che sia un salone relativamente spazioso con due porte in legno che occupano una parte del muro. La mia mano si posa sulla maniglia della porta più vicina, e nessuno mi ferma quando la apro e la richiudo alle mie spalle.

Le persiane sono alzate quel tanto che basta per distinguere la figura di un letto. Singolo.

Mi ci lascio cascare su mentre un verso gutturale mi risale dalla gola, e l’ultimo suono che sento prima di addormentarmi è quello dei sussurri delle mie compagne di stanza attraverso la porta.

***

So già cosa direte. “Ma Talia, perché hai lasciato New York, la Grande Mela, per trasferirti in un’università così lontana da casa? Non stai rimpiangendo le tue scelte?”

Punto uno. Smettetela di chiamare New York ‘la Grande Mela’. Solo i turisti lo fanno. Ed è solitamente per questo che vengono riconosciuto come turisti e conseguentemente truffati. Punto due. Ho i miei motivi, okay? Non ficcate il naso in questioni private. E punto tre… in fin dei conti, dopo questo burrascoso inizio le cose si sono calmate.

Con le mie compagne di stanza – Clarisse quella con la bandana, Annabeth la bionda – siamo giunte alla conclusione che siccome mi troverò presto un lavoro e studierò principalmente in biblioteca la stanza doppia per buona parte della giornata sarà da considerare come una singola. Questo ha ammorbidito Annabeth, che ha lasciato la singola effettiva a Clarisse.

Di conseguenza, adesso che ancora non c’è un granché da fare al campus, mi ritrovo a trascorrere buona parte del mio tempo con Annabeth.

Non è male come tipo. E’ iscritta al corso di Architettura, con un focus minore in Filosofia Classica. Una strana combinazione, ma da come ne parla sembra entusiasta di cominciare.

Il giorno successivo al mio arrivo è l’ultimo prima dell’inizio dei corsi. In un modo o nell’altro, la mia vita universitaria ha inizio.

***

“Merda merda merda merda merda merda merda!”

Le porte dell’ascensore si chiudono davanti ai miei occhi. Non so quale forza soprannaturale mi aiuti a trattenere la bestemmia che si fa strada spontaneamente verso le mie labbra. Decido di prendere le scale.

Non sono propriamente in ritardo per la prima lezione della giornata. Sono già nel padiglione, tanto per cominciare. Ma a quest’ora dovrei essere già in aula, non quattro piani più giù. Non è colpa mia. Ce l’ho nel DNA il Fattore Ritardo.

Decido di prendere le scale. Il mio sprint mi porta a salire i gradini quasi due a due, e per qualche miracolo quando arrivo al quarto piano, le porte dell’aula dove si terrà il corso di Psicologia 1 sono ancora aperte. L’aula è sorprendentemente più piccola di quanto mi sarei aspettata, sebbene mantenga la disposizione a spalti. L’ambiente è luminoso e moderno. Mi dà una sensazione positiva.

La porta da cui sono entrata è sul fondo dell’aula, in alto, per cui riesco a vedere che i banchi sono stati tutti già occupati. O quasi tutti.

A circa metà dell’aula c’è un posto libero. Lo fisso con insistenza mentre mi ci dirigo con velocità, sperando che nessun’altro abbia puntato la mia stessa preda. All’estremità del banco è seduto un tipo con le braccia incrociate sul ripiano per scrivere e la testa abbandonata su di esse. Forse sta dormendo. Non sarebbe tanto strano, considerato che sono le otto e mezzo del mattino. Ma mi sta ostruendo il passaggio, per cui allungo una mano e scuoto la sua spalla.

“Scusa… hey?” lo chiamo. Il ragazzo sobbalza e alza il viso verso di me. “C’è un posto libero, ti dispiace se – !”

Le parole mi muoiono in gola.

TU!” esclamiamo all’unisono. L’unica differenza è nel tono di voce: il suo è sorpreso, mentre il mio è a dir poco furioso.

“Tu sei lo stronzo di ieri,” realizzo, guardandolo in viso mentre istintivamente alzo una mano a sfiorare il cerotto che mi ricopre il naso – non lo stesso di due giorni fa. Uno più piccolo e discreto, per nascondere il livido formatosi sul mio naso.

Lo stronzo mi guarda. Ha gli occhi di un celeste molto chiaro e una cicatrice biancastra su un lato del viso. Non riesco a credere di averlo incontrato una seconda volta.

“Posso spiegare,” dice lui, alzando le mani davanti a sé nell’universale segno di scuse. Io incrocio le braccia al petto, nell’universale segno di ‘sono a un tanto così dallo spaccarti a mia volta la faccia’.

“Sono tutta orecchi,” lo incito, ma proprio quando lo vedo aprire bocca sento il rumore di una porta che si chiude e il vago mormorio che ha fatto da costante sottofondo fino ad ora svanisce di colpo. Mi volto e noto un uomo di mezza età in giacca e cravatta fare il suo ingresso in aula.

“Buongiorno e buon inizio semestre qui all’Olympia University,” esordisce l’uomo, quasi certamente il professore.

Lo stronzo con la cicatrice si sposta, sedendosi il più lontano possibile da me mentre prendo posto accanto a lui. Tiro fuori la penna e il mio blocco per gli appunti, e prima di rivolgere la mia attenzione al professore gli lancio uno sguardo torvo.

Non è finita qui. 
















Note: Inizio con il dire che questa storia non è betata per cui, per favore, se ci sono errori segnalatemelo e provvederò a correggere :( 
Ho inserito l'avvertimento OOC perché sono anni che non scrivo in questo fandom e temo di essere un po' arrugginita. Ma non riesco a stare troppo tempo lontana dai miei Taluke MI CAPITE VERO?!?! 
  
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