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Autore: L0g1c1ta    21/02/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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C’è qualcosa di nuovo in quel buio. Qualcosa di caldo, ma ugualmente ripugnante. Non ha idea di cosa sia, non riesce nemmeno a vedere quel qualcosa, sa solo che si avvicina a lui, alla sua carne, alla sua pelle. Questo qualcosa pulsa, come il cuoricino di un neonato, piccolo e veloce. Fantastica se inghiottirlo o carezzarlo. Non ha memoria, lui. Sa solo che per uno sbaglio è finito lì e quel qualcosa continua ad avvicinarsi.

Ecco, ora lo vede. È viola, non sa nemmeno come faccia a riconoscere il colore al buio. Pulsa più forte, sente il battito di quel cuoricino più vigoroso e voglioso di vivere. Di respirare. Di liberare e di prendere aria. Quel cuoricino è il suo, piccolo e debole, ma bramoso di libertà. Quella massa pulsante è ad un palmo da lui. Il battito dell’essere viola è ancora più veloce, più arrabbiato. Forse ce l’ha con lui. Forse deve avergli fatto qualcosa di male e non riesce a ricordarlo. Non ha il tempo di pensare. Quella cosa si avventa su di lui, con una spinta dei suoi battiti. È viscida, sporca, fredda, la cosa. I sensi sono morti, ascoltano e non odono. Gli occhi sono chiusi, ma si rende conto di quel che stia facendo. La massa viola scivola sotto la sua giacca, la bagna con il suo corpo pulsante. Ora lo sente, il pulsare, meno forte, ma comunque disperato. Entra sotto la pelle, senza scavare, senza imprevisti. È una grossa bolla di acqua stagnante e sudicia che insozza la sua carne, si addentra all’interno. Striscia fra le costole, la massa disgustosa, tocca e penetra nei suoi polmoni fermi. Il pulsare ritorna più potente e furibondo. È un martello sbattuto più volte nelle sue costole. Il corpo si scuote, ritornata l’energia, i sensi si attivano di nuovo, dopo tanto tempo. Quanto gli era mancata questa sensazione?

Gli occhi si spalancano, biglie di vetro rosse. Le vene dell’iride s’incrociano con la pupilla. I polmoni si risvegliano, bloccati. Sono ancora bloccati. Si sforza di mandare aria lì dentro. Inspira una boccata ghiacciata, intrisa di polvere e frammenti di terra. Quel posto nuovo sa di terra, bagnata dalla pioggia. L’aria ritorna nel proprio corpo, viene scosso pesantemente dai tremiti di aria nuova e sudicia. Si saziano, i polmoni, riempiti e pronti per tutto. La testa viene retta a fatica dal collo, dolorante e rosso, come le pupille piccole e stanche. Si getta subito al proprio grembo, la testa, incapace di stare dritta. Non ha il tempo né la voglia di perdere tempo, troppo impaziente. Fa altri respiri più profondi, più decisi. Il collo ritorna saldo, sa che può reggere il peso. Dà alla testa una leggera spinta all’indietro, riesce a guardarsi intorno.

È confuso, ma non sorpreso, tante ne ha passate in quegli anni. L’hanno chiuso in una stanza, alfine, si rende conto. Gli occhi vagano, sconfitti dalla novità, il cuore calmo e pacifico. Ricorda la sua sconfitta, ricorda i suoi peccati. Li accetta tutti e non gli importa se qualcuno li accetterà mai. Almeno, ora non gli importa. La stanza non è del tutto buia, una luce si fa spazio sotto i suoi piedi. Non c’è nient’altro da vedere: un po’ di buio, freddo, terra, polvere, grigio. Ogni cosa in questa stanzetta è grigia. Quest’altra novità lo intristisce. Sospira, infelice, senza lacrime, non ne ha e non ne vuole sprecare. Si sente semplicemente triste e, nonostante ciò, non gli importa. Non gli importa nemmeno che l’abbiano legato, braccia e gambe, ad una sedia di metallo cupo e ghiacciato. Non gli importa nemmeno di quel che c’è fuori dalla finestra, anche per il buio e le poche stelle in cielo. Non gli importa nemmeno di sapere che fine farà. Se lo merita e basta, nemmeno suo fratello gli farà cambiare idea.

Qualcosa scricchiola dietro di lui. Un istinto non suo, assolutamente non suo, gli fa abbassare il capo, impaurito. La stanza diventa, giusto per pochi secondi, giallognola. Al centro di quello schifo, di spalle al cambiamento, triste e solo, tanto solo, vede solo una grande ombra. L’ombra lo inghiotte, ritorna il buio. Solo ora, solo in un piccolo attimo, si chiede chi sia. Solo questo gli interessa, giusto un po’. Il buio ricopre di nuovo la stanza, un altro scricchiolio, un tonfo sordo. Non sobbalza, aveva previsto tutto. Ha una vaga idea di chi sia. Quel qualcuno si avvicina, sente dei passi ancora più pesanti. Giura che in tutta la sua vita ha visto soltanto un uomo così alto e robusto. Troppo alto, troppo robusto. I passi si fermano dietro di lui. Esitano un po’. Ha la certezza che sia lui: solo Russia vuole dare tutta questa paura, solo con la sua presenza, solo con un’esitazione volontaria. C’è però una cosa che non sa: lui non ha paura. Ha già accettato il suo destino.

Ancora con lo sguardo basso, sente una grande mano gettarsi sulla sua, guantata e nera. Anche i guanti di Russia sono neri. Stringono forte la presa, tartassano poco le sue dita. Gira, scuote, sbanda la sedia. Ha un capogiro, troppo veloce e scattante è stato il movimento. Non è ancora abituato alla luce: gli bruciano gli occhi. Non è più abituato nemmeno a vedere di nuovo la malata e bastarda faccia sorridente di questo slavo. In qualche modo riesce ad alzare la testa, disgustato. Lo odia ancora per ciò che gli ha fatto.

“Buonasera, Prussia” inclina la testa, chiude le palpebre, lo slavo. Il suo gigantesco corpo para la luce dietro di sé. Prussia alza anche gli occhi, un gorgoglio di nausea gli fa strizzare e serrare lo stomaco e la mandibola. Qualcosa cola dalla sua fronte, non è certo che sia sudore: il sudore non è così denso. Anche le ciglia sono impregnate nel liquido scuro, fresche per la nuova ondata di calore nel suo corpo. Il prussiano si rende conto di molte cose e si meraviglia che non se ne sia accorto prima. Decide di indossare una maschera, quella che ha sempre indossato con West in quei pochi ma intensi anni di morte. Prussia sorride, ghigna la mascella. I denti sporgono, bianchi e puri. I canini hanno voglia di mordere della pelle nivea e degli occhi viola.

“Quale onore, Russia!” è ironico, cattivo, ma comunque sconfitto. Entrambi lo sanno, entrambi lo vedono, ma solo uno di loro non vuole fingere. Russia riapre le palpebre, serie, ipnotiche. Il prussiano si scuote quando il generale muta lo sguardo, così, d’un colpo. Hanno qualcosa di magnetico, gli occhi dello slavo. Prussia non sa cosa sia, ma ne è colpito, un piccolo ago di piombo giù nello stomaco. Gocciola ancora sangue dalla sua fronte. Non ha idea di come appari, ma ne è certo: è meno magnifico del solito. La stasi di questi occhi seri è rivoltante e cruciale. Pensa che voglia vendicarsi, non si aspetta altro da lui. Dopotutto, aveva pianificato di distruggere Mosca e di costruirci sopra un lago. Prussia respira con affanno, qualcosa dentro i polmoni si raffredda e blocca il fiato. Quest’attesa è snervante e, lo ammette, anche maledettamente spaventosa.

Accade, il russo si muove. Prussia non sa cosa aspettarsi, non sa cosa vedere o fare. Aspetta quel che vorrà fargli. Non gli importa, lo accetta, come ha accettato tutto ciò che ha fatto. Gli occhi viola sembrano piuttosto stanchi. Il respiro di Russia si poggia dolcemente sulla sua gola scoperta. È freddo, eppure è la cosa più calda che riesce a sentire ora. Si concentra su questo, su questa brezza calda e fredda. A Prussia cadono le palpebre, la mascella lascia la presa dai suoi denti. Accetterà anche il dolore, sa che può farlo. Il cuore, quel poco che riesce a battere, sussulta tra le costole della carne squarciata dalle pallottole, dal fumo, dalle bombe, dalle urla di dolore di West. Per un attimo pensa a lui: non avrà più un fratello accanto a lui per proteggerlo.

Piyo Piyo!” il cuore debole, tiepido, sussulta con più forza. Riesce a far provare lo stesso sobbalzo alla mascella e al petto. Il prussiano spalanca le palpebre, il cuore sta per scoppiare, il fiato corto e troppo debole. Non può superare tutte queste cose in una sola volta. Sa che non può farlo. Eppure ci prova, prova a sopportare il dolce dolore. Il cuore batte più forte, l’emozione è troppo grande. La lingua passa, sfiora le labbra sporche. Sente la terra e il fumo dei gas nel palato, eppure non gli importa nemmeno questo. Il cuore fa fatica ad avere tutte queste emozioni. Sulla mano di Russia è poggiato il suo Gilbird. Sussultano ancora, le labbra di Prussia. Fa troppo male questa felicità. Il piccolino zampetta sulle dita involte nel nero, imprudente ed agitato. Gli fa male vedere il suo padrone così debole e rosso. Ma ogni cosa di Prussia è rossa, nemmeno i capelli d’argento si sono salvati dal sangue e dalla sporcizia.

Gli occhi spaccati rischiano di affogare nelle lacrime. Pensava che il suo piccolino fosse morto, sotto le bombe di Inghilterra, tra le ceneri degli aerei di America, sparato da un francese o mangiato da un cinese, che di carne non ce n'è più a Berlino. Spera almeno che suo fratello stia bene. Sa che è vivo, Francia gli ha giurato che non gli torceranno un capello più di quanto abbiano fatto. In qualche modo vuole crederci, anche se ha fatto del male anche a lui.

Gilbird è irrequieto, cinguetta disperato. Russia non gli impedisce di svolazzare sulla spalla del suo padrone. Non gli impedisce di beccargli leggermente una guancia, preoccupato nel profondo. Non gli impedisce nemmeno di strofinare le piumine gialle sulle sue labbra sporche. Prussia vede il suo piccolino sporcarsi del suo sangue. Vorrebbe che stia lontano, non vuole levare anche a lui la magnificenza. Ma l’egoismo è troppo forte e le lacrime salate sono troppo pesanti. Gilbird le raccoglie col becco, impregnato di rosso e nero. È ancora agitato, ma un po’ più calmo. Il cuore di Prussia batte ancora troppo forte. Pensa di svenire, sente le vertigini, sente di essere troppo felice. Sente di non essere più magnifico e soffre tanto.

“Non è stato facile, ma alla fine l’ho trovato” la voce di Russia è come un eco lontano, udito in una valle vuota. Prussia l’ascolta, ammaliato e distrutto. Le lacrime bruciano nelle sue palpebre. Osserva Russia e questa novità in lui lo rende teso. Non ha mai visto il generale così…serio. Non ammetterà mai di aver paura, ora, di lui. Russia lancia una breve occhiata alla sua sinistra. Prussia segue gli occhi, non aveva idea che ci fosse un orologio, attaccato malamente alla parete. Mezzanotte meno due. Ha un brivido di terrore lungo la spina dorsale, qualcosa ha intuito, qualcosa gli scorre, viscido, tremule lungo la schiena. Le iridi rosse diventano spilli di aghi di bronzo, pesanti più dell’argento. Vede la lancetta scattare in avanti, un minuto in meno per la mezzanotte. Quel brivido di paura diventa terrore, il cuore è troppo debole per pesare tutte queste emozioni. Guarda gli occhi di Russia, ancora taciturni, e sente di star per morire. Gilbird, sulla sua spalla, ritorna a cinguettare, calmo e tremule. Prussia ha difficoltà ad aprire la bocca.

“Sto per morire, vero…?” Russia non batte nemmeno le ciglia. Sembra una statua di marmo, fredda, insensibile, bianca. Prussia lo odia solo per questo. Deglutisce a fatica. Ora il prussiano guarda per davvero il generale. È vestito di nero, il cappotto elegante, i bottoni d’oro, le cuciture preziose. È orribilmente famigliare quel che sta vedendo. Si rivede, secoli e secoli prima. Si rivede forte e magnifico, coraggioso e tenace. Si rivede vestito elegante e raffinato: la Polonia era in mano prussiana, tagliata una gran fetta solo per lui. Rivede il corpicino gracile e rosso di Polonia nascosto sotto la neve, i suoi tremiti di freddo, i suoi vestiti stracciati, le sue ferite perennemente aperte. Rivede Austria, compassionevole e affranto, chino su quel corpo quasi morto. Gli aveva detto di lasciarlo lì, a morire, o forse di dargli il colpo di grazia, per farlo smettere di soffrire. Austria era testardo, voleva salvarlo. Prima della mezzanotte, aveva detto. Prima della mezzanotte, fuori dal vecchio territorio polacco. Prima della mezzanotte.

“Domani la Prussia smetterà di esistere sulla cartina geografica” l’eco della voce di Russia è lontano, eppure rimbomba dentro di sé “L’effettivo cambio delle carte avverrà come minimo nel ’47, ma oggi, su territorio, la Prussia non esiste più. Questo per spartizione di territori” è freddo e severo, Russia. Il prussiano lo odia ancora di più. Il generale volta lento il capo verso la finestra. La testa di Prussia, furiosa, scatta lo stesso verso il vetro, stranamente pulito. Prima non li vedeva, forse non ancora abituato alla luce delle stelle, ma ora li vede. Ci sono delle figure nell’ombra, ne conta tre. Prussia si sforza, il rancore spruzza fuori dal proprio cuore debole e provato. Ora li vede abbastanza per riconoscerli. Vede delle spalle magre e rosse, dei capelli scuri e lunghi, un paio di lenti di occhiali baciati dalla luce delle stelle. Prussia, istintivamente, odia quelle figure. Odia che Russia dia più importanza a loro che a lui, in fin di vita. Si sente preso in giro. Si rimette la maschera, arrogante e il ghigno gli imperla le labbra. Gilbird sobbalza sulle zampette nervose.

“Che guardi, russo?” Russia si volta, serio ma comunque indignato. È diventato più sensibile in questi anni, in pochi ma preziosi anni. Ha imparato molto, ha perso qualcosa di sé, ma ha guadagnato qualcos’altro che ancora non comprende e, nonostante ciò, accetta del tutto. Non sa ancora gestire le proprie emozioni, deve ancora sapersi controllare. Soprattutto se ci sono in mezzo i suoi piccoli Baltici. Guarda con la coda dell’occhio Lituania, fermo, ma leggero nel proprio corpo. Anche il suo fiore è cambiato, è ritornato a vivere. Ma Russia è comunque geloso e irritato dal ghigno crudele di Prussia.

“Che c’è? Hai il tempo di bastonarli più tardi, guarda piuttosto la mia magnificenza!” esclama, voglioso di una distrazione, di un qualcosa che non gli faccia ricordare. Quel che fa è pericoloso, ma a Prussia non importa. Prima di morire, almeno, vorrebbe prendersi una piccola rivincita. Ha paura, non vuole ricordare. Vuole dimenticare West sotto le macerie di Berlino, vuole dimenticare il sorriso di Ungheria, vuole dimenticare la prima volta che udì suonare Austria, vuole dimenticare la spaghettata che gli aveva preparato Italia, l’abbraccio sincero di Francia, i denti bianchi di Spagna quando rideva di cuore, gli insulti impacciati di Romano, il tè regalatogli da Giappone. Vorrebbe anche dimenticare di essere fratello, giusto per quei pochi minuti. Solo per pochi minuti. Sarebbe l’uomo più felice del pianeta, se dimenticasse e riuscisse a godersi gli occhi sdegnati di Russia.

“…bastonarli…” mormora con poco fiato il generale. Una fiammella maledetta si accende nel suo cuore da gigante, diventato più grande in soli quattro anni. Prussia non lo sente, in realtà non vuole sentirlo affatto. Vuole giocare, vuole sentirsi di nuovo magnifico, giusto per un solo minuto, soltanto uno. Sarebbe felice, dimenticherebbe tutto. Dimenticherebbe la prima volta che fece cavalcare West, piccolo ed impacciato, col cuore in gola solo nel sfiorare quella bestia più grande di lui. Si era sentito felice. Vedere il sorriso fanciullesco e un po’ goffo di suo fratello lo ha fatto sentire, forse, per la prima volta, veramente un magnifico fratellone. Inclina la testa, il collo si piega e si lamenta, ma lo ignora. Anche Gilbird sente il pericolo e pigola di paura. Prussia dimentica anche di avere un piccolo amico sulla sua spalla. Dimentica di essere il padrone dell’uccellino migliore del mondo.

“Dai, russo, non fare il timido e guardami negli occhi!” Russia sembra ancora provato ed indignato. La parola ‘bastonarli’ è ancora tra i suoi denti. D’un tratto odia quella parola, odia la voce gracchiante di Prussia nel pronunciare quella solo ed unico termine. Lancia un occhio fuori dalla finestra. Aveva detto ai tre Baltici di non seguirlo, di riposarsi a Mosca, ma hanno comunque voluto venire con lui. Non glielo aveva obbligato, né imposto. Avevano loro stessi deciso di seguirlo. Non avevano idea di quanto lo abbiano fatto felice. Russia si era sentito felice quando i tre gli si erano avvicinati e gli avevano domandato di andare là, nella ex Prussia, per stargli vicino. È stato felice per tutto il viaggio. Prussia non ha idea di quanto lo stia ferendo.

“Hey, mi senti? Gira quella maledetta testa e guardami!” Russia continua ad ignorarlo, le mani di Lituania sui riccioli di Lettonia sono molto più interessanti “Tsk… Non dirmi che hai deciso, d’un colpo, di fare l’uomo?” il generale volta di scatto la testa, iridi di fuoco, viola di fiamme infernali, bianca la pelle. La domanda non la pone, non ne ha bisogno, Prussia comprende e continua a mostrare il ghigno “Dai, Russia, veramente stai cominciando a fingere di avere un cuore?” le fiamme si congelano, statiche, fredde, ma comunque potenti. La mascella del gigante è bloccata. Vorrebbe aprirsi, ma non ha idea di come fare. Una vena d’ira s’ingrossa vicino al cuore.

“…fingere…?” questa volta Prussia ascolta, sente, e trova ridicolo. Mostra una risata sprezzante. Scommette che nessuno è mai stato così magnifico da sbeffeggiare la Russia in persona. Mai nessuno l’ha fatto e mai nessuno lo farà, se non lui. Questa nuova scoperta lo eccita, lo fa sentire bene, riesce a farlo dimenticare. Dimentica anche la presenza preoccupata di Gilbird sulla sua spalla strappata. Le piume gialle dell’uccellino solleticano malamente la carne scoperta e pulsante del prussiano. Prussia ride. Sa di sangue e piombo americano, la sua risata. Sa di disgusto e provocazione. Russia sa che vuole provocarlo, lo sa, eppure il suo cuore è ancora instabile e non lo comprende. Pulsa forte e protesta, bestemmia di rabbia. Questo corpo morto non ha il diritto di giudicarlo.

“Russia, giuro su tutto ciò che c’è di più sacro al mondo che mai e poi mai ho visto un bastardo come te su questa terra” ecco, l’ha detto. Chiude le palpebre, non vuole avere paura, non vuole fermarsi. Vuole ancora dimenticare e ridere. Si sente dannatamente bene “Fai sempre il bambino dolce e carino, cerchi sempre di mostrati buono e simpatico. Ma lo sappiamo tutti, anche quell’idiota di America, che di buono in te c’è n’è più o meno quanto l’altezza di quel nano baltico laggiù” la testa del prussiano fa un leggero scatto verso la finestra, verso il piccolo Lettonia. Russia rimane ancora in silenzio, ancora fermo di fronte a sé “Però sei un bravo attore, sai? Quando eravamo piccoli… Dio, ero un marmocchio, ma la testa era magnifica come oggi! Per un attimo avevo creduto che tu fossi solo un mocciosetto piagnucolone, ma poi… oh, certo che eri piagnucolone! Tanto da strozzarmi ed ammazzarmi solo per una nuotata in un laghetto ghiacciato, dove pure il Magnifico Me era caduto!” Prussia ci sta prendendo gusto, continua a sghignazzare e a ridere “Che poi questa dei Baltici è fantastica. Quando sono andato, nel ’39, a firmare il trattato di non aggressione per avere la Polonia, eri tutto allegro e felice con quei poveretti. Ma come tremavano… parevano foglioline al vento! Si capiva benissimo che ci avevi messo le mani tu, che ci avevi messo la tua firma sulle loro schiene e solo Dio sa su quante altre parti del corpo ti sei divertito. Ma tanto lo sanno anche gli Asiatici che con te ci sono solo frustate e sorrisini da riviste americane” scoppia un’altra risata, più aspra e gracchiante, più sadica e vogliosa di essere liberata. Prussia si sente liberato di un peso maledetto quanto la vista di Berlino in fiamme, cadente di fronte agli Alleati.

Sente lo sparo rimbombargli nelle casse delle orecchie. In meno di un secondo, l’impatto del proiettile contro di lui viene registrata dai suoi occhi, ora sbarrati. L’aria scheggiata dall’onda d’urto, la sedia tremante, pochi millesimi di secondi passano di fronte agli occhi del prussiano, come se fossero secoli e secoli lasciati alle spalle. Gocce grosse di sangue spruzzano fuori, si rigettano sul viso di Russia, bianco e ghiacciato, sulla sciarpa, sul cappotto nero. Gli occhi fiammeggianti, il volto scuro, le iridi sono ametiste di fuoco. La canna della pistola ad un palmo dal collo di Prussia. Gilbird fa un fischio molto acuto, incredulo, disperato. Un cardellino a cui hanno divorato i figlioletti. L’uccellino, per l’impatto, è stato gettato via dalla spalla del padrone. Russia non lo vede più, non vuole vederlo più. Sente solo i suoi cinguettii di incredula disperazione.

Le palpebre di Prussia sono scomparse, tanto gli occhi sono sbarrati, biglie di vetro rosse negli occhi. Un brivido di incredulità trafigge le sue vertebre. Sente e vede il sangue schizzare fuori dalla nuova ferita al collo. Non sente più aria nei polmoni. Quel colpo li ha bloccati per sempre. Non riesce più a respirare. Non riesce più a sorridere o a ghignare. Le palpebre decidono di socchiudersi, indignate, disgustate, accettato ciò che hanno assistito, ma comunque oltraggiate dallo sparo e dagli occhi del gigante. Prussia disgusta Russia e non trova altro a cui aggrapparsi, nient’altro che sia accettabile da ricordare.

Non sei cambiato, vorrebbe urlargli. Non riesce ad aprir bocca. Non riesce più a parlare. Non ha sangue, aria e vita. Il collo è spaccato, l’osso si è rotto, il proiettile è rimasto incastrato all’interno, separando le due vertebre. Prova di nuovo ad aspirare dell’aria. Niente. La gola è del tutto bloccata. Non è possibile fare più nulla. La testa si muove da sè, cade all’indietro, molliccia e fragile come il corpo di un verme. Aria fredda e sporca esce fuori dalle labbra del prussiano. L’ultimo respiro è anche il più doloroso. Il collo si è spaccato completamente, la testa svanisce dietro la sedia, a penzoloni, retta a malapena dalla carne del collo. Gli occhi hanno un flash veloce. Si rianimano per poco, prima di chiudersi. Austria prende per i fianchi Ungheria. La fa volteggiare. La poggia di nuovo a terra. La danza ungherese è stupenda. La musica austriaca è meravigliosa. Ungheria sorride. Austria sorride. Poca esitazione. Congiungono le labbra. Italia e Polonia, suonando al pianoforte, applaudono, estasiati. Polonia socchiude le palpebre, pare commosso. Italia abbraccia il suo fratello acquisito, commosso e felice anch’egli. Lui spia dalla finestra, dalle fronde verdi. Odio nello sguardo. Il primo bacio di Austria ed Ungheria. Le palpebre si chiudono definitivamente, l’ultimo respiro finito per sempre. Il cuore smette di battere, scoppiato. L’aria diventa gelida, d’un colpo. Gilbird, guarito dai tremiti e dalla paura, volteggia attorno al corpo rosso del padrone. Desidera risposte, desidera sapere perché Prussia non si muove più. Pigola terrorizzato.

Russia abbassa l’arma. Biglie di vetro sono gli occhi. Indietreggia, scosso per lo sparo rimbombato nelle sue orecchie. Sente il sangue di Prussia, schizzato sul suo volto, iniziare a scorrere verso al mento, sulle guance. Respira ed inspira lentamente l’aria di piombo, polvere e morte. Sa di ferro, questa stanza. Lo disgusta parecchio. Gilbird continua a svolazzare, impazzito, sopra al corpo martoriato. Prussia non potrebbe nemmeno respirare. L’orologio scocca, la lancetta brilla come una lama nel buio: mezzanotte. Russia sente le vertigini. Sente di star per vomitare. Gilbird comprende, infine. Si accuccia nel grembo di Prussia. Cinguetta lento, lacrimevole. È un canto di addio. Sa che non vedrà mai più il suo padrone. L’ha compreso, ma fa comunque male, anche se è un piccolo uccellino. Gli animali comprendono più in fretta dell’uomo.

Russia non ce la fa più. La pistola è ancora in mano sua, quasi se n’era dimenticato. La mano trema quando viene alzata sull’uccellino. Il piccoletto non nota o forse non vuole notare. Le zampette sono chine, il piumaggio vivace del giallo è sporco di nero e rosso, gli occhietti addolorati. Gilbird continua a cantare note di dolore. Spera ancora in un miracolo, spera che il suo padrone possa svegliarsi. Canta con più forza, vuole che Prussia lo ascolti. Forse poi si sveglierà e si sentirà meglio. Le piume sporche si rilassano, il capo scende. Gilbird ha un gran male al cuoricino. Gli occhi di Russia hanno uno scatto nelle iridi. Vede qualcosa. Le piume gialle e sporche divengono riccioli biondi, sporchi di rosso e grigio della cenere. Il canto diviene una supplica. Prussia diventa il corpo di un soldato. Vede la bandiera incisa nella sua uniforme: un rosso scuro tagliato a metà da una striscia bianca. Il bambino supplica ancora, un canto pieno di lacrime. Anche quella volta aveva puntato la pistola, verso il soldato. Aveva sparato. Aveva sentito l’urlo disgraziato del bambino rimbombargli nelle orecchie.

Russia si commuove. La canna della pistola scende. La mano trema con meno forza. Le falangi del gigante si poggiano sulle palpebre. Le trova già umide. È ancora legato troppo ai sentimenti. Deve rimediare, non può farsi prendere dal panico e venire maltrattato dal cuore troppo aperto. Deve dare una gabbia alle emozioni, prima che lo possano incarcerare loro stessi. Il dubbio è forte: e se i suoi bambini soffriranno per primi per il suo cuore?

Le emozioni lo prendono ancora. Quella piccola scintilla di lieve paura muta in terrore bianco e freddo. Non vuole perderli ancora, non dopo tutti questi anni di fatica. Decide che deve fare qualcosa. Le mani prendono il posto della testa. Il cappotto viene setacciato, palpato, rovinato dalle dita scosse. Trovano un coltellino. Lo afferrano e i guanti si lasciano scivolare nelle tasche. I sensi vengono guidati dal cuore. L’osso sfregiato della mano destra non sente il dolore, abituato da anni. La linea che percorre la lama è dritta: parte dall’angolo del pollice e scende giù, percorre il muscolo, continua a scendere, infrange ogni singolo osso, continua a percorrere la mano e una piccola parte del braccio.

Il cuore è soddisfatto: il taglio è ben profondo, probabilmente, sicuramente, si creerà una cicatrice. Non sente ancora dolore, ha sempre avuto una mente inflessibile, nemmeno ha avvertito il ferro dentro la sua carne. Il sangue scende a fiotti, naviga e percorre le sue dita. Le gocce, grandi e rumorose, spaccano il silenzio, s’infrangono sul pavimento. Gilbird continua a cantare, ancora triste, ancora scosso. Russia ode il suo canto come qualcosa di celeste. Ha sradicato quella piccola radice di malizia. Il corpo freddo di Prussia è invisibile a lui.

Guarda il taglio sulla sua mano e ne è gioioso. Brucia il sangue che scorre. Brucia e scotta come una fiamma demoniaca. Sorride, una vena malata risale il suo cuore. Semmai dovesse toccare uno dei suoi bambini, la mano si bloccherà per il dolore continuo. E se dovesse comunque ignorare il male asfissiante, la volta dopo sarebbe passato all’intero polso. Si sarebbe tagliato un’intera mano, affinché non dovesse più toccare i suoi figli. Il sorriso si protrae. Adulta, malata è la sua risata felice. La testa cala all’indietro, impazzita per il dolore e la felicità. Questa volta non cadrà nel male, non perderà più Lituania. Sarà solo suo e continuerà ad esserlo per sempre. Così come Lettonia ed Estonia.

Il sangue scorre ancora, sia dalla mano del russo, sia dalla gola del prussiano.

Il canto di Gilbird si ferma, troppo triste anche per lui.

 

 

 

 

 

La terra è bianca. Il cielo è bianco. Il nulla è bianco. Non c’è niente. C’è solo bianco di carta, terra morbida, cielo invisibile. Non esiste il vento lì. Non esiste il rumore. Non esiste un obbiettivo od una meta, nemmeno un desiderio da realizzare. È un mondo di carta, dopotutto, dev’essere solo colorato. Ma non esistono i colori, qui. Non esiste nulla, qui. Non esistono i pastelli, i pennarelli, la tempera o le matite. Non esistono i desideri da avverare.

Polonia l’ha capito da subito, eppure questo posto non gli dispiace. Non c’è nessuno lì, nessuno con cui giocare. Non ha mai incontrato qualcuno in quest’immenso spazio bianco. Nemmeno un’ombra o un petalo di margherita. In questo luogo non esiste qualcosa. Eppure, a Polonia, nonostante tutto, non dispiace. Inizialmente aveva pensato di visitare quel posto. Aveva almeno sperato in un cambiamento nel paesaggio, qualche nuvola, del colore, un fiore, un rametto di quercia. Nulla. Il bianco è il padrone e a Polonia non dispiace essere suo suddito. Se non viene condannato o gettato all’Inferno, allora non gli dispiace essere qui.

Pensa che sia una sorta di Purgatorio. Un noioso, ma comunque utile luogo di attesa. Polonia lo immaginava un po’ diverso. Ricorda Italia. Ricorda le storie che gli raccontava. Ricorda di un certo Dante, che aveva nominato, e di un certo viaggio fra i tre regni dell’Oltretomba. Aveva creduto di dover stare in attesa in una montagna in mezzo al mare, in chissà quale luogo della terra, per poi essere trasportato nell’alto cielo del Paradiso. Allora quel Dante di cui parlava Italia aveva torto. Ma Polonia non si sente ingannato, né tradito. Pensa che molte cose, dopotutto, loro Nazioni, non sanno e forse non sapranno mai. Pensa che anche gli umani abbiano il loro stesso cuore e cervello. Crede che abbia semplicemente fatto una semplice, forse deludente, scoperta. Il Purgatorio, forse, è un semplice spazio completamente bianco e monotono. Eppure, a Polonia non dispiace. Almeno c’è Toris con lui.

L’ha sempre seguito, sino a quell’istante, sino a questo luogo. Polonia è semplicemente felice di non essere solo. Toris vola sempre vicino a lui, ridiventato un’elegante falcone rosso. Spesso si posa sulla sua spalla, spesso passa il becco tra i suoi capelli, spesso lo punzecchia col becco. Eppure, a Polonia non dispiace. Vuole bene al suo amico, aveva sperato che avesse potuto seguirlo e così fu. Ora gli fa compagnia in quel luogo bianco ed è felice per questo. Cerca di non ricordare Liet, né Russia, nemmeno i due Baltici. Cerca di dimenticare, cerca di non pensare. In fondo non potrebbe vederli né sentirli. Non sa nemmeno da quanto tempo sia lì. Sa solo che gli piace correre nel nulla, inseguito in volo da Toris. Gli piace giocare con lui, ancora bambino nell’animo. Non è cambiato molto di lui, nonostante tutto.

Continuano il gioco di prima, talvolta Toris muta in bambino, talvolta giocano, come ora “Dimmi un numero!” esclama il polacco, a gran voce, al piccolino poco lontano da lui. Toris, imbizzarrito per il piglio infantile del compagno, rialza la testa, continuando a rincorrere il più grande e anche il più immaturo tra i due. E’ sempre corrucciato e serioso, il piccolo Toris, quando muta in bambino. Polonia crede semplicemente che sia, probabilmente, la sua vera natura, la sua vera forma. Forse, immagina, Toris non era mai stato un pulcino, poi falcone. O forse non è mai stato un bambino. Immagina che, probabilmente, Toris, in realtà, sia un angelo. Forse è veramente lui il più buono fra loro, il più saggio. Forse qualcuno, forse Dio, lo ha mandato da lui per proteggerlo. Eppure, Polonia non capisce perché sia ancora lì con lui, finito il compito. Ma, probabilmente, sono domande nelle quali non riceverà mai risposta. Toris fa un balzo, riempie i polmoni di un’aria inesistente.

“Tre!” esclama, rossi i capelli e il viso provato per la corsa inutile. Le labbra hanno i bordi gettati all’ingiù. Non lo ammetterà, ma gli piace giocare con Polonia. Nonostante sia un idiota, è comunque piacevole divertirsi con lui. Anche se, deve ammettere, bara sempre nei giochi. Il polacco non ci pensa nemmeno. Arriccia il naso, gli occhi diventati scaltri come quelli di un gatto, un sorriso furbetto. Polonia si sente sempre furbo, in confronto ad altri. Toris deve sempre ripetergli che è impossibile ingannarlo, anche se più piccolo di lui.

“Gli anni di Italia!” esclama, euforico, facendo rimbalzare l’eco della sua voce nel nulla dello spazio bianco. Toris sbuffa, le guance si stanno gonfiando. In poco tempo, la facciotta magra del bambino diviene completamente rossa. E’ la sesta volta che cerca di imbrogliarlo e si era ripromesso che, semmai avrebbe superato il dieci, lo avrebbe pizzicato con il suo becco. È pur sempre più veloce di quel babbeo di una Nazione. Polonia continua a stare a distanza, saltellando all’indietro. Non vuole ritrovare sulla spalla un falcone rosso e nero che gli tira le orecchie. Già al terzo scherzo gli aveva quasi strappato una ciocca di capelli, non vuole fare un altro errore.

“Sbagliato! Punto per me!” esulta il bambino, rivoltando le labbra fino a formare un raro sorriso. Toris non è bravo a sorridere, aveva notato tempo prima Polonia. Non è bravo per niente. Pare più una sorta di sghignazzo da gatto, da lince. I due canini, piccoli ma letali, escono fuori dalle labbra. Le labbra si assottigliano ancor di più di quel che sono, scomparendo quasi del tutto. Sotto gli occhi si formano piccole bolle di pelle, tirata troppo all’insù dalle labbra. Pare un vero e proprio ghigno di tigre, il suo. Polonia lo trova più disturbante che inquietante. Toris mostra il sorriso quando vuole sentirsi superiore. Polonia non vuole dargliela vinta.

“No, aspetta!” protrae le mani, gesticola. Il piccolo ritira il punto a suo favore, curioso “I tre moschettieri!” Toris lo guarda di sottecchi, il sorriso muore subito, non gli piace fare il suo sorriso. E non vuole nemmeno farsi fregare di nuovo dal babbeo. Le sopracciglia cadono, pericolose e tenere, sugli occhi. Fa qualcosa di simile ad un broncio scocciato, crede che voglia ingannarlo di nuovo “Esistono veramente! È un libro che mi aveva fatto leggere Francia. Parla di questi tre moschettieri del re di Francia che poi, tipo…”

“Sì, sì, va bene” fa alzare gli occhi al cielo, il piccoletto. Detesta sentire i tipo e i totalmente di Polonia. Non capisce mai come faccia ad inserire in un normale discorse quelle due inutili, ma comunque irritanti, parole. Polonia decide di proseguire il gioco, in modo da non far arrabbiare Toris “I tre porcellini!” Polonia sorride, serafico.

“I Baltici!” sussulta leggermente il corpo del biondo.

“I baci dei russi!”

“Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo…” Polonia vede della luce negli occhietti scuri del più piccolo. Ma è un breve attimo, troppo breve “Allora?” mette un dito sotto al mento, inclina la testa. I capelli chiari cadono di lato, alcune ciocche pizzicano il naso e provano a sfiorare l’iride.

“Mmm…”

“Allora è punto per me!” grida, mostra i dentini, felice di aver vinto almeno e solo una volta. Polonia non ha fatto altro che fare numerosi punti fino ad ora, senza lasciarlo vincere nemmeno una volta e questa cosa lo faceva e lo fa arrabbiare. Polonia, peso poggiato sulle ginocchia, occhi stanchi ma quieti, annuisce più volte. Dopo quattordici partite, almeno un punto ha voluto darglielo a Toris. Solo uno, però. Ma il piccolino è pur sempre felice di aver vinto. Saltella e mostra i pugni al cielo, leggero, mordicchia il labbro inferiore, i canini piccoli all’infuori. È dolcissimo, Toris, quando è felice. Polonia non si pente di averlo fatto vincere. Fa un finto sospiro di sconforto, il polacco, e accoglie fra le braccia il piccolino. Con una forte spinta, lo issa su, sulle sue spalle. Toris è inumanamente leggero. Quanto una piuma, un batuffolo di polvere. Questa cosa incredibile per Polonia è meravigliosa. Ma quasi ogni cosa è meravigliosa, se all’interno del corpo di un bambino.

“Come vittoria, starai sulle mie spalle. Ti sta bene?” il biondo afferra i piedini del bambino. Sente il pancino morbido dietro la nuca, sotto al pigiama bianco. E’ morbido e sodo, il corpicino di Toris. Le manine si poggiano, scaltre, curiose, tra le ciocche sottili dei capelli biondi. Sono pulite e soffici, le manine. Come quelle di un neonato. In breve, il piccoletto ha creato, con la sua mole, un guscio attorno alla testa del polacco.

“Totalmente!” esclama Toris, ironico. Detesta con tutto il cuore quella parola, più dei tipo. Polonia lo sa, ma non si sforza affatto di cambiare. Lui non cambierà mai, dovesse morire una seconda volta. Non si offende, anzi, comincia a correre. A Toris piace stare sulle sue spalle, gli piace anche avere tra le dita minute i suoi capelli. Gli piace soprattutto quando inizia a correre, veloce. Talvolta lascia la presa dai suoi piedini. Gli piace mettergli un po’ di paura. Quando lo fa, Toris sussulta, il corpicino si scuote, dalla gola esce un gemito di paura, le dita si aggrappano disperate alle ciocche bionde, si stringe a riccio sulla sua testa. È troppo carino Toris, quando ha paura. Anche se, poco dopo, si trasforma in falcone e lo pizzica col becco piccolo, ma appuntito. Questa volta Polonia non è cattivo. Vuole solo sentire la risata del bambino. Vuole sentirlo urlare di felicità. Ci riesce, Toris è felice, ma lui è stanco. Talvolta capita che si stanchi così tanto. Si ferma, il bambino smette di ridere, ritorna serioso.

“Ancora, per favore!” pretende più attenzioni, il piccolo. Col tallone scoperto, dà delle leggere scosse ai polmoni del polacco, come un cavaliere col suo stallone. Il corpicino magro ondeggia sulle spalle di Polonia, pretendendo un’altra corsa, qualcos’altro di divertente. I bambini pretendono sempre molto dai loro fratelli. Il biondo ferma i piccoli piedi birichini, li avvolge completamente nei pugni. Il bambino si accorge di non poter più protestare. Toris si spazientisce, cominciando a brontolare con la gola. Polonia sente il mugugno scocciato. D’istinto sorride.

“Ora basta, Toris. Mi sono totalmente stancato!” il polacco sente lo sbuffo del bambino, riconosciuta la parola che detesta. Capisce che non avrà niente se insisterà, quindi smette di lamentarsi. Il biondo riconosce la testolina del piccolo poggiarsi addosso la sua, con la guanciotta sullo spacco dei capelli. Il corpicino bollente si stringe ancor di più a riccio. Ora Polonia ha quasi caldo. Le dita minute si spostano più in su, verso le orecchie. Polonia crede che le voglia stringere, indignato. Si sbaglia: trovano delle ciocche più lunghe e s’immergono in esse. Ha un po’ di solletico dove il piccolo sta poggiando le manine. Si morde l’interno della guancia per non ridere. A Toris non piace quando ride di lui. Ma, a dir la verità, sa più cose che detesta il piccoletto, invece che quelle che adora. Un po’ è dispiaciuto per questo. Decide di rimediare, per quel che può.

“Dimmi un numero, questa volta è senza punteggio” promette, alzando meglio la testa per svegliare il piccolo. Toris alza la guancia dai capelli biondi, poggia invece il mento in mezzo alla testa. Pare riflettere molto. Forse vuole vendicarsi, pensa Polonia. Passano alcuni secondi. Polonia si sente impaziente, più che altro. Pensa che stia perdendo troppo tempo, il piccolino, anche solo per una piccola vendetta. Sente lungo la linea della testa una pallina di deglutii nella gola di Toris.

“Quarantacinque” Polonia, sentito quel che ha detto, si scuote, quasi sdegnato per il numero. Quando Toris vuole vendicarsi, lo fa per bene. Molto bene. E il peggio è che è stato lui stesso ad incastrarsi in questo gioco. E in queste cifre assurde. Ma forse è meglio alzare bandiera bianca, anche se non lo fa mai.

“Eh? È troppo difficile, dimmene un altro!”

“Quarantacinque” ripete, insiste serioso, il piccolo. Rimane così, in silenzio, grave. Polonia non si accorge e non capisce la serietà del bambino. Il polacco comprende di non poter più uscire fuori da questo gioco. Gli brucia ancora la sconfitta. Lui non vuole mai arrendersi, nemmeno con un bambino. Per questo sospira. Comincia a pensare. Non gli ci vuole molto per capire che si tratta di un numero troppo complicato. O almeno per lui… Toris aspetta con pazienza, troppa in confronto a quella usata fino a pochi minuti fa. Polonia non avverte né sente nulla di strano. Continua a pensare che il piccolo sia ancora arrabbiato con lui. Ma anche Toris deve imparare a comprendere i ‘no’, pensa Polonia.

“…Niente. Che ti ricorda il quarantacinque?”

Quarantacinque: fine della guerra contro la Germania” i piedi di Polonia si fermano. Una bolla di tensione è esplosa, inosservata e precisa, nella sua carne. Il cuore ha un battito un po’ più prepotente di quelli precedenti. Sente un’aria fredda, ghiacciata, scivolargli sotto la divisa verde. Questa lo pizzica, lo scuote, graffia la carne tiepida. Il venticello continua a morderlo, affamato. Riesce a spingersi nella carne, colpisce le vene, le ghiaccia e ferma il sangue all’interno, non più bollente come prima. Polonia diventa un blocco di ghiaccio, le spalle paralizzate. Toris è ancora fermo sulle sue spalle, non ha intenzione di muoversi. È interessato dalla reazione del biondo. Passano pochi secondi, passano dolcemente. Polonia si scongela, il venticello smette di percuoterlo. Ha un leggero brivido in tutto il corpo, ma smette subito, liberato dalla tenaglia di ghiaccio. I passi continuano ad infrangersi nel terreno bianco, un po’ più lenti del solito.

“Ah, è già finita?” il piccolo muove la mascella, come se avesse dato un potente colpo di denti ad una fastidiosa nocciolina, incastrata fra i molari. Rimuove il mento dai capelli del polacco. Tiene la schiena dura, la flette verso l’alto, alzando il busto. Polonia sente il suo pancino dietro la testa. Fa un respiro profondo, il pancino. Il silenzio fra i due è troppo fermo e serioso per Polonia. Ha qualcosa di impassibile e strisciante, quest’attesa. Toris sembra pensare a fondo, sembra gustare le parole della Nazione come se fossero un dolce veleno. Il biondo, dal basso, sente le sue manine stringere forte delle ciocche, ma non abbastanza per fargli del male. Un sospiro più forte tocca la nuca del polacco. Deve aver detto qualcosa di sbagliato.

“Ti do un altro numero” Polonia abbassa le sopracciglia, abbastanza ansioso “Quarantasette: la Prussia cessa di esistere ufficialmente sulla cartina geografica” i piedi di Polonia sono diventati insolitamente pesanti. Una seconda bolla, più grande, più travolgente, di terrore, esplode con una forza maledetta contro il suo petto. Distrugge il cuore, già di per sé una poltiglia di carne. Continua a camminare, Polonia, eppure si sente troppo pesante anche solo per strisciare. Sente qualcosa dentro di lui inclinarsi per l’incredulità e lo sconforto. Forse qualche vertebra un po’ troppo sensibile. Gli viene in mente Prussia. Sorriso di demone, occhi infossati di rosso, risata schernitrice. Un maledetto diavolo dai capelli bianchi. E dall’egoismo sfrenato. Pensa ad Ungheria e ad Austria. Pensa che Prussia abbia perso una grande occasione per colpa del suo menefreghismo. Ripensa anche a lui stesso che, rispetto ai due sposi, non è mai importato nulla quando era stato spartito per la prima volta, nonostante sia stato anche suo territorio. Non voleva nemmeno che vivesse nel suo paese. Ha vissuto fino alla sua indipendenza a Vienna. Ha voluto bene ad Austria dopo molto, molto tempo, ma gli ha e gli vuole bene anche da morto. Lo stesso vale per Ungheria, una madre che non ha mai avuto. E anche per Italia, un fratello e amico molto dolce. In quella famiglia che si era creata con lui, Prussia non entrava né provava ad entrare dentro il quadro di questo stupendo dipinto. Pensato ciò, il passo ritorna gentile, gli occhi scocciati. Pensa anche che è stato lui stesso ad andare a casa di Russia e ad iniziare tutto. In qualche modo, Prussia è stato il primo ad ucciderlo. Per questo si sente più leggero, anche se non reputa, dentro di sé, ogni cosa pensata del tutto vera. Alza le spalle, falsamente indifferente.

“Uh…” mormora, non riuscendo ad aggiungere qualcosa di concreto. In realtà, non crede di poter dire molto riguardo a Prussia. Ferma i piedi, strabuzza gli occhi. Gli viene in mente qualcosa. Pensa che, se Prussia sia morto, allora significa… “Allora significa che Germania è stato sconfitto e che Russia ha perso…” gli viene in mente Liet e i suoi fratelli. Una vena di paura, piccola ma letale, cresce lentamente sotto la carne. Non ha nemmeno il tempo di pensare ad ogni conseguenza di quel che possa essere accaduto che il bambino apre bocca.

“No, Russia ha vinto” mormora, quasi indistintamente, il piccolo Toris. Polonia non comprende, ma ritorna a camminare, più sereno. La vena di ansia si sgonfia, ma il cuore continua a battere forte “La Germania aveva deciso di tradire la Russia e così di fare una campagna contro Mosca” un sopracciglio biondo cade sull’occhio verde di Polonia, interessato “Ma ha fallito e ha dovuto scappare di nuovo in patria. Ma questo, ovviamente, ha scatenato l’inimicizia tra Russia e Germania. Così, dopo la vittoria, Russia si è alleato con gli Alleati, in modo da distruggere e vincere contro la Germania” Polonia vorrebbe aprire bocca, ma non ne ha il tempo. Toris è sempre molto veloce ad anticiparlo “Gli Alleati sono Inghilterra, vincitore dopo la battaglia aerea di Londra, Francia, liberato dopo l’occupazione tedesca, America, alleatosi con Inghilterra, Cina, unitosi per vincere contro Giappone e, infine, Russia” Polonia continua a rimanere in silenzio. Ogni parola di Toris, in qualche modo, lo fa sentire bene. Liet è salvo, questa è l’unica cosa importante. Ma continua ad ascoltare “Poi sono accadute tante battaglie e tante altre cose troppo lunghe da raccontare… Ma la cosa importante è questa: l’Asse è stata sconfitta dagli Alleati e, per spartizione di territori, la Prussia è, ora, inesistente” Polonia trattiene un ghigno e una risata di scherno. La cosa lo fa ridere. Lui è morto per aver difeso la sua patria, Prussia è stato spartito come un’idiota. Ricorda anche che Prussia, la volta in cui sparì dalla cartina geografica, lo prendeva in giro per essere diventato una Nazione fantasma. Diceva che a lui, al Magnifico, non sarebbe mai capitata una cosa del genere. La cosa, sinceramente, lo fa ridere. Beh, peggio per lui, dice fra sé e sé. Però ha pur sempre un arcipelago di infiniti battiti nel suo cuore troppo abusato. Ha quasi paura ad aprir bocca a Toris. Paura di farlo spazientire. Si mordicchia l’interno della guancia pensando brevemente a quel che gli ha raccontato il piccoletto.

“Bene. Quindi…” sospira, deglutisce, si sente debole, inferiore, Polonia “Posso almeno sapere in che anno siamo?” il polacco aspetta una risposta dal piccolo sulle sue spalle. La testa si abbassa, sottomessa, penosa. Spesso chiedeva a Toris delle notizie su Liet. Non apriva mai bocca… o becco. Non rispondeva, o forse non poteva rispondere. Forse, semplicemente, ora che lui è morto, non dovrebbe più interessargli il mondo in cui viveva prima. Forse dovrebbe provare a dimenticare del tutto Lituania e ogni avventura vissuta con lui. Forse dovrebbe semplicemente abbandonare per un attimo il suo animo di polacco ed accettare il fatto che non potrà mai più rivedere il suo Liet. Forse dovrebbe, ma non ci riesce. Non ha un’anima abbastanza strafottente per non pensare al suo migliore amico. Spera con tutto il cuore che viva felice. Anche solo sapere questo lo può rendere muto per l’eternità. Non ha mai fatto questa domanda a Toris. Pensa che un giorno dovrebbe farla.

Cinquantadue” Polonia sobbalza leggermente, preso alla sprovvista “Siamo nel cinquantadue, sicuramente in estate” Polonia attente altre parole, anche solo sussurrate. Il cuore, ancora forte per i grandi battiti, è esasperato e voglioso di notizie. Le orecchie sono vigili per la voce bassa del bambino. Dopo pochi secondi, fa cadere l’attenzione. Un velo di malinconia cade sulle sue spalle. È ruvido, ma leggero, questo velo. Non si aspettava, in realtà, altre risposte da Toris. Ormai lo conosce, sa che non ha mai fatto nulla del genere. E mai lo farà. Ma è sempre molto speranzoso, Polonia. Cerca sempre ciò che non esiste. Toris non parla più, detto anche troppo. Il biondo sente i polmoni, gli occhi, i passi stanchi. Il petto inizia ad ingrossarsi. Dalla gola s’innalza e si libera uno sbadiglio. Lo para col dorso della mano guantata. Ritorna anche la stanchezza, quella che da un po’ lo attanaglia. Non sa che significhi, questo sfinimento. Però non può fare a meno di lasciarsi cadere in ginocchio e di far scendere il bambino.

Toris comprende, si lascia cadere all’indietro. Polonia vede la sua pelle coprirsi di piume, veloci a crescere, veloci a colorarsi di rubini e petrolio nero. Le braccia si protraggono all’indietro, riunite le dita con la mano, incurvata la schiena verso il suolo. La testa si restringe, piccola, i capelli cadono e si frammentano in pezzetti di carta trasparenti. Volano via, i frammenti di carta, diventano così piccoli da svanire completamente. Il becco cresce sulle labbra sottili, ricurvo e pungente. I piedini divengono più sottili, giallognoli, crescono artigli scuri. Gli occhi vengono tagliati a mandorla, mutano in rapaci, ma comunque eleganti e neri, quasi lucidi, coperti di stelle. Polonia non si smuove di fronte a questo spettacolo, visto tante volte, ormai abituato. Semplicemente si sdraia per terra, testa sul cuscino creato col mantello e con la sua giacca. Toris lo raggiunge, gli saltella vicino. Polonia, preso da un istinto dolce, fa passare le dita sul capo del falcone. Toris risponde piegando la testa, desideroso di attenzioni. Il polacco sbuffa una risata.

“Sai che sono un tipo strano, Toris?” il rapace riapre gli occhietti, comunque desideroso di più carezze. Polonia gliele concede “Anche se sono morto, penso solo alla mia vecchia vita. E… anche a Liet” Toris sbatte più volte gli occhi. Non risponde più alle dita gentili. Polonia smette di carezzarlo. Passa le mani ai suoi fianchi. Si stringe in un goffo abbraccio. Ne vuole tantissimi, di abbracci. Vorrebbe qualcuno che lo amasse. Gli dispiace che Toris non sia molto affettuoso o desideroso di affetto. Sa che potrebbe dargliene molto, se glielo chiedesse. Anche Liet non glieli chiedeva mai, di abbracci, ma glieli dava sempre. E Polonia era sempre felice di dargli affetto. Spera che Liet avesse capito che gli voleva bene “Secondo te sta bene?” il falcone attende per qualche secondo. Gli occhi neri vagano, schizzano veloci, sulla maglietta bianca del ragazzo. Zampetta, saltella più vicino a lui. Le palpebre, più veloci delle iridi scure, sbattono più e più volte. Scrolla leggermente le piume della coda. Lo zampettio continua anche sulla pancia di Polonia, magra e piatta. Piega le zampe sopra la maglietta, si accuccia oltre le mani del polacco, serrate ancora sui fianchi. Polonia sospira, non ricevendo risposte “Beh, non fa niente. Tanto, ora, credo che sia totalmente apposto” riesce anche a sorridere, nonostante si senta triste “Insomma, mica posso ritornare indietro, no?” il sorriso si spegne, le palpebre si chiudono. Cade subito nel sonno, troppo stanco. Quella stanchezza è strana, se ne rende conto. Ma non può fare a meno di ubbidire ad essa.

A Toris piace vedere Polonia dormire. Sembra un po’ più simpatico e dolce, quando dorme. La testa bionda cade debolmente di lato, senza scendere o precipitare giù dal cuscino improvvisato. Il rapace vede una ciocca bionda scendere sul volto rilassato del ragazzo. Lentamente, cauto, prende la ciocca bionda e, altrettanto prudente, la poggia di nuovo fra le altre ciocche, quelle in ordine. Respira fra le labbra schiuse, il ragazzo. Il falcone ha occhi lucidi. Il capo piumato cade, con lentezza, verso il centro del petto di Polonia. Dagli occhi sgorgano lacrime senza sale, dolci come il miele. Sorelle spensierate, lasciano il loro nido dagli occhi neri. Prendono un piccolo sentiero senza incidenti e cadono. Le altre lacrime, incitate dalle prime, decidono di seguire le sorelle e si calano anch’elle. Sono veloci e bollenti di miele, le lacrime. Cadono sulla maglia, la oltrepassano del tutto, non lasciano nemmeno l’umido dietro di loro, non lasciano segno della loro presenza. Cadono sulla ferita, sulla carne viva ancora aperta. La baciano ed entrano gentilmente attraverso i muscoli aperti. Li accarezzano e si lasciano scivolare all’interno, umili e calde.

Polonia non si sveglia, ma il viso si contrae in una smorfia di frustrazione e leggero dolore. Sente un pesante ed opprimente calore, proprio in fondo al cuore. La cosa stupida è che gli fa male, brucia, eppure ne desidera ancora di più. È qualcosa di masochista e malato, ma desidera quel dolore quasi quanto desidera abbracciare Liet, proprio ora.

Toris continua a lasciare lacrime, cerca di stare in equilibrio sul corpo irrequieto e dolorante di Polonia.

 

 

 

 

 

L’aria ha qualcosa di caldo e vivace. C’è un venticello frizzante di aria fresca che s’impiglia ed abbraccia i girasoli nel giardino. È vispo ed infantile, il vento fresco. È veloce e schiva con eleganza gli ostacoli impiccioni, le fronde verdi e l’erba smeraldina, eppure è malizioso coi fiori di Russia. Pare amare le teste scure e i petali gialli dei girasoli. Fa una veloce rincorsa, prende lo slancio, si getta sulle facce nere e zigzaga fra i lunghi steli, più alti e fieri del piccolo Lettonia, lì portato per accudire i girasoli.

Allo slancio del vento, il ragazzino ferma i piedi, chiude di scatto gli occhi, con una piccola fobia dell’avere della terra negli occhi, porta il cappello di paglia sul volto. Gli steli alti e rigidi danno accoglienza, si piegano dolcemente, permettono al vento di giocare con loro. Finito lo scherzo, ritornano in piedi, eretti ed imponenti. Qualche girasole è stato molto distratto: ha lasciato andare dei petali che volano via, accompagnati dalla brezza estiva. Ma sono delle piccole distrazioni, in confronto al mare giallo presente nel giardino. Lettonia scuote la testa, poggia di nuovo il cappello sul capo e ritorna al lavoro col secchio d’acqua. E’ calmo e sereno, gli piace stare lì, al sole, col profumo di rose alla destra, di fronte a sé i girasoli e alla sinistra i tulipani. Gli piace anche che Russia lo abbia ascoltato e abbia deciso di piantare i girasoli che adora. Gli piacciono i petali gialli e gli steli sottili, ma rigorosi, che seguono il sole ovunque vada. Aveva visto Russia piantare dei girasoli, ma mai così tanti. Spera che sia stato lui stesso a farglieli amare ancor di più. Si sentirebbe fiero.

Il secchio è quasi del tutto vuoto d’acqua, deve andare a riempirlo. Il vento birichino gli ha fatto di nuovo cadere il cappello. Sobbalza, vede il copricapo di paglia volare in alto. Si fa coraggio. Con un alto balzo lo riprende, con tre dita. È sollevato di esserci riuscito. Se lo poggia ancora una volta in testa e batte forte più e più volte, per aderirlo al meglio ai suoi riccioli. Bene, è fermo, anche il vento non riesce a farlo cadere. Prende il secchio e svuota le ultime gocce d’acqua. Si volta, deve andare a riempirlo. Ci sono ancora i tulipani che chiedono da bere. Ferma i passi, incuriosito. Il vento inizia a giocherellare, annoiato del cappello, sotto al copricapo, coi riccioli biondi. Fischia, parlotta nell’orecchio del ragazzino, ma lui non lo ascolta. Vede in lontananza, vicino al cancello, Estonia e Russia. Avanza qualche passo, il vento, non ancora annoiato, continua a sbeffeggiarlo. Non sente ciò che si dicono, ma vede gli occhi incuriositi e perplessi del fratello contro i seri e pacati del generale. Sembra qualcosa di importante. Veloci, gentili, gli occhiali di Estonia cadono sulla figura del fratellino. Lettonia vede la luce negli occhiali, illuminano troppo gli occhi, quasi li oscurano. Fa cenno di avvicinarsi. Lettonia, ancora più curioso, lascia il secchio e si avvicina. I due attendono con pazienza, il lettone ora è di fianco ad Estonia.

“Si, signore?” chiede calmo, senza tremiti, né nella voce, né nel corpo. Negli anni ha imparato a controllare entrambi. Anche se ora non ne ha nemmeno uno nell’animo. Lettonia ha imparato a non aver paura di Russia. Estonia fa lo stesso, molto sereno, ma la serietà nello sguardo e nel corpo non è mai sfumata. È parte di sé e non è possibile rimuovere ciò dall’estone. Russia questo l’aveva intuito subito, anni prima. Guarda il piccolo Lettonia con un po’ di tristezza nello sguardo, questa pare quasi preoccupazione. Il vento si diverte a sfiorare la lunga sciarpa di Russia, meno infantile.

Sembra riflettere molto su qualcosa, il russo “Signore, credo che Lettonia sia abbastanza maturo…” mormora altrettanto triste nella voce Estonia, cosa non vista invece dal volto, sempre severo e alto. Il vento smette di giocare con le ciocche di Lettonia, interessato anch’egli alla conversazione. Il ragazzino è ancor più perplesso e curioso, ma la curiosità si scema e si quieta nel vedere gli occhi scuri e pesanti di entrambi. Non ha paura, ma pensa al peggio. In un attimo di calma, lancia gli occhi un po’ in giro. Non c’è Lituania. Di sicuro è dentro casa, di sicuro sta riordinando qualche stanza. Russia pare annuire fra sé e sé, senza più alcuna malinconia. Lettonia ha pochi secondi, ma riesce a voltarsi. Guarda le grandi finestre: Lituania è lì, mani dietro la schiena, mento alto, una presenza forte. Lettonia è quasi spaventato, non comprende. Estonia e Russia vedono la stessa cosa, entrambi sospirano, chi per lo sconforto, chi per un pizzico di leggera prepotenza. Estonia ha spesso lievi scatti d’ira, gli anni non sono riusciti a mutare questo difetto. Il ragazzino, anche se di spalle, sente gli occhi gravi di Lituania sulla sua schiena.

“Bene, allora andiamo. Vieni anche tu, Lettonia” si volta, lentamente inizia a camminare. Estonia lo segue, mani incrociate dietro la schiena, occhiali accecati dalla luce del sole. Respiro veloce. Lettonia sente in lui più paura che rabbia, qualcosa in Estonia è cambiato. Lettonia li segue, timoroso, non ha idea di cosa aspettarsi. Il vento si calma, indeciso anch’egli se giocare ancora. Superato il cancello, Lettonia si volta. Alla finestra Lituania non si è mosso, alto e fiero. Pare un cavaliere, come l’aveva visto in passato. Qualcosa è tornato indietro nel corpo e nell’anima del lituano. È fiero e orgoglioso, eppure Lettonia teme i suoi occhi quasi quanto li temeva nei giorni in cui non dormiva, anni prima. Ma quel che vede è qualcosa di più umano, per nulla folle. È qualcosa che lo rende tranquillo, ma sente ugualmente il disagio di essere studiato da un soldato con una spada nella cinghia e uno scudo dietro le spalle. È qualcosa di opprimente e pesante… e forse anche spaventoso. Per un attimo vede un mantello di pelle, un’armatura di ferro, lancia in mano a Lituania. È solo un attimo, ma basta a Lettonia per meravigliarsi.

La foresta, quest’anno, ha dato il meglio di sé. L’aria è calda, abbastanza per gettare nell’armadio i cappotti e le giacche. Lettonia non esce fuori dalla villa da mesi, non aveva nemmeno osato alzare gli occhi oltre il cancello. Non ne aveva mai avuto desiderio. Si sorprende quindi di vedere le fronde alte e verdi. Pigne, foglie ampie delle querce, aghi di pino da altri alberi. Ricorda la foresta inondata di neve e gelo e la pozza di sangue di Lituania. Questo posto sembra un altro luogo, più fiabesco, per nulla lugubre. È meravigliato, il piccolo Lettonia. Poggia lo sguardo su dei funghetti arancioni e marroncini. Nota, senza timore, chiaramente, che si muovono: un piccolo riccio, insieme ad altri due compagni, stanno trasportando sugli aculei neri i funghetti. Zampettano laboriosi, dolci, per nulla irritati dalla loro presenza, forse già abituati. Scompaiono tutti e tre in un buco, sotto le radici di un albero. La paura di Lettonia è nulla. Sorride, trova buffi quei piccoli ricci. Estonia e Russia non hanno occhi che per un sentiero invisibile di fronte a loro. Il lettone sfiora col cappello dei rametti sottili e scuri. Una bolla di verde e cremisi è a due pollici da lui. Ferma un attimo i passi, li rallenta. Questo cespuglio gremito di lamponi è inaspettatamente più grande di lui stesso. Non ne aveva mai visto uno così.

“Lettonia, se vuoi puoi prenderne alcuni” volta leggermente il capo, Russia. Lettonia non riesce a vedere il suo sguardo, ma è ovvio che non abbia espressione. Estonia è ancora elegante, rallenta il passo. Il ragazzino non vuole farli aspettare, prende pochi lamponi, abbastanza per riempirsi il pugno. Ritornano in cammino, ancora lenti. Lettonia guarda i lamponi nelle sue mani: sono quasi rosa, tanto sono gonfi di succo. Ne addenta due alla volta. I denti si sporcano di rosso, di dolce, giusto un po’ pungente. I passi calpestano l’erba e i ciottoli di terra del sentiero invisibile. Un cuculo singhiozza il suo ‘cu cu’ sopra le loro teste. Lettonia si sente sereno. Accelera leggermente il passo, abbastanza per toccare la camicia di Estonia, ancora con lo sguardo verso il terreno.

“Ne vuoi uno?” il fratellino alza le mani, rimangono pochi lamponi. Estonia è distratto. Estonia è scuro. Estonia è pesante nei piedi e nell’anima.

“No, grazie” fa scendere le lenti degli occhiali verso i propri piedi, ancora cupo negli occhi. Lettonia riabbassa le mani, caccia in bocca i frutti. Un brivido di timore ritorna dentro le vene. Non riesce a domandarsi nulla, i tre hanno fermato il passo. Il ragazzino alza lo sguardo, gli occhi pesano, hanno assorbito paura e malinconia. Russia è il primo ad entrare nella casetta, deciso, una vena di sconforto prosciuga i suoi occhi. Estonia entra, alza lo sguardo, qualcosa blocca i suoi polmoni, non riesce a respirare. Lettonia si sente leggero, bambino e fantasma. Sente di entrare in un vecchio incubo, ma con la consapevolezza di poterne uscire di nuovo. La porta si chiude, il buio inghiotte la luce.

Russia deve averlo fatto apposta, crede Estonia, così Lettonia non potrebbe vedere il sangue schizzato in ogni angolo della cucina. Il profumo della foresta pare un lontano ricordo, morto da anni. Questo luogo puzza di metallo, di carne marcia e secca, di chiuso, di tristezza. Non avrebbe voluto rientrare lì dentro, Lettonia. Lo sguardo non riesce a posarsi su nulla, ogni cosa è nera, ogni cosa è quasi invisibile. Delle ombre calme, rinchiuse per anni in questa piccola gabbia. Lettonia si sente in gabbia, ma continua a seguire il fratello e il generale.

La stanza da letto ha un odore ancor più sgradevole, quasi nauseante. È qualcosa di dolce, un po’ pepato, forse per la puzza di terra e muschio. Dai buchi tra le pareti e nelle innumerevoli travi spaccate escono fili d’erba. Sono delle calamite piccole, ma piacevoli. Lettonia è grato che ci siano, anche se improprie per l’ambiente. I fili d’erba sono in ogni punto del pavimento e angolo della stanzetta maleodorante. Il verde distrugge il nero, lo elimina e crea luci e colori caldi. Il ragazzino si sente caldo. Le due guide oscurano il centro della stanza, troppo ingombranti per la vista del lettone.

“Lettonia, non spaventarti, guarda qui” Lettonia guarda. La vista è leggermente appannata dal buio, ma anche sul materasso ci sono fili d’erba. Ovunque ci sono i filamenti smeraldini, forse più alti e robusti. Molti, verso il centro, hanno alla punta delle foglioline, rotonde come palline di carta. Lettonia, dopo un po’, vede, comprende. Il corpo di Polonia è coperto di stracci, anche il volto, nonostante il ragazzino scorga le labbra leporine e la gola tagliata. Il sangue è diventato una crosta sulla pelle, un secondo strato di carne. Nient’altro vede, ma la grossa macchia scura sulla pancia è una fitta al cuore. Lettonia, d’istinto, si stringe lo stomaco con le braccia. L’istinto, ancora, gli impone di arretrare. Gli occhi vogliono calare e voltarsi. Si sforza di non farlo. Deglutisce un bozzolo di acre saliva: il corpo è concime per l’erba che cresce addosso alla carne scoperta e disidratata di sangue. Sulle braccia tagliate cresce ciò che pare muschio, smeraldino, spugnoso e ghiotto di carne. Lo stomaco del ragazzino si rivolta, disgustato. Ora lo sguardo cala. Ma vedere di nuovo i fili verdi è orribile. Capisce come siano cresciuti lì dentro. Si sfila il cappello di paglia, in segno di rispetto e misericordia.

“Lettonia, stai bene?” il fratello passa piano una mano fra i riccioli. È preciso anche dove tocca, Estonia. Non vuole fargli del male, vuole che si senta bene. Lettonia sente la saliva in gola troppo dolce, troppo acre, senza sapore. Russia si rimette in piedi. Vede il pallore di Lettonia e sospira. Immaginava che non fosse stata una buona idea, ma aveva pensato di avvisarlo prima, invece che troppo tardi. Si avvicina ai due, cauto nei passi. Lettonia pensa di star per vomitare. Non sente le parole di Russia, ma si lascia trasportare dalle sue braccia, decisamente più determinate delle sue. Cambio stanza, la puzza scompare quasi del tutto, ma la sensazione di vomitare è forte. Respira ed inspira profondamente quell’aria malsana, ma migliore della precedente. Si riprende subito, non era nulla di grave, è rimasto solo sorpreso di vedere Polonia dopo tanto tempo e in uno stato così pietoso. Deglutisce, alza la testa, il cappello ancora tra le mani. Gli occhi di Russia sembrano brillare in quel buio. Pensa che sia meglio dare delle spiegazioni. Ora ritiene Lettonia molto più calmo.

“Lettonia, ricordi quando Lituania era malato…?” la mano di Estonia cade, viene sostituita da una di Russia. Il pollice è lento e dolce con i capelli del ragazzino. Ancora senza guanti, Russia li porta raramente in quegli anni. Estonia ha occhi stanchi, il frammento di ira è morto nella stanza precedente, mangiato dal corpo di Polonia. Non ha il coraggio di arrabbiarsi con un cadavere coperto di muschio. Gli occhi, pacati, decidono di concentrarsi sulla cicatrice del generale. Taglia il bordo della mano e scende giù, oltre il manico della divisa. Estonia non ricorda di averla mai vista prima. Pensa che forse non l’aveva notata, forse ce l’ha da molti più anni, solo che non aveva mai visto il russo così tante volte senza guanti. Anche in estate li portava, non che facesse molto caldo. È più bianca della stessa pelle. Per un breve attimo, Estonia si chiede come se l’abbia recata.

“…si”

“E sai anche il perché della sua malattia” è un’affermazione, Lettonia lo capisce. Sembra sottintendere molto di più, questa semplice frase. Ma annuisce comunque, il piccolo lettone. Russia lo imita “Da qualche giorno stavo pensando di…” sciocca le labbra, il russo, non trovando le giuste parole per descrivere il suo piccolo desiderio. Lettonia attende con pazienza. Gli occhi pensierosi e adulti di Russia hanno qualcosa di dolce e buono e questo lo apprezza molto “…pensavo di chiudere definitivamente con tutto quel che ci è capitato” Lettonia ascolta con più attenzione. La puzza nella stanza pare svanire, così come il buio e il liquido scuro sotto ai loro piedi “Sarebbe molto più dignitoso se quel corpo riposasse in pace, non credi?” sorride scuro, Russia. Ha dimenticato anni fa come fare il suo sorriso, come sorridere naturalmente. Lettonia, fantasma di un bambino, annuisce, capendo “Così Lituania potrà sentirsi molto meglio e… forse anche Polonia, dopo tutto quel che gli è accaduto” accenna ad una risata, morta “Potremmo seppellirlo vicino al nostro giardino” il nostro giardino, sente l’eco Lettonia, emozionato e commosso. Forse sarà solo un’impressione, ma il ragazzino sente la mano di Russia un po’ più delicata, vicina al suo orecchio “Potremmo fargli un funerale, com’è giusto che sia. Ma dovremmo prepararci bene e… aiutare anche me, visto che di riti cattolici so ben poco” Russia accenna ad un’altra risata, allegra. Lettonia, senza accorgersene, alza leggermente gli angoli della bocca “Sei d’accordo con la nostra idea? Anche Estonia mi sta dando una mano” il ragazzo, nominato, non si scuote, non si muove, non ha espressione. Lettonia non deve pensare. Annuisce più volte, una voglia irrefrenabile di saltellare sul posto. È semplicemente felice.

“Ma, signore, Lituania lo sa?” Russia ha un’esitazione, la mano sulla testa del lettone scende, cade, si ricongiunge al corpo del gigante. Un battito di ciglia, Russia ritorna malinconico. Lettonia è preoccupato.

“Si, lo sa” un’altra esitazione, pare in pensiero. Non aggiunge nient’altro, senza parole. Estonia ha aria fredda nei polmoni. Sinceramente, avrebbe lasciato Polonia lì. Quello della malattia di Lituania è un capitolo ormai chiuso e morto. Dimenticato. Mai più dev’essere toccato, nemmeno sfiorato, neppure osservato, neanche per sbaglio. Per Estonia, Polonia avrebbe dovuto rimanere qui, in questa casetta spoglia, incarcerato tra gli alberi neri, la neve d’inverno e le mura cadenti. Polonia ha dato troppa sofferenza, il suo cadavere ha dato troppa disperazione. Lituania ora sta bene, tutto è finito, nulla ritornerà più indietro. Non serve sigillare quel libro, basta solo che nessuno lo guardi, basta solo nasconderlo in un cassetto e dimenticarlo, man a mano negli anni. Basta e bastava solo questo, per Estonia.

“E… cosa ne pensa?” chiede ancora Lettonia, piccolo e curioso.

“A parole sue, è d’accordo di dare sepoltura al corpo” è troppo formale il linguaggio di Russia. A parole sue… Lettonia sa che quando il generale parla in questo modo e con queste piccole parole, dice molto più. Ripensa alla presenza di Lituania alla finestra, cavaliere di postura, di occhi e di spirito. Pensa che avrebbe dovuto immaginarlo, ma non riesce a pensare ai suoi veri pensieri. Ai veri pensieri di suo fratello. Si chiede se, parlando con Russia, si sia sentito male, si sia sentito triste, depresso nel ricordare l’amico. Non ha idea. Quello di Polonia è un capitolo ormai quasi dimenticato nella sua mente. Gli sembra che tutto ciò che ora ricorda sia accaduto almeno un secolo prima, forse anche più. Il cambiamento preso da Lituania negli anni seguenti è stato così radicale da lasciarlo felice ed incredulo allo stesso tempo. Era solo contento che suo fratello fosse guarito, quello era l’unica cosa che gli importava. Russia lancia un occhio verso la porta di fianco a loro, dov’erano usciti prima. Pensa che Lettonia non possa rivedere il corpo, così, di nuovo.

“Senti, Lettonia, per prima cosa dobbiamo portare a casa Polonia, ma credo che sarebbe meglio se Lituania non lo vedesse… o, almeno, non in queste condizioni” Lettonia annuisce, è perfettamente d’accordo col russo. Anche lui avrebbe detto la stessa cosa “Quindi ora, io ed Estonia portiamo Polonia nel seminterrato, al pian terreno, così potremo lavarlo e, chissà, anche fargli indossare qualcosa di più rispettoso” Lettonia sorride, sente le lacrime agli occhi. Qualcosa gorgoglia nel suo stomaco. Il freddo lì dentro scompare, questo brontolio è caldo e confortevole. Pare una dolce carezza al pancino e Lettonia è semplicemente felice del pensiero di Russia “Nel frattempo, tu dovrai tenere lontani gli occhi di Lituania. Non è un segreto, sa che stiamo portando il suo amico a casa, ma basta comunque che non lo vedi” Lettonia deglutisce, sente un sapore salato nella gola “Cosa ne pensi? Credi di poterlo fare?” esitazione, ma solo passeggera, solo una cosa di poco conto. Gli occhi cerulei del ragazzino brillano di una luce invisibile. Annuisce ancora, emozionato. Si sente orgoglioso, si sente felice. Il gorgoglio nello stomaco è ancora più dolce e simile ad un abbraccio. Lettonia è felice di dare una mano.

Lasciata la casa, prima dei due, Lettonia corre, sa la strada. Sente di nuovo il cuculo, l’odore frizzante della foresta, il venticello birichino. Vede ancora il verde degli alberi, il cespuglio di lamponi, i ricci zampettanti a caccia di altri funghi. Si sente incredibilmente leggero e felice, non vorrebbe essere in un’altra situazione. L’anima è irrequieta, agile. Dà più velocità al corpo, forse troppo leggero per lei. Evita, lesta, i tronchi scuri e i cespugli spinosi. Ritrova la strada, rivede il cancello. Ha ali d’argento, vola spedita dentro casa. Varcata la soglia, si quieta, soddisfatta per il breve, ma emozionante volo. Ritorna nel corpo gracile di Lettonia. Ritorna a casa. Lettonia passa in stanza in stanza. Non gli serve chiamare Lituania, lo trova subito, nella loro stanza. E’ steso a pancia in su, sopra al loro letto. La luce della finestra, sopra al letto, fa brillare i suoi capelli d’ebano. Sfiora la pelle, ma non passa troppo tempo a riscaldarla, il sole. Preferisce i capelli scuri, più morbidi e tiepidi. Lettonia si ferma alla soglia, osserva per poco il fratello. Lituania si accorge di lui, ma decide di non voler muoversi. Il ragazzino, preso dall’istinto fraterno, si sfila tranquillamente le scarpe e inizia a gattonare sul letto.

“Stai bene?” Lituania né risponde, né fa cenno di aver inteso. Lettonia, con un ultimo colpo di ginocchia, riesce a sdraiarsi di fianco al fratello maggiore. Poggia la schiena sul materasso, sfiora col braccio le costole di Lituania. Il moro continua a guardare il soffitto, come se fosse in qualche modo interessante, con sguardo attento e serio. Continua a rimanere muto, congiunte le mani in grembo. Ha qualcosa di sublime, Lituania, che Lettonia non comprende, ma ammira. Lo sguardo del lituano pare trafiggere l’aria intorno a loro, tanto è fisso, concentrato su pensieri lontani. È difficile dire con certezza cosa stia pensando di preciso. L’amico defunto è ancora tra i suoi pensieri, dopo anni ed anni di sofferenza? Il fratellino, capito il silenzio, si accuccia ancor più in profondità nelle coperte e piega il capo verso il collo di Lituania. Lo sfiora, lo carezza, lo compatisce, i riccioli biondi.

Lituania continua a fissare il soffitto, cavaliere fino all’ultima goccia di sangue.

 

 

 

 

 

Dopo aver finito di cucire uno degli ultimi tagli al torace, Estonia sente bussare alla porta. Prende velocemente un panno, sporche le mani di sangue secco. Per fortuna ha quasi finito. È stata dura, non quanto cucire la schiena di Lituania, ma è stata ugualmente dura. “Avanti!” urla, troppo lontana è la porta. Il panno si sporca, diventa rosso e nero. C’era terra sul pavimento, l’ha spazzata tutta. Russia è uscito poco fa, poco prima di aver finito di aiutarlo. Ha preso la macchina ed è andato in città, per chiamare un prete e altro che possa servire. Ha deciso di essere buono con Polonia.

Estonia getta il panno, riprende ago e filo, sta per iniziare di nuovo. Mancano solo pochi tagli e poi ha finito. La porta si apre, non scricchiola, non fa alcun suono. Nessuno risponde. Pensa che Lettonia si senta male nel vedere di nuovo il cadavere. Finito l’ultimo taglio, si volta, pensa di consolarlo. Il respiro si mozza, ha un brivido lungo le spalle, ghiacciato e maledetto.

“L-Lituania!” esclama, vedendo il maggiore, inespressivo “C-Che cosa stai facendo qui?” cerca di non urlare, ma troppo è il terrore. È troppo presto, non deve vederlo ancora. Non è ancora il momento, Polonia è ancora brutto, è ancora orribile. Si sposta al centro, per coprire al meglio il tavolo, completamente occupato dal polacco morto. Ha un flash, veloce, un filamento di pensiero astratto. Lituania accasciato contro il tronco di un albero. Lituania è vestito elegante. Lituania sorride sereno, malato. Estonia grida, lancia un pugno sulla fronte del fratello. Lettonia è sanguinante, livido in volto. Estonia ha i pugni pregni di sangue. Estonia piange, non voleva fare quello a suo fratello. Non voleva fare quello ai suoi fratelli. Non voleva fare del male a Lituania. E nemmeno a Lettonia. Estonia legge un frammento del libro. Estonia sa che l’ha perso per sempre. Sa che non lo rivedrà mai più.

“Ho chiesto a Russia di poter entrare e ha detto di si” risponde, con calma innaturale, come se non vedesse nulla di insolito. Estonia è perplesso per questo. Il fratello alza le braccia, ha qualcosa di bianco tra le mani “E mi ha detto di portarti questo” sospira, quasi triste. Lo sguardo ancora inespressivo. Estonia si muove, non si para più di fronte al cadavere. Tanto ha già visto, sa che ha visto. Il biondo si avvicina, tremano i piedi, terrorizzati nel toccare terra. Si ferma, gli occhi scuri e severi di Lituania lo trafiggono, le braccia ancora in aria. Prende in mano il bianco della seta. Non sa bene cosa sia, tanto è bianco e pulito da emanare luce propria. Riconosce al tatto ciò che sembra una maglia, ma non pare una maglia. Fa scendere, senza toccare terra, quel che ha in mano. Aperto il tutto, capisce che è una vestaglia da notte. Bianca, antica, semplice, eppure ha qualcosa che lo attira. Alza gli occhi, perplesso, verso Lituania. Ancora inespressivo. L’occhialuto chiede spiegazioni con lo sguardo. Lituania è ancora serio, sospira.

“E’ per Polonia. So che i vestiti che aveva erano irrecuperabili, quindi ho trovato questo. È poco, ma è pur sempre qualcosa” ancora scuro in volto, ancora serioso. Il biondo annuisce, ha ancora briciole del vecchio spavento di prima. Si allontana, poggia sul tavolo, accanto al corpo, la vestaglia. Per un attimo si chiede se starà bene addosso a Polonia. Si chiede se uno scheletro senza sangue starà bene con un’antica vestaglia bianca e luminosa. Si chiede se qualcosa possa stare bene addosso ad un morto. Guarda Polonia e pensa che di lui non sia rimasto quasi nulla. Anche se l’ha pulito e ha cucito le lacerazioni, non sembra affatto lui. Non ha niente che ricordi un principe polacco. Prima, sporco di terra e sangue, pareva una vecchia radice di un grosso albero, ironicamente simile ad un corpo umano. Estonia si meraviglia che la morte tolga così tanto ad un ragazzo. Lituania si avvicina a lui. Il biondo non ha paura. Tanto ha visto. Ma ha comunque una piccola vena di curiosità e paura che brucia vicino ad un suo polmone. Non respira bene. Trattiene il fiato, senza accorgersene. Lituania guarda Polonia, ma è come se non lo vedesse. Estonia alza gli occhi sul fratello, quasi timoroso di una sua reazione, quasi terrorizzato nel rivedere il volto bianco e morto del fratello. Paura innaturale la sua, ma comunque futile: Lituania guarda Polonia, ma non muta espressione. Il fratello minore deglutisce, non avvertendo pericolo, ma comunque terrorizzato di essere in grado di vederne qualcuno. Sospira, cerca di darsi un contegno. Ci riesce, in parte. Mostra un debole sorriso che Lituania non vorrebbe notare.

“Non sembra proprio lui, vero…?” Lituania è inespressivo, scuro, severo, morto.

“No, affatto” così ritorna muto, così riporta il volto bianco. Estonia riabbassa lo sguardo, pensa di concentrarsi solo sulla vestaglia lucente. Forse solo lui l’ha notato, forse anche Russia, ma nulla è tornato come prima. Anni sono passati, anni sono morti dietro di loro, ma nulla è ritornato del tutto come prima. Lituania, dopo quel che accadde nella foresta nera, dopo il patto silenzioso fra lui e Russia, è cambiato. Non è un cambiamento radicale e maligno come la morte di Polonia. In realtà, Estonia non è certo se sia un mutamento positivo o negativo. Sa solo che, dopo ciò che avvenne, anni e anni fa, Lituania è cambiato. Pare un’altra persona, uno sconosciuto con cui hanno imparato a vivere. Tutti loro in questa casa credevano che, con la guarigione del ragazzo, ogni cosa si sarebbe risanata, forse mutata anche in meglio. Questa situazione di stasi, questo sconosciuto con cui vivono, è strano. Forse, semplicemente, non hanno mai conosciuto il vero Lituania e solo ora sanno chi è. O forse, molto più probabile, Lituania si è trasformato in qualcun altro. E’ sereno, senza dubbio, non infelice. È calmo e rilassato, sanno che non proverà più a scappare dalla vita. Eppure… è diverso.

Estonia raramente lo vede sorridere. È diventato molto più serioso e duro di animo. Se per Lettonia è ritornato ad essere un cavaliere virtuoso, per Estonia, e forse anche per Russia, qualcosa in Lituania si è rotto. Forse, dopo tutto quel che è accaduto, un frammento di anima di Lituania è stato bruciato. Il fuoco non restituisce mai nulla. Estonia spera che non sia così, che non abbiano ucciso il suo vero fratello. Spera che non gli abbiano strappato una sua parte felice e spensierata. Spera che non gli abbiano strappato ogni ricordo della sua vita precedente, di sicuro più felice di questa. L’anima di Lituania è in stasi, ferma e serena, ma ha qualcosa di malinconico che sia Estonia che Russia non comprendono. Estonia forse lo sa. Sa che il cammino che percorre un uomo è difficile, sa che ogni sbaglio, ogni periodo negativo crea cambiamenti nell’animo di una persona. Pensa che, semplicemente, l’anima di Lituania ha subito pesanti cambiamenti. Per fortuna è facile vivere con questo sconosciuto. Somiglia molto a Lituania, per questo non hanno problemi a parlare e dormire con lui. Ma questa persona non è comunque Lituania.

Le palpebre del lituano sbattono più volte, le sopracciglia cadono leggermente verso il basso. Qualcosa cambia nel volto del ragazzo, qualcosa rende il suo sguardo perplesso. Estonia segue i suoi occhi, non sa cosa veda di insolito. Sa che il corpo di Polonia è pieno di tagli, ma questi li ha già visti. Si chiede cosa vede. La mano del moro si muove verso il corpo, verso l’alto. Estonia vede le dita sfiorare ed afferrare, prudenti, una piantina. Le iridi blu si scuotono, dubbiose, non ricorda di aver visto quel fiore. Forse si dev’essere incastrato sotto l’ascella del polacco e lì è rimasto, strappato dal terreno. Ma, tuttavia, Estonia non capisce come abbia fatto quel fiorellino a non cadere, dato il lungo viaggio che ha percorso il cadavere. Eppure, il dente di leone è ancora lì, incastrato fra l’ascella e la carne del braccio.

Lituania, col pollice e l’indice, ancora perplesso, cerca di alzare, dolcemente, per lo stelo scuro, il fiore. È incastrato, non si muove. Il volto di Lituania cambia ancora. Diventa qualcosa di più famigliare, più terribile e agghiacciante. Lo sguardo bianco è quasi lacrimoso, occhi sbarrati, tremano leggermente, la mascella fa il meglio per rimanere sbarrata, cerca di non cadere, ma pare un’impresa difficile. Ha qualcosa di triste e orribilmente conosciuto, già visto. Lituania è stanco, non riesce a mangiare, troppe volte non ha dormito. Estonia deglutisce, sente un leggero tremito lungo le spalle, ora lo vede. Il dente di leone non può, non riesce a staccarsi dal corpo di Polonia. Le radici nere, piene di buon sangue, sprofondano sotto la carne del morto, oltre la pelle. Parte del gambo, al caldo, affonda sotto il leggero strato di pelle, s’incastra bene lì, non vuole lasciare il sangue saporito. Lituania fa un leggero strattone allo stelo. Ancora le radici sono ancorate all’ascella tiepida. Ancora non vogliono staccarsi. Estonia sente lo sguardo agghiacciante del fratello, come se guardasse, in realtà, con orrore, lui stesso.

Gli trema la mano, ma si muove veloce. Con le forbici taglia lo stelo scuro, alla radice, con precisione. Una scarica di freddo terrore lascia il suo corpo, fa cadere le sue spalle. È abbastanza sicuro di aver fatto in fretta. Meglio aver agito prima, prima che qualcosa potesse cambiare. Tornare come prima, come quel lontano inverno. Lituania ha fra le mani il dente di leone. I petali gialli, sono sporchi di rosso alla base. Eppure, passando il pollice, non sente alcuna macchia di sporco sotto la sua pelle. Il gambo continua ad essere nero, carico di succo scuro. Lituania capovolge il fiore. Dalla base tagliata inizia ad uscire del liquido rosso. Prova a fermare la ferita, ma il fiore continua a morire e a sputare il sangue del cadavere. Lituania ha saliva acre e dolciastra tra i denti. Ne ha troppa in gola, ma non riesce a deglutire. Lo stelo sputa ancora sangue, le goccioline cadono per terra, carezzano il bordo delle suole delle scarpe del moro. Lituania è tornato come prima. Estonia pensa che sia orribile. Vorrebbe rivedere lo sconosciuto di prima, non importa che non sia Lituania. Questa faccia del lituano è troppo orribile e spaventosamente famigliare. Lituania è a letto, occhi sbarrati, sopracciglia cadute, occhi lacrimevoli. Estonia gli ha aperto il cuore poco fa, ora piange e si vergogna per le parole che non è riuscito a pronunciare. Lituania geme, trema, vede occhi violacei nello spiraglio della porta. Ha paura, implora Dio di aiutarlo, di salvarlo. Non ha mai chiesto a lui di aiutarlo. Non gli ha mai chiesto di salvarlo.

“Lituania, vuoi uscire da qui o…?” cadono le parole, anche ora non sa che dire, non sa cosa aggiungere alla sua frase. Lituania ha ancora qualcosa di orribile in volto. Le palpebre sbattono più volte, di nuovo, come prima. Di nuovo cambia qualcosa nel ragazzo. Lituania svanisce dal corpo del moro, ritorna lo sconosciuto. Il volto ritorna serio, ritorna la compostezza di un cavaliere. Ritorna il ragazzo che ha visto in quegli anni, a cui non riesce a dare un nome. Scuote la testa, il ragazzo sconosciuto, pacato e virtuoso nel corpo. Estonia deglutisce, ringrazia dentro di sé la fortuna per aver finito di ricucire le ferite del polacco. Insieme si aiutano. Il moro alza il corpo di Polonia, attento alla testa e al taglio sul collo ricucito. L’occhialuto avvolge il torace e le ferite con delle bende. Sono sgonfi del sangue, i tagli, ma pensa che sia meglio avvolgerlo comunque, almeno sembrerà un po’ più in carne di quel che è ora, senza sangue, senza muscoli. Hanno quasi finito, gli fanno indossare la vestaglia: la passano sulla testa, come una bambola, come un vestito, e finiscono subito. Polonia pare forse, giusto un po’ più riconoscibile. Giusto un po’. La seta è leggera, ancora più luminosa in quel buio. Non sa chi abbia avuto l’idea di fargliela indossare, ma Estonia pensa che sia stato un pensiero molto dolce. E’ anche della sua taglia, incredibilmente, nonostante le maniche un po’ corte, poco più lunghe di metà braccio. L’importante è che, in ogni caso, Polonia abbia qualcosa di adatto per lui, per una buona cerimonia di addio. L’estone ricorda del fratello. Senza guardarlo, si aggiusta gli occhiali, ricordatosi anche dell’importanza del corpo per il moro. Deglutisce ancora. E’ felice che sia scomparsa quella parte di Lituania, ma vedere ancora lo sconosciuto è angosciante.

“Vuoi che ti lasci solo?” il suo è un sussurro, non voleva che sembrasse un sussurro. Il ragazzo, nel silenzio della stanza, sente comunque. Annuisce, più stanco che triste. Questa giornata gli ha strappato ogni briciola di forza e serenità. Dentro di sé, anche lui pensava che fosse meglio lasciare lì, nella casetta, Polonia. Non odia Polonia, non gli ha fatto nulla. Non gli dà alcuna colpa. Non crede che gli abbia fatto del male. Ma ora il suo cuore sta cercando di ripararsi, sta cercando di riparare ogni crepa creata, anche durante la guerra contro Germania. Polonia, probabilmente, sarebbe stato più al sicuro e felice lì, anche se tra delle coperte sporche. Non si reputa nemmeno molto religioso per fare un funerale. Pensa che sia una cerimonia inutile: chi è morto è morto, non serve fare una cerimonia, non serve celebrare qualcosa. Basta soltanto la serenità di coloro che conoscevano il defunto. Basta solo questo. In qualche modo, anche se non si direbbe a prima vista, rivedere Polonia, malconcio, putrefatte le carni, irriconoscibile, gli ha fatto un gran male. Questo ha fatto male. Russia credeva di fare una cosa buona e apprezza il suo gesto, ma avrebbe preferito continuare a servirlo, in silenzio.

Estonia ha lasciato la stanza, ma per Lituania è come se non fosse mai stato lì. Le palpebre si scuotono, i polmoni si riempiono di aria malsana. Il respiro lascia le labbra, si libera e vola nella stanza. Qualcosa si sblocca dentro il ragazzo. Senza nessuno, senza occhi a fissarlo, Lituania ritorna nel suo corpo. Gli occhi luminosi, ma tristi, desolati, depressi. Guardano Polonia e non lo riconoscono, non sono affatto riusciti a riconoscerlo. Il volto è suo, sa che è suo, ma qualcosa dentro di lui, un pezzo consistente di anima, gli sussurra che non è lui. Ha qualcosa di sorprendentemente diverso e Lituania non capisce bene cosa sia. Ha giurato che, entrato, quello non fosse il suo vecchio amico. Le dita sfiorano i capelli. Non sono più biondi, non hanno più un vero colore. Non sono più morbidi, non hanno più nulla di principesco. Quello non è un principe, quello non ha nulla, non pare nemmeno un corpo. E’ incredibile come la morte rende ogni persona, principe o servo, uguale. La morte ha sfigurato il suo amico e questo lo fa sentire male. Qualcosa, infatti, rende il suo respiro molto più calmo, troppo fermo, troppo carico di emozioni. Non sa nemmeno cos’abbia la sua testa, non sa cosa voglia da lui, non sa perché gli faccia così male. Non sa nemmeno che malattia abbia il suo cuore per premere così forte sullo stomaco, per farlo stare così male.

Muove le mani dentro la giacca nuova, regalata da Russia qualche giorno prima. Fiora la giacca e solo quel giorno, quello in cui l’ha portato a Mosca in un negozio di abiti maschili, solo quel giorno era ritornato Lituania. Non si aspettava un dono del genere, non si aspettava tanta gentilezza da Russia. Non si aspettava nemmeno che il proprietario li scambiasse per padre e figlio. Non si aspettava nemmeno che Russia, con una risata, annuisse e non contraddicesse il signore. L’aveva veramente trattato come un figlio. Lituania non si sentì mai così tanto meravigliato. Non si sentì mai così tanto felice, anche se scambiato per il figlio del russo. Questo ricordo lo riempie un po’, lo fa respirare di nuovo, lo tranquillizza abbastanza per prendere il mazzo di rose in mano. Quest’estate Russia li ha meravigliati, tanti fiori ha piantato. Forse l’ha fatto per il bel tempo, forse per la stagione più calda del solito, forse un po’ per loro. Qualcosa dentro Lituania spera che sia la terza ipotesi. Sarebbe un piccolo abbraccio caldo per il suo cuore. Russia l’ha visto, pochi minuti fa. Gli ha acconsentito di scendere giù, per vedere Polonia. Ha tagliato delle rose, bianche e rosse, le migliori nel suo giardino. Gli ha regalato il mazzetto e gli ha detto di donarlo a Polonia, sarebbero state solo le prime tra le tante rose che gli avrebbe regalato. Anche qui Lituania si sentì meravigliato.

Poggia le rose sul cuore dell’amico, ancora morto, ancora irriconoscibile. Qualcosa di più forte si muove dentro Lituania. I polmoni pretendono più aria, ma il respiro è lento, per questo tentenna e fa tremare il corpo. Le sorsate d’aria sono troppo potenti, scuotono le membra esauste del ragazzo. Lituania sente grosse lacrime correre sulle guance. Sente come se stesse tradendo il suo principe. Ricorda la promessa. Forse le visioni di Polonia sono state il frutto del suo desiderio di morte. Forse è stata la sua immaginazione. Sicuramente è così. Eppure sente il peso di un tradimento sulle spalle. Gli ha promesso di aspettarlo, ma quel che sta acconsentendo di fare a Russia e ai suoi fratelli lo considera peggiore di un’indifferenza da parte sua. Così non l’aspetterà mai più. Starà per sempre sotto terra e mai più tornerà a respirare, a parlargli, a ridere insieme a lui. Sta per tradirlo e questo peso è troppo opprimente per lui. Altre lacrime bruciano sulle guance, singhiozza il corpo, tramortita di tristezza è l’anima. Scuote la testa, un po’ tradito anche lui.

“Ti avrei aspettato per sempre, ma tu non vuoi tornare affatto!” i singhiozzi ora sono un pianto disperato, tanto da costringerlo a piegarsi. Non vuole poggiare le ginocchia sul pavimento, sarebbe troppo doloroso per lui, cavaliere orgoglioso. Sa che non è un vero motivo per disperarsi. Quel che ha visto, ogni cosa che ha sognato di Polonia è stata senza alcun dubbio una menzogna, inventata da lui stesso, soltanto per convincersi di tagliarsi la vita a metà. Era solo una finzione creata dal suo cervello per fargli accettare il fatto che, sì, Polonia sta bene, se lui fosse morto si sarebbe sentito bene, avrebbe potuto scappare facilmente. Ma ora è cosciente, non è più malato, ora sa e comprende ciò che è vero e ciò che è falso. Si è semplicemente mentito da solo, di sua spontanea volontà. È la verità, ma brucia più delle sue lacrime salate.

Sente un leggero tonfo sotto i suoi piedi. Si asciuga le lacrime, fa un respiro profondo. Il mazzo di rose è caduto per terra. Deve averlo poggiato male sul petto del corpo. Fa un altro respiro profondo, riesce a calmarsi del tutto ora, anche se sente la faccia appiccicosa e bollente. Si china, afferra le rose, le poggia ancora sopra al cuore. Piccoli secondi di attesa, vede dall’alto. Le rose cadono ancora per terra. Lituania, abbastanza perplesso, si china di nuovo e le riafferra. In ginocchio, lento per la stanchezza, alza lo sguardo. Ancora più perplesso, ancora più incredulo, vede qualcosa muoversi. Concentra lo sguardo. Qualcosa nel corpo si muove, vede chiaramente che qualcosa si muove. È un movimento lentissimo, quasi impercettibile, ma Lituania, stanco e provato dal dolore, vede, nota. Ogni cosa, ogni emozione muore dentro il moro. Si sente sgonfiato, si sente paralizzato dentro le proprie membra, divenute di pietra. Rialzato, mosse solo le gambe, vede altro, più sconvolgente. Una delle braccia di Polonia, voltata per essere ricucita, col palmo aperto in alto, mostra la vena principale. La carne è senza sangue, attaccata alla pelle, sgonfia di ogni cosa. Le ossa magre, ma le vene visibili. La vena del braccio sbatte all’insù. Pochissima esitazione, sbatte ancora un battito. La vena continua a pulsare, visibile, come se respirasse a fatica, come lo stesso Lituania. Lituania si sente ancora più vuoto, più paralizzato, più morto.

Russia, rientrato, sceso là sotto, vede Lituania. Vede il suo sguardo morto, le sue carni fredde. Crede male, crede solo nel peggio. Senza dire nulla lo attira a sé, costringe il suo corpo a muoversi. Lo stringe e lo abbraccia, cerca di essere più dolce possibile, spera che Lituania capisca che voglia solo il suo bene. Lituania rimane ancora una volta meravigliato. Si meraviglia che il gigante non veda ciò che vede lui. La vena pulsa ancora e Lituania continua a fissarla, morta l’anima.

Il mazzo di rose tra le sue dita cade per terra, ma nessuno si accorge di nulla.

 

 

 

 

 

  
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