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Autore: Dafne ThyCapulet    25/03/2009    0 recensioni
Anita: "La prima volta che vidi una foto di Brandon da bambino fu qualche mese prima del nostro matrimonio[...]; nel momento in cui vidi i suoi ridenti occhioni blu (gli stessi di sempre), il suo faccino pacioccone (che ha tuttora e di cui non capisco perché si vergogni) e il suo sorrisone sdentato (che, fortunatamente, non ha più e spero non rivedrò almeno fino ai suoi settantanni), mi dissi che, semmai avrei superato il terrore del parto e mi sarei convinta a fare un pupazzetto tutto mio, doveva essere identico a lui."

Brandon: "[...]Avete presenti quelle splendide pubblicità della famiglia modello a colazione, in cui la mamma è sempre ai fornelli e truccata come una top model, il papà felice e sorridente con una perfetta messa in piega anni ’50 e i bambini saltellano come cuccioli di lepri da una parte all’altra del tavolo impazienti di fare colazione per poi andare a scuola? Sì, le avete presenti? Bene. La mia famiglia era esattamente il contrario, soprattutto a colazione."
Genere: Romantico, Commedia, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Primo - L'infanzia di Brandon (Anita's version)

Capitolo Primo

 

L’infanzia di Brandon (Anita’s version)

 

La prima volta che vidi una foto di Brandon da bambino fu qualche mese prima del nostro matrimonio, quando lui mi portò nella sua casa di Toronto per farmi conoscere la sua tribù familiare (in seguito capirete perché l’ho definita in questo modo e converrete con me che ho usato l’espressione assolutamente più aderente alla realtà); nel momento in cui vidi i suoi ridenti occhioni blu (gli stessi di sempre), il suo faccino pacioccone (che ha tuttora e di cui non capisco perché si vergogni) e il suo sorrisone sdentato (che, fortunatamente, non ha più e spero non rivedrò almeno fino ai suoi settantanni), mi dissi che, semmai avrei superato il terrore del parto e mi sarei convinta a fare un pupazzetto tutto mio, doveva essere identico a lui.

Brandon non ha mai amato raccontarmi della sua infanzia, dunque fino al momento in cui misi piede nella sua casa di famiglia io non sapevo pressoché nulla a riguardo, tranne che l’aveva vissuta sbattuto qua e là fra Stati Uniti, Canada ed Europa esattamente come un pacco postale, perché suo padre era una cosa tipo ambasciatore e dunque costretto a spostarsi di continuo trascinandosi dietro l’intera famiglia, che doveva avere il passaporto cucito in mano ed un francobollo postale perennemente incollato alla fronte, suppongo.

Ma, si sa, quando ti ritrovi sprofondata nel divano accanto alla tua futura suocera, sebbene l’imbarazzo sia palpabile e ancora di più la curiosità reciproca, non c’è nodo che tenga: l’infanzia del tuo futuro coniuge ti viene spiattellata in faccia in tutta la sua cruda bellezza e, ovviamente, senza alcuna pietà per la sua privacy, particolare che (Brandon non me ne voglia) ho apprezzato enormemente.

Brandon Juliàn Ferrere venne al mondo il 4 dicembre di un bel po’ di anni fa in un piccolo ospedale statale di Toronto dove dovevano avere un chiodo fisso per la fotografia pedofila, perché non appena era sgusciato fuori da sua madre gli avevano scattato cinque o sei foto con tanto di flash che la signora Ferrere aveva gelosamente custodito nel voluminoso album di famiglia che quel giorno mi mostrò pagina per pagina con enorme orgoglio e soddisfazione. Il pupone strillante e piangente ritratto in quelle foto pesava ben tre chili e mezzo già alla nascita, ma la signora Ferrere mi disse che secondo lei i medici l’avevano imbrogliata: già al quinto mese Brandon pesava così tanto che la povera neomamma era stata costretta a camminare piegata in due con il marito a braccetto per evitare che, per la forza d’inerzia, cadesse a faccia in terra. Dunque molto probabilmente alla nascita Brandon pesava come minimo quattro chili e qualcosa, anche se la versione ufficiale dei fatti lo smentisce apertamente. Tutto ciò mi fa credere che sia stato da allora che Brandon ha cominciato la sua lotta con la bilancia che, me tapina, infuria tuttora e, a mio parere, senza più un motivo seriamente fondato.

Ad ogni modo, anche il signor e la signora Ferrere dovevano avere un debole per la fotografia pornografica, perché le foto risalenti alla primissima infanzia di Brandon raccolte nell’album di famiglia non fanno altro che ritrarlo nei suoi momenti di maggiore intimità: una volta nel bagnetto, un’altra sull’asciugatoio, un’altra ancora durante il cambio del pannolino, insomma, non appena il piccolo pupottolo era senza veli, qualche membro della sua tribù familiare si preoccupava di immortalare il momento con un bel click. Forse vi pare che stia esagerando, forse vi state dicendo che è normale che un neonato sia quasi perennemente nudo e che in fondo non c’è nulla di male o di perverso nel fatto di bombardarlo di scatti fotografici e forse avete perfettamente ragione: soltanto che io sono stata abituata diversamente. Ma questa è un’altra storia che forse vi racconterò successivamente, se ne avrò tempo e voglia.

Tornando a quello splendido pomeriggio di fine settembre in cui venni finalmente a conoscenza del passato immacolato del mio dolce neomarito, le successive foto che la signora Ferrere mi mostrò lo ritraevano già un po’ più grande: erano tutte bellissime, perché Brandon era un bimbottolo bello da togliere il fiato, ma ce n’era una che mi aveva particolarmente colpito, non tanto per la foto in sé, ma per l’episodio correlato ad essa che mia suocera mi raccontò. Nella suddetta foto Brandon doveva avere più o meno cinque anni: era seduto a gambe aperte sul prato di un parco pubblico, di profilo, era scalzo, indossava dei pantaloncini azzurri corti al ginocchio ed una camiciola bianca a mezze maniche e mostrava un cipiglio concentrato sul viso pacioccone semisommerso dai capelli castani. Fra le mani, infatti, aveva un oggetto tecnologicamente molto avanzato per l’epoca, una macchina fotografica con rullino.

La signora Ferrere mi raccontò che suo padre gliel’aveva lasciata fra le mani per andare a prendere qualcosa da mangiare al chiosco del parco, raccomandandogli di fare molta attenzione perché era un oggetto molto prezioso (all’epoca un modello come quello doveva costare quasi mezzo stipendio); Brandon aveva annuito obbediente e aveva cominciato a rigirarsela fra le mani, attento e analitico. Non appena la signora Ferrere, che era rimasta a sorvegliarlo, aveva notato quel suo cruccio, ovviamente aveva deciso di catturarlo con la propria macchina fotografica (e qui mi è sorto il dubbio che, se in una famiglia, sebbene con una struttura estremamente ramificata come quella di Brandon, esistono due o più apparecchi fotografici, questo potrebbe essere indice di una qualche mania ossessiva). Nell’attimo successivo allo scatto della madre, però, Brandon aveva sollevato la testa dallo strano oggetto che aveva fra le mani, aveva osservato ad occhi strizzati l’orizzonte del parco di fronte a sé e poi aveva sollevato la macchina fotografica all’altezza del naso premendo il tasto dello scatto. Sua madre aveva sorriso indulgente e gli aveva fatto un caloroso applauso di apprezzamento, ma Brandon non si era voltato verso di lei regalandole il suo solito sorriso da pacioccone; di tutta risposta le aveva dato le spalle per fotografare un’altra parte del parco e aveva continuare a fare scatti di tutto ciò che lo circondava finché il signor Ferrere non tornò da lui e lo rimproverò per aver sprecato quasi mezzo rullino (da ciò dedussi che all’epoca pure il rullino doveva valere mezza fortuna).

Eppure, quando il papà di Brandon andò a farlo sviluppare, invece di ritrovarsi una decina di scatti futili e privi di senso, si vide sfilare davanti agli occhi dei ritratti del paesaggio del parco molto precisi e particolareggiati, quasi come se suo figlio avesse scelto un preciso dettaglio da immortalare e non avesse ripreso a caso la prima cosa che gli era capitata sotto gli occhi, e senza che nessuno, oltretutto, gli avesse mai insegnato prima di allora ad usare un apparecchio fotografico. Fu allora che la famiglia Ferrere si rese conto che il suo componente più giovane aveva un innato talento per la fotografia, passione che infatti Brandon ha coltivato anche da grande, diventando piuttosto apprezzato nel mondo dell’arte d’impressione su carta.

Adesso, io ritengo davvero che mio marito abbia un rilevante talento in questa arte (tanto più che soltanto lui riesce a cogliere la luce giusta che miracolosamente mi occulti le occhiaie, le rughe ed i buchi della cellulite tanto da rendermi addirittura fotogenica), ma non so se il suo talento sia realmente innato.

La mia modesta opinione è che, a forza di scatti di qua e di flash di là, Brandon abbia interiorizzato l’arte della fotografia, che si deve essere impressa nei suoi geni come la luce fa sul rullino. Niente esclude, però, che questa sua passione potesse essere già iscritta nei suoi geni prima ancora dei numerosi servizi fotografici a cui sarebbe stato sottoposto, data la mania compulsiva di entrambi i genitori di imprimere su carta tutto ciò che era di loro gradimento, fosse uno splendido tramonto o un bidone della spazzatura. D’altronde si sa, chi va con gli zoppi impara a zoppicare e, in un modo o nell’altro, Brandon ha imparato a zoppicare meglio di tutti quanti nella sua tribù familiare.

Le tappe successive della sua infanzia vengono scandite dai vari spostamenti che il papà Ferrere ha operato per lavoro: Brandon festeggiò i suoi sei anni a Parigi, i sette ad Amburgo, gli otto a Copenaghen, i nove a Casablanca, i dieci a Madrid, gli undici a Helsinki e i dodici a Mosca. Sua madre mi rivelò che quelli furono anni di intenso stress per il ragazzino, che a tratti sembrava entrare in una sorta di catalessi apatica, incapace di ricordarsi dove si trovava o che ore fossero: a volte dimenticava persino come si chiamava.

Ma Brandon era un ottimista sin da allora: così, invece, di cedere all’esaurimento nervoso, lo sfruttava a proprio vantaggio, facendo finire in cura psichiatrica la maggior parte di coloro che lo circondavano mentre lui, tranquillo, viveva serenamente la sua confusione mentale. Ovviamente questo suo atteggiamento da genio incompreso non piaceva ai suoi coetanei (che oltretutto avevano capito il suo trucco e non avevano alcuna intenzione di finire in cura da uno strizzacervelli ancor prima di essere giunti alla pubertà), così quegli anni non furono caratterizzati da legami particolarmente amichevoli per il piccolo Brandon.

Poi giunse l’adolescenza e con essa tutti i problemi correlati alla creazione della propria immagine e alla costruzione della propria personalità e ancora una volta Brandon si distinse (secondo me in meglio) dai suoi coetanei: mentre loro non avevano nemmeno un briciolo di personalità e nonostante ciò si sentivano soddisfatti della loro apparenza, Brandon aveva una personalità spiccata e molto sicura di sé, ma allo stesso tempo non tollerava la propria immagine.

La signora Ferrere mi disse che era mortalmente ossessionato dal suo peso: in effetti le foto di quell’epoca testimoniano il fatto che fosse un ragazzone robusto, con tanto di maniglie dell’amore e collo taurino, ma non era né grasso né obeso, soltanto lievemente in soprappeso. Eppure se ne faceva una colpa e non faceva altro che dedicarsi con estrema dedizione alle diete e all’esercizio fisico, sperando di poter rimediare a quello che riteneva un difetto spaventosamente aberrante. Un'altra cosa che non sopportava di sé, mi rivelò sempre sua madre, era l’incontenibile altezza: infatti, mentre a tredici anni i suoi coetanei non sfioravano ancora il metro e cinquanta, lui raggiungeva addirittura il metro e settanta.

Ma, si premurò sempre di aggiungere la signora Ferrere, quelle non erano altro che le solite fissazioni tipiche dell’adolescenza e ben presto scomparvero, insieme ai diversi chili in più e alla goffaggine legata ai numerosi centimetri di altezza. Io le rivolsi un sorriso tirato: avrebbe dovuto vedere come ogni mattina suo figlio si esaminava di nascosto la pancia allo specchio del bagno o cercava inutilmente di non picchiare la testa contro lo stipite della porta d’ingresso curvando le spalle (e rimediandosi, di rimando, stellari colpi della strega). Ma mi resi conto che era meglio lasciarla nella sua rincuorata ignoranza.

Quando, però, io e la mia futura suocera avevamo ormai cominciato a prenderci gusto a raccontarci a vicenda divertenti aneddoti sul nostro beneamato pupone, Brandon riapparve in salotto e il sorriso che aveva sul volto gli morì in un attimo. Lanciò un’occhiata torva prima in direzione dell’album e poi della madre e, prima che io o lei potessimo aprire bocca, si slanciò atleticamente verso il tavolino, ghermì l’album e se lo strinse al petto riservandoci uno sguardo tradito.

Tutto d’un tratto quell’omone che mi sovrastava dal suo metro e novanta d’altezza mi parve tornare piccolo ed indifeso come il ragazzino in soprappeso delle foto. Ma poi, come se se ne fosse accorto, Brandon adottò un lieve sorriso di cortesia e a denti stretti ci invitò ad uscire da quel cupo salotto per fare un bel giro nel giardino di proprietà che si stendeva sotto di noi; solo quando notai che aveva formulato quella proposta proprio mentre fuori stava infuriando una tempesta di pioggia, vento e grandine che forse preannunciava l’arrivo di qualche tornado, capii che il mio pupone era sempre rimasto il ragazzetto goffo e timido di quelle foto e che molto probabilmente lo sarebbe stato per sempre. Non so voi, ma questa semplice considerazione impregnata di sano intuito femminile mi rese immensamente contenta.

  
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