Capitolo Primo
L’infanzia di Brandon (Anita’s
version)
La
prima volta che vidi una foto di Brandon da bambino fu qualche mese prima del
nostro matrimonio, quando lui mi portò nella sua casa di Toronto per farmi
conoscere la sua tribù familiare (in seguito capirete perché l’ho definita in
questo modo e converrete con me che ho usato l’espressione assolutamente più
aderente alla realtà); nel momento in cui vidi i suoi ridenti occhioni blu (gli
stessi di sempre), il suo faccino pacioccone (che ha tuttora e di cui non
capisco perché si vergogni) e il suo sorrisone sdentato (che, fortunatamente,
non ha più e spero non rivedrò almeno fino ai suoi settantanni), mi dissi che,
semmai avrei superato il terrore del parto e mi sarei convinta a fare un
pupazzetto tutto mio, doveva essere identico a lui.
Brandon
non ha mai amato raccontarmi della sua infanzia, dunque fino al momento in cui
misi piede nella sua casa di famiglia io non sapevo pressoché nulla a riguardo,
tranne che l’aveva vissuta sbattuto qua e là fra Stati Uniti, Canada ed Europa
esattamente come un pacco postale, perché suo padre era una cosa tipo ambasciatore
e dunque costretto a spostarsi di continuo trascinandosi dietro l’intera
famiglia, che doveva avere il passaporto cucito in mano ed un francobollo
postale perennemente incollato alla fronte, suppongo.
Ma,
si sa, quando ti ritrovi sprofondata nel divano accanto alla tua futura
suocera, sebbene l’imbarazzo sia palpabile e ancora di più la curiosità
reciproca, non c’è nodo che tenga: l’infanzia del tuo futuro coniuge ti viene
spiattellata in faccia in tutta la sua cruda bellezza e, ovviamente, senza alcuna
pietà per la sua privacy, particolare che (Brandon non me ne voglia) ho
apprezzato enormemente.
Brandon
Juliàn Ferrere venne al mondo il 4 dicembre di un bel po’ di anni fa in un
piccolo ospedale statale di Toronto dove dovevano avere un chiodo fisso per la
fotografia pedofila, perché non appena era sgusciato fuori da sua madre gli
avevano scattato cinque o sei foto con tanto di flash che la signora Ferrere
aveva gelosamente custodito nel voluminoso album di famiglia che quel giorno mi
mostrò pagina per pagina con enorme orgoglio e soddisfazione. Il pupone
strillante e piangente ritratto in quelle foto pesava ben tre chili e mezzo già
alla nascita, ma la signora Ferrere mi disse che secondo lei i medici l’avevano
imbrogliata: già al quinto mese Brandon pesava così tanto che la povera
neomamma era stata costretta a camminare piegata in due con il marito a
braccetto per evitare che, per la forza d’inerzia, cadesse a faccia in terra.
Dunque molto probabilmente alla nascita Brandon pesava come minimo quattro chili
e qualcosa, anche se la versione ufficiale dei fatti lo smentisce apertamente. Tutto
ciò mi fa credere che sia stato da allora che Brandon ha cominciato la sua
lotta con la bilancia che, me tapina, infuria tuttora e, a mio parere, senza
più un motivo seriamente fondato.
Ad
ogni modo, anche il signor e la signora Ferrere dovevano avere un debole per la
fotografia pornografica, perché le foto risalenti alla primissima infanzia di
Brandon raccolte nell’album di famiglia non fanno altro che ritrarlo nei suoi
momenti di maggiore intimità: una volta nel bagnetto, un’altra
sull’asciugatoio, un’altra ancora durante il cambio del pannolino, insomma, non
appena il piccolo pupottolo era senza veli, qualche membro della sua tribù
familiare si preoccupava di immortalare il momento con un bel click. Forse vi
pare che stia esagerando, forse vi state dicendo che è normale che un neonato
sia quasi perennemente nudo e che in fondo non c’è nulla di male o di perverso
nel fatto di bombardarlo di scatti fotografici e forse avete perfettamente
ragione: soltanto che io sono stata abituata diversamente. Ma questa è un’altra
storia che forse vi racconterò successivamente, se ne avrò tempo e voglia.
Tornando
a quello splendido pomeriggio di fine settembre in cui venni finalmente a conoscenza
del passato immacolato del mio dolce neomarito, le successive foto che la
signora Ferrere mi mostrò lo ritraevano già un po’ più grande: erano tutte
bellissime, perché Brandon era un bimbottolo bello da togliere il fiato, ma ce
n’era una che mi aveva particolarmente colpito, non tanto per la foto in sé, ma
per l’episodio correlato ad essa che mia suocera mi raccontò. Nella suddetta
foto Brandon doveva avere più o meno cinque anni: era seduto a gambe aperte sul
prato di un parco pubblico, di profilo, era scalzo, indossava dei pantaloncini
azzurri corti al ginocchio ed una camiciola bianca a mezze maniche e mostrava
un cipiglio concentrato sul viso pacioccone semisommerso dai capelli castani.
Fra le mani, infatti, aveva un oggetto tecnologicamente molto avanzato per
l’epoca, una macchina fotografica con rullino.
La
signora Ferrere mi raccontò che suo padre gliel’aveva lasciata fra le mani per
andare a prendere qualcosa da mangiare al chiosco del parco, raccomandandogli
di fare molta attenzione perché era un oggetto molto prezioso (all’epoca un
modello come quello doveva costare quasi mezzo stipendio); Brandon aveva
annuito obbediente e aveva cominciato a rigirarsela fra le mani, attento e
analitico. Non appena la signora Ferrere, che era rimasta a sorvegliarlo, aveva
notato quel suo cruccio, ovviamente aveva deciso di catturarlo con la propria
macchina fotografica (e qui mi è sorto il dubbio che, se in una famiglia,
sebbene con una struttura estremamente ramificata come quella di Brandon,
esistono due o più apparecchi fotografici, questo potrebbe essere indice di una
qualche mania ossessiva). Nell’attimo successivo allo scatto della madre, però,
Brandon aveva sollevato la testa dallo strano oggetto che aveva fra le mani,
aveva osservato ad occhi strizzati l’orizzonte del parco di fronte a sé e poi
aveva sollevato la macchina fotografica all’altezza del naso premendo il tasto
dello scatto. Sua madre aveva sorriso indulgente e gli aveva fatto un caloroso
applauso di apprezzamento, ma Brandon non si era voltato verso di lei
regalandole il suo solito sorriso da pacioccone; di tutta risposta le aveva
dato le spalle per fotografare un’altra parte del parco e aveva continuare a
fare scatti di tutto ciò che lo circondava finché il signor Ferrere non tornò
da lui e lo rimproverò per aver sprecato quasi mezzo rullino (da ciò dedussi
che all’epoca pure il rullino doveva valere mezza fortuna).
Eppure,
quando il papà di Brandon andò a farlo sviluppare, invece di ritrovarsi una
decina di scatti futili e privi di senso, si vide sfilare davanti agli occhi
dei ritratti del paesaggio del parco molto precisi e particolareggiati, quasi
come se suo figlio avesse scelto un preciso dettaglio da immortalare e non
avesse ripreso a caso la prima cosa che gli era capitata sotto gli occhi, e
senza che nessuno, oltretutto, gli avesse mai insegnato prima di allora ad
usare un apparecchio fotografico. Fu allora che la famiglia Ferrere si rese
conto che il suo componente più giovane aveva un innato talento per la
fotografia, passione che infatti Brandon ha coltivato anche da grande,
diventando piuttosto apprezzato nel mondo dell’arte d’impressione su carta.
Adesso,
io ritengo davvero che mio marito abbia un rilevante talento in questa arte
(tanto più che soltanto lui riesce a cogliere la luce giusta che
miracolosamente mi occulti le occhiaie, le rughe ed i buchi della cellulite
tanto da rendermi addirittura fotogenica), ma non so se il suo talento sia
realmente innato.
La
mia modesta opinione è che, a forza di scatti di qua e di flash di là, Brandon
abbia interiorizzato l’arte della fotografia, che si deve essere impressa nei
suoi geni come la luce fa sul rullino. Niente esclude, però, che questa sua
passione potesse essere già iscritta nei suoi geni prima ancora dei numerosi
servizi fotografici a cui sarebbe stato sottoposto, data la mania compulsiva di
entrambi i genitori di imprimere su carta tutto ciò che era di loro gradimento,
fosse uno splendido tramonto o un bidone della spazzatura. D’altronde si sa,
chi va con gli zoppi impara a zoppicare e, in un modo o nell’altro, Brandon ha
imparato a zoppicare meglio di tutti quanti nella sua tribù familiare.
Le
tappe successive della sua infanzia vengono scandite dai vari spostamenti che
il papà Ferrere ha operato per lavoro: Brandon festeggiò i suoi sei anni a
Parigi, i sette ad Amburgo, gli otto a Copenaghen, i nove a Casablanca, i dieci
a Madrid, gli undici a Helsinki e i dodici a Mosca. Sua madre mi rivelò che
quelli furono anni di intenso stress per il ragazzino, che a tratti sembrava
entrare in una sorta di catalessi apatica, incapace di ricordarsi dove si
trovava o che ore fossero: a volte dimenticava persino come si chiamava.
Ma
Brandon era un ottimista sin da allora: così, invece, di cedere all’esaurimento
nervoso, lo sfruttava a proprio vantaggio, facendo finire in cura psichiatrica la
maggior parte di coloro che lo circondavano mentre lui, tranquillo, viveva
serenamente la sua confusione mentale. Ovviamente questo suo atteggiamento da
genio incompreso non piaceva ai suoi coetanei (che oltretutto avevano capito il
suo trucco e non avevano alcuna intenzione di finire in cura da uno
strizzacervelli ancor prima di essere giunti alla pubertà), così quegli anni
non furono caratterizzati da legami particolarmente amichevoli per il piccolo
Brandon.
Poi
giunse l’adolescenza e con essa tutti i problemi correlati alla creazione della
propria immagine e alla costruzione della propria personalità e ancora una
volta Brandon si distinse (secondo me in meglio) dai suoi coetanei: mentre loro
non avevano nemmeno un briciolo di personalità e nonostante ciò si sentivano
soddisfatti della loro apparenza, Brandon aveva una personalità spiccata e
molto sicura di sé, ma allo stesso tempo non tollerava la propria immagine.
La
signora Ferrere mi disse che era mortalmente ossessionato dal suo peso: in
effetti le foto di quell’epoca testimoniano il fatto che fosse un ragazzone
robusto, con tanto di maniglie dell’amore e collo taurino, ma non era né grasso
né obeso, soltanto lievemente in soprappeso. Eppure se ne faceva una colpa e
non faceva altro che dedicarsi con estrema dedizione alle diete e all’esercizio
fisico, sperando di poter rimediare a quello che riteneva un difetto
spaventosamente aberrante. Un'altra cosa che non sopportava di sé, mi rivelò
sempre sua madre, era l’incontenibile altezza: infatti, mentre a tredici anni i
suoi coetanei non sfioravano ancora il metro e cinquanta, lui raggiungeva
addirittura il metro e settanta.
Ma,
si premurò sempre di aggiungere la signora Ferrere, quelle non erano altro che le
solite fissazioni tipiche dell’adolescenza e ben presto scomparvero, insieme ai
diversi chili in più e alla goffaggine legata ai numerosi centimetri di
altezza. Io le rivolsi un sorriso tirato: avrebbe dovuto vedere come ogni
mattina suo figlio si esaminava di nascosto la pancia allo specchio del bagno o
cercava inutilmente di non picchiare la testa contro lo stipite della porta
d’ingresso curvando le spalle (e rimediandosi, di rimando, stellari colpi della
strega). Ma mi resi conto che era meglio lasciarla nella sua rincuorata
ignoranza.
Quando,
però, io e la mia futura suocera avevamo ormai cominciato a prenderci gusto a
raccontarci a vicenda divertenti aneddoti sul nostro beneamato pupone, Brandon
riapparve in salotto e il sorriso che aveva sul volto gli morì in un attimo. Lanciò
un’occhiata torva prima in direzione dell’album e poi della madre e, prima che
io o lei potessimo aprire bocca, si slanciò atleticamente verso il tavolino,
ghermì l’album e se lo strinse al petto riservandoci uno sguardo tradito.
Tutto
d’un tratto quell’omone che mi sovrastava dal suo metro e novanta d’altezza mi
parve tornare piccolo ed indifeso come il ragazzino in soprappeso delle foto.
Ma poi, come se se ne fosse accorto, Brandon adottò un lieve sorriso di
cortesia e a denti stretti ci invitò ad uscire da quel cupo salotto per fare un
bel giro nel giardino di proprietà che si stendeva sotto di noi; solo quando
notai che aveva formulato quella proposta proprio mentre fuori stava infuriando
una tempesta di pioggia, vento e grandine che forse preannunciava l’arrivo di qualche
tornado, capii che il mio pupone era sempre rimasto il ragazzetto goffo e
timido di quelle foto e che molto probabilmente lo sarebbe stato per sempre. Non
so voi, ma questa semplice considerazione impregnata di sano intuito femminile mi
rese immensamente contenta.