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Autore: marta_bilinski24    26/02/2016    4 recensioni
Tratto dal primo capitolo: “Derek non sapeva come fosse potuto accadere. […] si ritrovava prigioniero del suo stesso corpo, senza la più pallida idea di come recuperare le sue normali funzioni umane. […] Derek era diventato un lupo completo e non sapeva più come tornare un uomo.”
Se non vi bastasse un wolf!Derek aggiungeteci un dogsitter!Stiles e state a vedere cosa succederà!
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Cora Hale, Derek Hale, Stiles Stilinski
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note iniziali: Nuovo aggiornamento! Scusate per l’attesa ma l’università mi risucchia l’anima :D Eccoci alla storia vista dalla parte di Stiles. Il testo in corsivo riguarda il suo personale flashback.

Buona lettura, alla prossima!

 

 

 

CAPITOLO 8: Nessuno ha detto che sarebbe stato facile


Stiles corre. Corre. Corre come non ha corso mai. Non è nemmeno sicuro di quello da cui sta scappando ma il suo cervello gli sta inviando un solo ordine: correre. Andare via da quello che gli fa paura, da quello che lo sconvolge, da quello che gli toglie il respiro. E Stiles si trova davvero senza fiato, ma la corsa non c’entra. Gli toglie il fiato quello a cui ha appena assistito, a cui non sa dare un nome né una spiegazione. Più probabilmente potrebbe farlo ma non osa. Si appoggia alla fiancata della Jeep, piegato in due, scosso da tremori e schiacciato dalle troppe informazioni. Le immagini gli si ripropongono davanti agli occhi, come in un cinema della tortura che non gli permette di recuperare lucidità. Ha negli occhi Derek, il lupo nero, la sera di un anno prima, i pomeriggi nel bosco. Il lupo e l’uomo. La razionalità è l’irrazionalità. Non, non c’è una spiegazione razionale. Stiles si tira uno schiaffo, un altro e un altro ancora, incapace di riprendersi; si specchia sul finestrino dell’auto e non si riconosce: sembra parecchio pallido, i suoi capelli sono spettinati e sudati, gli occhi sono così sgranati che sembrano uscire dalle orbite. Si passa una mano sul volto, come se per spazzare via quello sguardo e quello che è successo bastasse una mano sul viso, un colpo di spugna.

 

Non è stata questione di paura; probabilmente la paura ha influito, quanto meno nei primissimi momenti, quando Derek si è trasformato (non può ancora credere di aver usato questo verbo) davanti ai suoi occhi. Quella è stata una paura dettata dallo shock: chi avrebbe detto che quel lupo era un uomo?! Non aveva mai davvero preso inconsiderazione quella possibilità. Tutto questo dando per scontato che alcuni uomini possano trasformarsi in lupi. Successivamente alla paura è venuto lo sgomento, le certezze di una vita che cadono come birilli, travolte da un evento senza voce che è giunto a minare la corazza di Stiles. Dopo la morte della madre Stiles non voleva farsi prendere alla sprovvista da nulla, non voleva che nulla lo pugnalasse alle spalle come aveva fatto quella scomparsa. Sua madre Claudia se n’era andata così, due mesi dopo aver scoperto di essere malata, senza nemmeno dare il tempo ad uno Stiles di otto anni di capire la situazione. Il destino si era permesso di coglierlo alla sprovvista una volta ma Stiles si è promesso di non permettergli di farlo di nuovo. Ha fatto ricerche sulla malattia della madre fino a che suo padre una sera, in lacrime, gli ha sequestrato il computer. Non l’aveva mai visto piangere, nemmeno quando gli stringeva la spalla e guardava il prete benedire la tomba della moglie.

 

Da quel giorno Stiles aveva creato il suo mondo invisibile: era sempre il solito bambino iperattivo, aveva addirittura ritrovato la sua vivacità dopo qualche mese in cui si era lentamente spento. Ma ogni cosa nuova lo spaventava, temeva che potesse portargli via di nuovo tutto ciò che gli era rimasto, in un soffio. E così faceva ricerche sul suo nuovo computer, nella biblioteca di Beacon Hills, sui vecchi e polverosi libri appartenuti a sua madre e che aveva trovato in soffitta. Cercava ogni parola che gli era sconosciuta, ogni significato particolare, studiava antiche civiltà e miti del passato; voleva pianificare la sua vita e avere tutto a sua diposizione: se qualcosa fosse accaduto nella sua vita avrebbe saputo come reagire.

 

I miti e le loro ripercussioni sulla cultura contemporanea, cosa c’era di vero e cos’era invece stato inventato, tutto l’ambito sovrannaturale o irrazionale lo aveva sempre affascinato: il suo metodo scientifico e rigoroso, l’applicazione della ragione ad ogni campo di ricerca, doveva essere stravolto quando si avvicinava a questo ambito. Aveva imparato ad essere meticoloso nelle sue ricerche ma a sospendere temporaneamente il suo giudizio, almeno fino a quando non aveva in mano il maggior numero di elementi possibili. A quel punto riprendeva in considerazione tutte le informazioni che aveva raccolto e su quelle basava una sua opinione, anche se non archiviava mai il fascicolo come faceva con le altre ricerche; era sempre pronto a riprendere tutto in mano e ricominciare da capo, nonostante questo volesse dire scalfire il mondo di certezze che cercava in tutti i modi di costruire. Era sempre molto attento quando prendeva dallo scaffale la cartella rossa con scritto “SOVRANNATURALE” e quei pomeriggi erano i più difficili per uno Stiles che faticava a concentrarsi per più di qualche decina di minuti.

 

I miti gli piacevano principalmente per due motivi: in primo luogo perché leggere tutte quelle storie gli ricordava i pomeriggi in cui sua madre gli leggeva decine di storie, mimando dialoghi e gesti, alzando il tono della voce o bisbigliando, e a Stiles sembrava di averla ancora accanto a lui quando si soffermava sulle narrazioni più avvincenti, immaginava come lei avrebbe letto certi passaggi; in secondo luogo perché era incredibile come ogni mito nascondesse una verità, più o meno velata, che spiegava e dava risposta almeno in parte ai dubbi di Stiles. Un pomeriggio autunnale e tristemente piovoso in cui Scott si era preso la febbre e non poteva raggiungerlo per giocare al computer, uno Stiles di sedici anni si era chiuso in camera dopo che suo padre era partito per il turno pomeridiano in centrale. Non era da lui ma aveva fatto tutti i compiti il giorno prima, per potersi godere il pomeriggio intero con Scott; ora invece si trovava a casa da solo e senza nulla da fare fino all’ora di cena. Aveva automaticamente aperto il computer e mentre si caricavano i suoi dati si era alzato dalla sedia e si era diretto verso lo scaffale dove erano messi in ordine alfabetico le cartelle delle sue ricerche: “Botanica”, “Geografia”, “Mineralogia”, “Patologia”, “Zoologia” e tutte le altre. Fece scorrere il dito sui fascicoli come se non avesse già scelto quale prendere; solo dopo un minuto buono si decise a fermarsi, facendo uscire dalla libreria l’unica cartellina rossa. La appoggiò accanto al computer e si immerse quella giungla di informazioni meglio conosciuta come internet.

 

L’ultima volta che aveva aperto quella cartellina si era fermato sulla singolare somiglianza di miti tra la civiltà greca e le tribù dei nativi americani. Aveva lasciato molti fogli svolazzanti, perché non c’era un vero percorso strutturato, c’erano solo tante informazioni su fogli e post-it che cercavano un filo logico. Il vero raccordo tra quelle due popolazioni, così distanti geograficamente e temporalmente, erano i racconti a proposito di uomini simili a lupi, che potevano trasformarsi a piacimento in animali e tornare allo stesso modo umani. I greci narravano della maledizione scagliata da Zeus su Licaone per il suo affronto al re degli dei; in America si parlava sempre di maledizione, dovuta questa volta a matrimoni misti tra coloni e indiani. In tutte e due le culture gli uomini-lupo erano destinati a trasformarsi ogni luna piena in un mostri più o meno consapevoli della loro forma demoniaca. Addirittura una tribù americana, quella dei Pawnee, si riteneva imparentata con i lupi e ne indossava le pelli per impadronirsi delle doti di questo predatore. Per lunghi minuti Stiles si era fermato a guardare un’immagine che rappresentava uno di questi “licantropi”, chiedendosi dove si trovava la sottile linea di confine tra realtà e mito. Non sapeva perché ma su quel tema ci ritornava spesso e ci sarebbe ritornato per molto tempo a venire, anche negli anni successivi. Quella sera suo padre tornò tardi, aveva dovuto occuparsi di un incendio avvenuto la notte precedente, al limitare del bosco: una casa distrutta e una famiglia dimezzata, per motivi che lo sceriffo provò per anni a ricercare senza arrivare mai ad una vera e propria soluzione del caso. Tuttavia non raccontò mai al figlio i dettagli, cercava di tenerlo lontano da tutte quelle informazioni che avrebbero potuto portarlo ad indagare e fare ancora più ricerche di quelle che già faceva.

 

Stiles si passa una mano, che trema visibilmente, in mezzo ai capelli, mentre con l’altra apre lo sportello della Jeep e si mette al posto di guida. Non è per nulla nelle condizioni di guidare ma escludendo quella le opzioni sono due: tornare da Derek o chiamare qualcuno. Entrambe prevedono spiegazioni e Stiles non ha intenzione di dare spiegazioni a nessuno. Non sa come ma arriva a casa e benedice il fatto che suo padre sia al lavoro. Altre spiegazioni evitate. In un attimo è in camera sua e di nuovo il suo respiro è accelerato. Sa benissimo quello che sta per fare eppure gli sembra di non aver controllo sul suo corpo. Deglutisce forte per spingere giù il groppo che ha in gola mentre avvicina la mano allo scaffale delle ricerche. Il cuore gli batte forte nel petto e gli rimbomba nelle orecchie, mentre la mano non accenna a smettere di essere scossa da piccoli movimenti inconsulti. Si sofferma parecchio ad osservarla, cercando di calmare ogni segno fisico del fatto che sia contemporaneamente terrorizzato e sotto shock. Alla fine si ridesta, mordendosi forte il labbro inferiore e si decide a prendere quel maledetto fascicolo rosso.

 

Stiles rilegge quei fogli tutta la notte, solo in casa perché suo padre lo avverte che dovrà fermarsi di più in centrale. Non si stupisce del fatto che ogni volta in cui legge una frase che può ricollegare a Derek i fogli gli cadano dalle mani, che ancora tremano. Alle due di notte Stiles è ancora in mezzo a quei fogli, sparpagliati ovunque sulla sua scrivania, sul suo letto e sul pavimento, mentre il ragazzo continua a sottolineare informazioni col pennarello rosso, a prendere appunti su una quantità inimmaginabile di post-it, cerchiando parole e facendo migliaia di nuove ricerche su internet. Gli bruciano gli occhi, ma non è solo la stanchezza a provocargli quel fastidio: si sente beffato e impotente, di nuovo le certezze che credeva di avere gli sono state portate via. Stiles però si conosce, sa benissimo che si sta tenendo sveglio per un motivo molto particolare; fare ricerche è il suo modo di crearsi una barriera, ma questa barriera è spesso rappresentata da se stesso. Stiles sa che occuparsi di ricerche gli permette di non pensare, di non angosciarsi, di non trovarsi disteso sul letto a pensare alla sua vita. Perché Stiles in questo momento è schiacciato da due pensieri: il primo è che Derek è un licantropo, ma il secondo è che Derek è il suo bacio dei diciott’anni. Ad un certo punto Stiles si ferma, il pennarello cremisi ancora aperto in mano, si passa rapido la lingua sulle labbra socchiuse, non può continuare così. Davanti a lui c’è una foto, un disegno in bianco e nero in realtà, di una “bestia” con gli occhi fuori dalle orbite, la bava alla bocca, le zanne scoperte e minacciosamente rivolte verso gli osservatori. Sembra addirittura avere dei brandelli di carne tra i denti, mentre la sua vittima dilaniata si trova ai suoi piedi. Le zampe anteriori, antropomorfe, sono rilassate lungo i fianchi perché si regge solamente su quelle posteriori; alle estremità di tutti e quattro gli arti pendono lunghi e acuminati artigli, che ancora colano il sangue della vittima. Stiles d’istinto segna due punti rossi, i due occhi del licantropo, poi chiude con il tappo il pennarello e lo appoggia accanto al foglio stampato. Lo fissa intensamente, cerca di scrutare e scavare dentro quei tratti disegnati chissà quante decine o centinaia di anni prima e finalmente capisce dove sta la differenza, finalmente comprende perché tutte le ricerche che ha svolto sono solo una parte marginale di quello che sta succedendo a lui. Quel lupo ha gli occhi rossi, iniettati di sangue, le mani sporche di tutto ciò che è sbagliato e raccapricciante. Quello che però Stiles ha capito è che ciò che è sbagliato in quel lupo è il modo in cui è stato rappresentato, l’abominio è nel disegno, non nella sua vera natura. I miti sono nati per spaventare, per mettere in guardia da quello che faceva paura perché sconosciuto. Ma se c’è qualcosa che Stiles sa è che Derek non è pericoloso e i suoi occhi sono blu come un oceano profondo. Sono ormai passate le tre di notte quando Stiles cede al sonno e crolla addormentato, ancora seduto a terra, con la schiena premuta sul bordo del letto e la testa reclinata all’indietro. Gli sfugge una lacrima che gli riga il volto, per la tensione, la paura, la confusione: ci penserà domani a cacciarla via dal viso.

 

La luce del mattino coglie Stiles ancora addormentato nella stessa posizione e il raggio di sole che entra dalla finestra è tagliente quando lo colpisce negli occhi e cerca di insinuarsi sotto le sue ciglia. Decisamente essere rimasti svegli per metà della notte facendo ricerche non ha aiutato, ora Stiles ne ha la conferma. Un cerchio alla testa gli riporta alla mente tutto ciò che è successo il giorno prima e, man mano che le immagini tornano vivide nel suo cervello, il cerchio si stringe intorno al cranio del ragazzo. Stiles si passa una mano sulla fronte, spostando leggermente i capelli e massaggiandosi piano le tempie, indeciso ancora sull’idea di aprire o meno gli occhi. Dischiude le palpebre con lentezza innaturale, le sbatte un po’ per mettere a fuoco la sua stanza e preferirebbe non averlo fatto. I fogli e gli appunti della notte prima sono ovunque ma non vuole più leggerli; senza nemmeno curarsi di trovare un ordine che in realtà non c’è li prende uno dopo l’altro e li raggruppa nervoso. Si alza di scatto, prende il contenitore rosso e cerca di metterli dentro, piegando alcuni angoli e rendendo impossibile la chiusura della cartellina. Frustrato lancia tutto sulla scrivania, alcuni fogli cadono, raggiungendo con movimenti leggeri il pavimento della stanza. Stiles stesso si lascia cadere, seduto sul letto; si accascia, piegato sulle ginocchia e infila le dita affusolate nei capelli, tirando forte il cuoio capelluto: almeno piangerà per un motivo valido, pensa. Tutte le lacrime che non sono uscite la sera precedente sgorgano calde e copiose sulle sue guance ora, gli rigano il volto, bagnano i pantaloni e il pavimento. Alle tre di notte sembrava tutto semplice, la stanchezza lo ha portato a conclusioni affrettate, lui tutto quello non può reggerlo. Aveva difficoltà solo all’idea di essere un diciannovenne nel mondo normale, come può esserlo nel mondo sovrannaturale? Stiles tira su forte col naso, cercando di fermare il pianto di rabbia e i singhiozzi che gli sconvolgono la gabbia toracica, ma non è mai stato bravo ad avere controllo sul suo corpo. Scaraventa un pugno sul letto, stringe le dita fino a piantarsi le unghie nel palmo della mano ma nessun dolore è paragonabile a quello che gli squarcia il petto. Alla fine si fa largo nella sua mente un pensiero ancora più devastante, che aleggia nella sua mente dal pomeriggio precedente ma che si concretizza solo ora: Derek dev’essere in condizioni molto peggiori in quel momento, deve sopportare il trauma della trasformazione e l’abbandono di Stiles. Stiles che ora si sente una persona orribile.

 

Una morsa allo stomaco ricorda al ragazzo che non mangia da quasi un giorno, ma allo stesso tempo una nausea gli fa capire che è meglio che non tocchi ancora cibo. Decide di prendere alcuni biscotti dalla credenza e metterli in un sacchetto, mangerà per strada se ne avrà voglia. Entrando in cucina però incontra il primo ostacolo, suo padre, che non vede da più di ventiquattr’ore. Stiles si blocca sulla porta, incapace di formulare una qualsiasi frase; lo sceriffo è seduto al tavolo, con una tazza di caffè e il giornale davanti agli occhi. «Buongiorno figliolo!» esordisce finendo di leggere la notizia in prima pagina, prima di alzare lo sguardo sul ragazzo. «Come…» la domanda gli muore in gola quando vede le condizioni in cui versa il figlio, pallido e con gli occhi cerchiati di viola. Stiles non aveva calcolato di dover dare spiegazioni quella mattina, non si era nemmeno preoccupato di guardare che ore erano per capire se suo padre poteva essere già sveglio. Evidentemente è abbastanza tardi perché si sia già riposato dal turno di notte. «Cosa ti è successo? Sei stato al lavoro? Sei stato da Derek?» la sua voce trasuda preoccupazione e rabbia, si è alzato di scatto e tiene il volto del figlio tra le mani, mentre Stiles cerca di sottrarsi al contatto. Non è pronto a sentire il nome di Derek senza che le lacrime gli salgano agli occhi; decide di ricacciarle indietro abbassando lo sguardo e subito tenta di imbastire una storia per tranquillizzare suo padre. Non gli viene in mente nulla e mugugna un po’ di parole per prendere tempo. «No no, papà, sono solo un po’ stanco, va tutto bene, non è successo nulla…» prova a giustificarsi. «Senti, Stiles, non raccontarmi balle. Qualcuno ti ha preso di mira? C’entra l’outing??» ora la preoccupazione si sta trasformando in una rabbia sorda e molto poco velata. Da quando Stiles ha fatto outing lo sceriffo è diventato ancora più protettivo verso il figlio; la morte di Claudia li ha legati molto ma non è sempre facile relazionarsi da soli con un figlio adolescente, tanto meno con un adolescente come Stiles. Quando invece, più di due anni prima, Stiles si è confidato in maniera così intima e sincera con suo padre a proposito di un tema così delicato, lo sceriffo ha capito che il loro rapporto è più solido che mai. Non se l’aspettava come notizia, ma la cosa non l’ha turbato particolarmente: l’amore per un figlio è legato solo a quanto lo si vuole vedere felice e non deve essere condizionato da nessun altro fattore esterno. Ma lo sceriffo sa bene che questo non è il pensiero di tutti e, anche in una cittadina di provincia piccola e tranquilla come Beacon Hills, esiste la concreta possibilità che Stiles venga preso di mira per la sua bisessualità. Lo sceriffo ha sempre cura di informarsi su chi gli chiede cosa, se qualcuno dice qualcosa di offensivo, lo motteggia o semplicemente gli lancia sguardi che lo mettono a disagio. Per fortuna niente di tutto ciò è mai successo, ma lo sceriffo mantiene sempre la guardia alzata, una deformazione professionale che lo condiziona da sempre. E vederlo in quello stato, pallido ed emaciato, come se avesse appena smesso di piangere, con le occhiaie segnate e lo sguardo spento, lo fa subito agitare.

 

«Scherzi, papà? Assolutamente no, non potresti essere più fuori strada» cerca di tranquillizzarlo Stiles. «Solo, non avevo sonno stanotte, sono rimasto a vagare su internet davanti al computer e ho perso la cognizione del tempo…queste» e si appoggia un indice all’altezza dello zigomo, dove le occhiaie segnano la pelle sottile «sono frutto solo di una brutta nottata» conclude sospirando, lasciando trasparire tutta la stanchezza che si porta in corpo. «Adesso sono un po’ di fretta, devo vedere…devo vedere Scott» dice abbozzando un sorriso stanco. Nel dubbio che suo padre sappia di qualche impegno del suo migliore amico da Melissa, aggiunge «…sempre che mi risponda al cellulare!». Infila la mano in tasca e agita l’apparecchio di fronte al viso del padre, che intanto si sta rilassando, abbastanza convinto da quella farsa. Stiles è diventato proprio bravo a mentire, non sa se esserne tristemente soddisfatto o parecchio amareggiato. Per ora i pensieri che affollando la sua mente sono altri; sale nella Jeep e si rende conto di non aver nemmeno preso i biscotti, ma tanto non ne avrà bisogno dove sta andando.

 

«Avevo bisogno di parlarti» Stiles lo dice come una sentenza, serio, ritto, cercando di nascondere il tremore che sente nella sua voce. «Sei l’unica persona che può capirmi…anche se io faccio un po’ più di fatica a capire le tue risposte…cercherò di essere chiaro, ma provaci anche tu!» il ragazzo sbuffa in una risata nervosa che finisce per diventare un singhiozzo. Si passa il palmo della mano sotto il naso, deglutendo un paio di volte per ricacciare indietro il groppo che gli si è formato in gola. Si siede per terra e incrocia le gambe; non alza ancora il viso di fronte alla sua muta interlocutrice, prende invece a torturarsi le mani e i lacci delle scarpe. «Ti ricordi» Stiles rompe il silenzio all’improvviso «ti ricordi quando mi allacciavi le scarpe la mattina?» deve fare una pausa e questa volta una lacrima riesce a sfuggire al suo controllo. Il terreno è ancora umido, nonostante il sole sia sorto da un bel pezzo; Stiles si chiede se sia a causa di tutte le persone che arrivano in quel posto e non riescono a trattenere le lacrime, proprio come sta facendo lui in quel momento. «Ecco, io me lo ricordo bene» prosegue Stiles, senza più preoccuparsi se la sua voce trema o le sue guance si bagnano «me lo ricordo perché delle mattine ti dicevo che camminando mi si erano slacciate. Non era vero, le slacciavo io in macchina perché tu rimanessi ancora qualche secondo con me prima della scuola». A Stiles sembra di ricordare il suono della risata di sua madre, una risata vera, che riservava solo ai momenti in cui era davvero felice o divertita da qualcosa. Quella risata che faceva sempre quando il piccolo Stiles le faceva una confessione, serissimo, temendo il rimprovero della madre; Claudia invece lo sorprendeva con la sua voce cristallina, allentando la tensione e facendogli capire che non aveva nulla da temere, che non era nulla di grave. Probabilmente quel tipo di risata sarebbe stata la sua reazione in quel momento, per sciogliere l’aura di serietà che quella conversazione stava prendendo. Il silenzio invece continua ad avvolgere quel posto desolato e nessuno ride.

 

Stiles passa qualche minuto in silenzio, cercando di ricomporsi; finalmente alza gli occhi e la lapide della madre svetta davanti a lui, silenziosa e fredda, il contrario di quello che era Claudia. A Stiles però piace la foto che hanno messo, l’hanno presa da una in cui loro due erano insieme. Claudia l’aveva portato al parco, era una soleggiata mattina di maggio e Stiles aveva cinque anni; quel giorno la donna non poteva essere più felice, aveva appena avuto il suo primo incarico dopo la nascita del figlio. I primi anni aveva voluto dedicarsi completamente a Stiles ma adesso era il momento di tornare alla sua grande passione: il giornalismo. Era una donna che non mandava niente a dire, senza peli sulla lingua e sempre pronta ad impegnarsi per far venir fuori la verità; era così che si era perdutamente innamorata del nuovo sceriffo di Beacon Hills. Quella mattina aveva ricevuto la chiamata dal giornale dove aveva sostenuto un colloquio qualche settimana prima e aveva ricevuto l’incarico di scrivere quattro articoli di varia natura, per un impegno totale di un paio di mesi. Non era nulla di importantissimo o stabile, ma era il primo passo per tornare ad immergersi nella sua vera passione, la scrittura: avrebbe passato (e in realtà l’aveva anche fatto molto spesso) nottate in bianco continuando a scrivere, fino a perdere la cognizione del tempo. Purtroppo lo sceriffo era rientrato quella mattina da un massacrante turno di notte e non aveva potuto andare con loro al parco, ma sarebbero andati tutti e tre a cena fuori quella sera per festeggiare. Stiles però era molto pensieroso e Claudia sapeva leggergli così bene in quegli occhi color caramello che sapeva perfettamente cos’era successo, ma voleva che fosse Stiles a confessarglielo. Ad un certo punto il bambino si bloccò di colpo, sfilò la piccola mano da quella della madre e si posizionò davanti a lei, fissandola in quegli occhi che erano lo specchio dei suoi. «Cosa succede, tesoro?» chiese Claudia, non particolarmente preoccupata della risposta del piccolo. «Ho fatto una brutta azione» sputò alla fine fuori Stiles, abbassando lo sguardo e spingendo fuori il labbro inferiore, cosa che faceva sempre sciogliere Claudia. «Sai quei due biscotti che c’erano sulla tavola? Io ho lasciato che papà si prendesse la colpa ma in realtà uno l’avevo mangiato io» proseguì abbassando sempre di più la testa: odiava deludere la madre che gli aveva sempre insegnato che dire la verità era la cosa giusta da fare. Ed eccola, la sua risata, argentina, limpida e serena; era il suono più bello che Stiles potesse sentire, mentre Claudia gli alzava il mento con l’indice, facendo incrociare i loro sguardi complici. Stiles amava vedere come la madre fosse capace di ridere anche con gli occhi. «Sai l’altro biscotto? L’ho mangiato io!» confessò allora Claudia, senza smettere di ridere. «E così io dovrei prendermi la colpa per entrambi??» la voce dello sceriffo li raggiunse all’improvviso e mentre Stiles e Claudia si stavano girando il flash della macchina fotografica era già partito.

 

«Stai ridendo, vero?» a Stiles viene da sorridere al dirlo, il primo sorriso rilassato che fa quel giorno, ma sa che sua madre reagirebbe proprio così. L’ha conosciuta per pochi anni ma non ha alcun dubbio su come avrebbe agito lei in certe situazioni e su cosa gli avrebbe consigliato di fare. Gli sembra di sentirla sussurragli qualcosa all’orecchio, mentre il vento gli accarezza i capelli proprio come faceva lei; Stiles socchiude gli occhi e ascolta. «Nessuno ha detto che sarebbe stato facile» è proprio la voce che Stiles ricorda «ma sai che le cose migliori meritano un po’ di fatica. Nessuno ha detto che valeva la pena mollare alla prima difficoltà. Quindi non farlo, non mollare. Nessuno ti promette che andrà tutto bene, ma vuoi davvero privarti della possibilità di scoprirlo, per la seconda volta? È questo che vuoi, Stiles?». Il vento cessa improvvisamente e Stiles sta piangendo. Raccoglie le ginocchia verso il petto e le stringe a sé, forte quanto vorrebbe stringere sua madre; piange come piangerebbe sulla sua spalla e per una volta quel pianto non è distruttivo ma liberatorio. Sorride mentre piange, tira su forte col naso proprio mentre un singhiozzo gli sta facendo sobbalzare il petto. È incredibile come la persona che dovrebbe essergli più lontana gli risulti invece così vicina, così comprensiva, così materna. Stiles sta ancora sorridendo, sorride nonostante tutto, sorride contro il mondo, sorride contro il destino che ora intende fronteggiare, senza più nascondersi. Sa quello che vuole, sa perché lo vuole, sa come lo vuole, deve solo andargli incontro. Lascia un bacio a fior di labbra sulla mano e la posa sulla foto, sussurrando un «grazie mamma» che sentono solo lui e Claudia.

 

Decisamente ora lo stomaco di Stiles si era deciso ad aprirsi, nel senso che si era aperta una voragine al posto del suo stomaco e doveva assolutamente trovare un bar dove prendere qualcosa da mettere sotto i denti. Parcheggiò la Jeep nel primo posto auto libero che vide di fronte al primo bar che incontrò sulla strada dal cimitero e fatalità era anche uno dei suoi preferiti, sapeva che facevano delle brioche da leccarsi i baffi. Spense il motore prima ancora di aver fermato del tutto la macchina e si avviò leggero e spedito verso l’entrata del bar. All’interno il chiacchiericcio era abbastanza moderato, un brusio di sottofondo che andava a mescolarsi con la musica che proveniva dalla televisione appesa sulla parete in fondo a sinistra. Il bancone si offriva a Stiles con ogni delizia possibile e immaginabile, ma il ragazzo non aveva tempo di perdersi in tanta “zuccherosità”. «Un cappuccino e una brioche alla marmellata, per piacere» chiese alla cameriera che lo fissava in attesa del suo ordine. «Anzi, facciamo due!» si corresse Stiles sentendo il suo stomaco brontolare sonoramente e sorridendo colpevole verso la barista.

 

La ragazza gli preparò tutto diligentemente e gli appoggiò di fronte, nel giro di un paio di minuti, una tazza fumante e un piattino con i due cornetti e qualche tovagliolino. Stiles divorò tutto in un attimo, aveva davvero troppa fame; sentendosi però un po’ maleducato, prese delicatamente una salvietta e se la portò alla bocca, pulendosi il contorno delle labbra costellate di briciole di brioche. Per sembrare ancora più educato ne prese una seconda e la strofinò nuovamente sulle labbra. Quando fece per accartocciarla e appoggiarla nel piattino si accorse che la terza aveva qualcosa scritto sopra: un numero di telefono e un nome. Allibito e non potendo credere a quello che stava succedendo (non poteva essere che fosse per lui, forse la ragazza l’aveva portato alla persona sbagliata), alzò gli occhi verso la cameriera che ancora lo fissava, probabilmente attendendo una risposta o un cenno di assenso. Con la bocca ancora spalancata e il tovagliolino stropicciato nella mano destra, raccolse quello scritto e lo porse alla ragazza dicendole «…penso…penso che tu abbia sbagliato persona…» e divenne rosso fino alle punte delle orecchie «…io, io ho un’altra persona in testa ora…» aggiunse senza nemmeno accorgersene, come se lo dicesse più a se stesso che a lei. «Niente, oggi dev’essere una brutta giornata. Adesso il figlio dello sceriffo che rifiuta il mio numero, stamattina la notizia che quel ragazzo, Hale, se ne va dalla città…» sospirò sconsolata girando i tacchi e andando a pulire la macchina del caffè dietro di lei. Stiles si allungò oltre il bancone e le afferrò al volo il bordo della maglia, per richiamarla indietro. «Hale? Hai detto Hale?? Derek Hale???» Stiles stava praticamente urlando ma non gli importava. «Quanti Hale vivi conosci in questa città? Ora che hai avuto le tue notizie, lasciami lavorare» rispose acida la ragazza e, sfilando la maglia dalle mani di Stiles, andò alla cassa, dove un cliente aspettava il conto.

 

Stiles non poteva crederci, Derek stava partendo. Se ne stava andando. E, se lo conosceva abbastanza bene, lo stava facendo per sempre. Non se n’era andato quando la sua famiglia era stata bruciata viva e voleva mollare ora. La situazione doveva essere molto più grave di quanto pensasse Stiles. Doveva vederlo, parlargli, subito. Un peso gli si piazzò di nuovo sullo stomaco, un nuovo macigno sul suo cuore. Lasciò i soldi sul bancone e corse via. Prima ancora di rendersene conto stava davanti al portone del condominio di Derek. Probabilmente non avrebbe voluto aprirgli, probabilmente non avrebbe voluto parlargli, probabilmente aveva già sentito la Jeep mentre a parcheggiava.

 

Nessuno ha detto che sarebbe stato facile, rimbombò nella testa di Stiles, mentre si apprestava a suonare il campanello.

   
 
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