Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: xX__Eli_Sev__Xx    29/02/2016    3 recensioni
È strano pensare che per una volta a salvare la situazione non sia stato Sherlock Holmes, ma la sua nemesi, James Moriarty. Ma quando il suo volto compare sugli schermi di tutto il paese, Sherlock sa bene che non può essere Jim, l'autore di quel messaggio. Qualcun altro sta tentando di trattenerlo a Londra. Qualcuno che sta tentando di ottenere qualcosa da lui. Qualcuno che conosce i suoi punti deboli e sa come sfruttarli a suo favore. Qualcuno che si spingerà così oltre da riuscire a stravolgere completamente il mondo di Sherlock Holmes, un mondo che il giovane consulente investigativo aveva sempre dato per scontato.
Questa volta, Sherlock non si ritroverà ad affrontare un semplice criminale, ma dovrà fare i conti anche con se stesso e con le proprie ombre e come sempre non sarà solo.
Il gioco è ricominciato.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
This is war
 

The pain
 
 
 John non si fece vedere a Baker Street per tutta la settimana seguente. Sherlock gli aveva detto chiaramente che non voleva averlo tra i piedi e, per il bene di entrambi, il medico aveva deciso di farsi da parte. Dopotutto, anche se gli aveva fatto male sentirselo dire, sapeva bene che il suo amico aveva ragione: Sherlock non aveva bisogno di lui, era sempre stato il contrario. E in quel momento, seduto sul divano di casa propria, solo e immerso nel silenzio, se ne rese conto. Sentiva un vuoto immenso dentro di sé, che sembrava quasi volerlo soffocare. Nonostante nessuno gli impedisse di tornare da Sherlock, sapeva bene che se anche l’avesse fatto, nulla sarebbe più stato lo stesso, perché lui non l’avrebbe più voluto.
 Il fatto che gli avesse confessato di amarlo, ma di aver sbagliato a cedere a quel sentimento, l’aveva ferito più di quanto si sarebbe aspettato o avesse voluto dare a vedere. Lui teneva a Sherlock – era davvero importante per lui – ma non lo amava. O almeno così aveva creduto fino a qualche giorno prima. Da quando Sherlock glielo aveva confessato, non aveva potuto fare a meno di pensarci e ripensarci ed era arrivato alla conclusione che era così evidente ciò che il suo amico provava per lui, che non riusciva a capire come potesse non essersene accorto prima. Quelle parole avevano messo in discussione tutte le sue certezze, tanto da portarlo a porsi domande che prima non gli avevano mai sfiorato la mente.
 È soltanto un amico?
 Davvero non provo nulla per lui?
 Allora perché fa così male?
 Il campanello suonò, destandolo dai suoi pensieri.
 L’uomo sospirò e si costrinse a mettersi in piedi per andare ad aprire. Quando vide che sulla soglia di casa c’era Greg, i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa.
 «Greg» disse stupito. «Cosa ci fai qui?»
 «Sono passato a vedere come stavi.» rispose l’Ispettore.
 «Sto bene, ma dubito fortemente che tu sia passato solo per sapere come sto, considerando che ti sarebbe bastato un SMS.» replicò il medico. «Cos’è successo?»
  «Sherlock è scomparso.» disse Lestrade, sospirando, senza troppi giri di parole. «Non lo vedo da quattro giorni, non risponde al cellulare e non è a Baker Street e in nessuno dei suoi soliti nascondigli.»
 «Oh, Gesù…» sfuggì a Watson, che si portò le mani al viso. Sospirò e gli fece cenno di entrare. Insieme raggiunsero il salotto e presero posto sul divano. «Non potrebbe essere in qualche covo di drogati o a casa di Mycroft?»
 «Non lo so. Per questo sono qui. Volevo sapere se l’avevi visto o se ti aveva fatto sapere dove sarebbe andato.» replicò il poliziotto. «Anzi, a dirla tutta speravo che fosse qui con te.»
 «No, non è qui.» dichiarò John. «Abbiamo litigato e mi ha chiesto di stare fuori dalle indagini. Non lo vedo da una settimana.» concluse con un sospiro.
 «Sono sicuro che gli passerà.» disse Greg, poggiandogli una mano sulla spalla. «È un brutto periodo, è normale che si comporti così.»
 «No, credo che questa volta non gli passerà molto facilmente. Non mi sorprenderebbe se fosse scomparso a causa del nostro litigio.» sospirò e scosse il capo. Dopo un momento di silenzio riprese. «Mi ha detto che è innamorato di me.» disse e vedendo che Greg aveva abbassato lo sguardo, aggiunse: «Cosa c’è?»
 Lestrade risollevò lo sguardo. «Be’, era ora che te lo dicesse, dopo anni passati a nasconderlo.» disse. «Lo sapeva da anni e se n’erano accorti tutti. L’unico che ancora non ne era stato messo al corrente eri tu.»
 John sgranò gli occhi. «Com’è possibile che non me ne fossi mai accorto?» domandò. Se davvero tutti lo sapevano e lo avevano notato, com’era possibile che l’unico a non averlo capito fosse lui, il diretto interessato?
 «Non lo so, amico.» replicò Greg, facendo spallucce. «Ma posso assicurati che era abbastanza evidente.»
 Watson abbassò lo sguardo e si prese il capo fra le mani. «Che idiota… sono un vero idiota. Come ho fatto a non capire?» mormorò, scuotendo vigorosamente il capo. «E la cosa peggiore è che non provo nulla per lui… non lo amo e lui lo sa.»
 Lestrade aggrottò le sopracciglia. «Sei certo di non provare nulla per lui?»
 «Greg, sai bene che non sono gay.»
 «Lo so, non fai che ripeterlo. Però da persona estranea alla cosa e da osservatore esterno, posso dirti che dai tutt’altra impressione.» replicò. Vedendolo perplesso, riprese: «Ho capito che Sherlock è innamorato di te da come ti guarda. Ha sempre quello sguardo concentrato e attento che riserva soltanto a te, come se tentasse di carpire ogni particolare di te per assimilarlo e farlo suo. Ti guarda come se fossi l’unica cosa ad avere importanza a questo mondo, come se non esistesse nessun’altro a parte te.» affermò, accennando un sorriso. «E da quello che ho visto, anche se forse non te ne sei ancora reso conto, gli riservi lo stesso sguardo. Se non è amore questo…»
 John sentì il cuore accelerare, mozzandogli il respiro. Davvero aveva dato quell’impressione? «Io amavo Mary, non Sherlock. Per quanto possa provarci, per quanto possa volerlo…» sospirò, scuotendo il capo. «Io tengo a lui… ci tengo davvero. Però non nel modo in cui lui vorrebbe.»
 Ignorando le sue parole, Greg riprese. «Quanto volte sei andato da Mary da quando è in carcere?» chiese, uno sguardo risoluto negli occhi.
 Il medico, preso in contropiede da quella domanda, abbassò lo sguardo. «Mai.»
 «E quante volte andavi alla tomba di Sherlock quando credevi fosse morto?»
 Gli occhi di John si spalancarono man mano che la consapevolezza si faceva strada in lui. «Quasi ogni giorno.» rispose in automatico. E gli tornò in mente il periodo quando, dopo la morte del suo migliore amico, andava alla sua tomba a portargli dei fiori e a parlare con lui, a piangere e ad implorarlo di tornare da lui e di non lasciarlo solo. Tuttavia, anche se era evidente quanto John tenesse a Sherlock, il fatto che andasse alla sua tomba ogni giorno non presupponeva che fosse innamorato di lui. «Chiunque l’avrebbe fatto.»
 «Io andavo da lui ogni due settimane e sono suo amico.» fece notare Greg.
 John sospirò. «Il fatto che andassi da lui ogni giorno non significa necessariamente che io sia attratto da lui.»
 Lestrade annuì. «Hai ragione.» confermò, poi dopo un momento riprese: «Che cosa pensi quando lo vedi? O quando deduce qualcosa, sorprendendo tutti con le sue idee geniali?»
 «Che è fantastico.» rispose John, automaticamente. «È speciale, lo sanno tutti.»
 «E quando ha ucciso Magnussen che cosa hai provato?»
 «Sai bene che ero furioso. Te lo avevo detto.» disse, abbassando lo sguardo. «Ma dopo averci pensato su ho capito che avrei fatto la stessa cosa per protegger lui, se fosse stato necessario.»
 «Come quando hai sparato al tassista per impedirgli di fargli del male.» confermò Lestrade, sorridendo. «Questo è amore, John. Immolarsi per qualcun altro quando è necessario e dare la propria vita per lui e per proteggerlo.» spiegò. «O pensare che sia fantastico nonostante i suoi difetti e tenere a lui anche a dispetto di tutti i torti che ti ha fatto.»
 John sembrò sorpreso da quella rivelazione. «Sai del tassista?»
 Il poliziotto rise. «Dai, John, non sono così stupido come Sherlock vuole farmi sembrare.» replicò. «Se c’è una cosa che ho imparato da Sherlock Holmes, da quando lo conosco, è che si deve imparare a osservare. E da quando lo faccio ho scoperto molte cose interessanti.» sorrise e gli poggiò una mano sulla spalla. «Per la cronaca: non c’è niente di male ad ammettere che provi qualcosa per lui.»
 «Il problema è che io non sono certo di ciò che provo. Ci ho pensato e non sono certo che ciò che provo sia amore. Potrebbe essere semplice affetto.» fece notare Watson. «Non posso andare da lui e dirgli che lo amo, perché se non fosse la verità lo distruggerei.»
 «Non ti sto dicendo di andare da lui e gettarti ai suoi piedi, ti sto dicendo di pensarci su e di schiarirti le idee. Soprattutto alla luce del fatto che ti ha confessato di essere innamorato di te.» dichiarò l’Ispettore. «Prenditi un po’ di tempo e quando sarà più chiaro gli darai una risposta. Se è riuscito ad amarti fino ad ora senza dirtelo, è perché non vuole nulla in cambio.»
 «Sì, ma se mi accorgessi di non amarlo?» chiese il medico. «Cosa potrei fare in quel caso?»
 «Lasciarti amare.» replicò Greg con ovvietà.
  John, dopo un momento di riflessione, annuì. «Grazie, Greg.»
 Lestrade sorrise e gli poggiò una mano sul ginocchio, con fare rassicurante. «Devo tornare a Scotland Yard.» annunciò mettendosi in piedi. «Chiamami se dovesse farsi sentire e non fare nulla di avventato.» si raccomandò. Si abbottonò il cappotto e prese le chiavi della macchina dalla tasca interna della giacca. «Conosco la strada.» concluse lasciando la stanza. Poi uscì dalla viletta, diretto a Scotland Yard.
 
 Il giorno seguente John uscì di casa con l’intento di trovare Sherlock.
 Ci aveva pensato a lungo e anche se non era ancora riuscito a schiarirsi le idee riguardo i suoi sentimenti per lui, non poteva di certo rimanere con le mani in mano mentre lui era chissà dove, magari ferito o in pericolo. Forse non era successo niente di grave o forse – e quel pensiero lo fece rabbrividire dal terrore – Sherrinford l’aveva trovato e gli aveva fatto del male. Watson non poteva saperlo con certezza, perciò avrebbe dovuto agire prendendo tutte le precauzioni del caso.
 Il medico cercò in tutti i suoi nascondigli – in quelli abituali e quelli meno utilizzati – e in svariati covi di drogati, ma non riuscì a trovarlo. Una parte di sé era sollevata, sperando che significasse che non era tornato alla droga, ma l’altra era più preoccupata che mai, considerando che le messe del consulente investigativo spesso e volentieri non erano prevedibili.
 Sconsolato tornò a Baker Street, sperando di trovare qualche indizio che lo conducesse da lui, studiò attentamente ogni angolo dell’appartamento in cerca di qualche indizio, ma non trovò nulla. Così decise di scendere al piano di sotto per chiedere alla signora Hudson se l’avesse visto nelle ultime ore, ma la donna gli assicurò di non averlo visto, né di averlo sentito rientrare anche solo per la notte.
 John la ringraziò e uscì in strada. Sollevò una mano per chiamare un taxi e tornare a cercare in giro per la città, e solo allora notò, parcheggiata dall’altra parte della strada, un’auto nera – simile a quelle di Mycroft – dove un uomo era appoggiato e lo stava osservando. Quante erano le probabilità che stesse aspettando proprio lui? Poteva essere lì in attesa di una donna, magari per un appuntamento. Eppure il modo in cui lo osservava… ad un tratto mosse il capo, rivolgendogli un cenno.
 A quel punto John aggrottò le sopracciglia e attraversò la strada, avvicinandosi. Quando si ritrovò di fronte a lui, a conferma del fatto che lo stesse aspettando, l’uomo aprì la portiera dell’auto e lo invitò ad entrare.
 E Watson salì a bordo senza porsi troppe domande.
 
 L’uomo aprì la portiera della macchina e con un cenno poco amichevole invitò il dottore a scendere. Non aveva parlato per tutto il viaggio e non sembrava intenzionato a farlo, perciò John scese senza fare storie. Se ci fosse stato Sherlock, al suo posto, sarebbe riuscito a dedurre la sua posizione in base al percorso seguito per arrivarci, ma l’unica cosa che il medico era stato in grado di dedurre era che si fossero allontanati da Londra. Non sapeva di quanti chilometri, esattamente, ma a giudicare dal tempo impiegato per raggiungere quella zona, era ovvio che fosse la periferia della città.
 John uscì dall’abitacolo e osservò ciò che lo circondava. Doveva trattarsi di una zona industriale poco trafficata. Una distesa di capannoni si estendeva a perdita d’occhio alla sua destra, ma quando si volse a sinistra non vide altro che un muro di nebbia. Fantastico, pensò.
 L’uomo accanto a lui richiuse la portiera con una spinta poco delicata e puntandogli una pistola alla schiena lo costrinse ad avanzare verso il capannone che avevano di fronte. Quando varcarono la soglia, vennero accolti da un uomo, la cui figura emerse dall’oscurità con passo lento e leggero.
 Watson aggrottò le sopracciglia e socchiuse gli occhi per intravedere chi avesse di fronte e solo quando entrò nel suo campo visivo capì. Fisico asciutto e allampanato, capelli neri, occhi di ghiaccio.
 «Quindi sei tu Sherrinford Holmes.» disse il dottore.
 L’uomo sorrise sornione. «Sherlock le ha parlato di me. Mi sento quasi onorato.»
 «Lui dov’è?» chiese John.
 «Oh, dottore, questa sua fedeltà a mio fratello mi commuove.» rispose Sherrinford. «Cosa le fa pensare che io sappia dove si trovi Sherlock?»
 Watson fece spallucce. «Il fatto che sia scomparso da una settimana. Considerando che era sulle tue tracce posso presumere che lo abbia trovato prima tu e che lo abbia portato qui per sbarazzarti di lui. Sapevi che nessuno avrebbe sospettato nulla dato che spesso e volentieri Sherlock sparisce per mesi senza dare sue notizie a nessuno.» affermò facendo spallucce, rimanendo impassibile. «Ma il fatto che tu mi abbia sequestrato in mezzo alla strada per portami in questo posto dimenticato da Dio, con una pistola puntata alla schiena, mi suggerisce che lui sia ancora vivo.» concluse.
 «È più sveglio di quanto sembra, dottor Watson.»
 «E tu più ottuso di quanto immaginassi.» replicò. «Forse la scomparsa di Sherlock potrà passare inosservata, ma la mia non lo farà. Tra qualche ora ti ritroverai tutta Scotland Yard alle calcagna e il tuo gioco finirà prima di cominciare.»
 Sherrinford sorrise. «Il mio gioco è già cominciato da tempo.» affermò, poi sospirò e riprese. «Dunque, immagino che vorrà vedere Sherlock.» concluse. «Mi segua.» disse, indicando il capannone con un cenno del capo.
 L’uomo alle spalle del medico spinse la pistola contro la sua schiena per costringerlo ad avanzare. I tre varcarono la soglia del capannone e percorsero il lungo corridoio centrale camminando velocemente. Due lampadine illuminavano l’ambiente, ma non quanto bastava per trovare un punto di riferimento, perciò John si ritrovò a sperare che Greg si accorgesse al più presto della sua scomparsa. Una volta arrivati in fondo al corridoio, Sherrinford spalancò una porta alla sua sinistra e invitò il dottore ad entrare con un cenno della mano.
 «Prego» disse cordialmente. «E buona permanenza.»
 John varcò la soglia e sobbalzò quando la porta si chiuse con violenza alle sue spalle. Sospirò e si guardò intorno. Sherrinford gli aveva detto che l’avrebbe condotto da Sherlock, eppure lì non c’era nessuno. Volse il capo e destra a sinistra, strizzando gli occhi per vedere attraverso la semioscurità della stanza. Il suo cuore accelerò non appena i suoi occhi si posarono su quello che sembrava un ammasso di stracci, nell’angolo più oscuro dell’ampia stanza. Tuttavia, quel cappotto gli era tremendamente famigliare. Il medico poté udire perfettamente dei rantoli strozzati e ansiti convulsi rimbombare nella stanza. A quel punto John avanzò e poté intravedere degli inconfondibili ricci corvini spuntare dal cappotto, che gli diedero conferma che quello era proprio il suo migliore amico.
 «Dio…» gli sfuggì dalle labbra. Senza perdere tempo lo raggiunse e si inginocchiò al suo fianco. Ad una prima occhiata, John poté stabile che dovesse essere a digiuno da almeno tre giorni a giudicare dagli zigomi ancora più sporgenti e da quanto gli abiti gli stavano larghi. Il suo corpo era scosso da potenti tremori e il suo volto era pallido come un cencio, segnato dalle occhiaie e dalla stanchezza. Il medico fece voltare l’amico verso di sé, facendolo sdraiare sulla schiena e lo chiamò, poggiandogli una mano sulla guancia. «Sherlock» 
 L’uomo emise un ansito strozzato. John gli diede dei leggeri colpetti sulle guance e dopo qualche istante le palpebre tremarono e gli occhi lentamente si aprirono, rivelando le iridi azzurre quasi completamente scomparse sotto l’iride, dilatata a coprirle quasi completamente. 
 «John…» rantolò Sherlock, aggrottando le sopracciglia e sbattendo più volte le palpebre per metterlo a fuoco oltre il velo che gli offuscava la vista.
 «Sì, Sherlock.» sussurrò il medico.
 «Ciao…» sussurrò il consulente investigativo e i suoi occhi si riempirono di lacrime.  
 John accennò un sorriso. «Ehi…» sollevò una mano e gliela poggiò sulla fronte, mentre con l’altra gli accarezzava il petto, per rassicurarlo. Non aveva mai visto Sherlock piangere – se non prima di buttarsi dal tetto del Bart’s – il che significava che doveva essere davvero disperato e spaventato, dopo giorni di prigionia e solitudine.   
 «’ei qui ‘er me…?» balbettò il consulente investigativo.
 Watson annuì. «Sì.» rispose. Fece scivolare la mano fra i suoi ricci con fare rassicurante, e solo in quel momento si rese conto della lunga ferita che correva sul capo dell’amico e della macchia di sangue sul materasso. La ferita era ancora aperta e stava sanguinando, ma a giudicare da quanto era estesa, poteva essere vecchia di qualche giorno. La macchia di sangue sul materasso era grande, quindi doveva aver perso molto sangue, il che spiegava perché fosse così pallido.   
 «Sei ferito.» sussurrò impallidendo.
 «Non è sta’a colpa mia…» bofonchiò il moro. «She’nfo’d…»
 «Sì, lo so, Sherlock. Lo so.» lo rassicurò. «Adesso devo fasciarti la testa. Potresti avere una commozione cerebrale e dobbiamo bloccare la fuoriuscita del sangue prima che la ferita si infetti.» spiegò e senza perdere tempo si tolse la sciarpa. Considerando che stava balbettando e alla profondità della ferita, il colpo alla testa doveva essere stato potente. «Adesso ti metto seduto.» lo informò e dopo essersi posizionato alle sue spalle, sedendosi sul materasso lo sollevò reggendogli la testa. Gli fece poggiare la schiena contro il suo petto, imponendosi di ignorare gli ansiti e i gemiti di dolore dell’amico, poi prese la sciarpa e gliela legò intorno al capo per tamponare la ferita. Una volta finito gli circondò il petto con le braccia, issando il suo corpo contro il petto, tra le gambe.
 «Devi rimanere sveglio.» disse. «Tieni gli occhi aperti e tenta di rimanere lucido. Parla se serve, ma non addormentarti. Hai perso troppo sangue.» spiegò, sapendo che Sherlock avrebbe preferito essere messo al corrente della situazione, anche se fosse stata critica.
 «Stanco…» si lamentò Sherlock.
 «Lo so.» confermò il dottore, accarezzandogli il petto. «Ma se ti addormenti rischi di non svegliarti più, Sherlock. E non vogliamo che accada, giusto?»
 «No…» replicò il consulente investigativo. «…parliamo…»
 «Bene.» proseguì John. «Di cosa vuoi parlare?»
 «No… idea…»
 John sorrise. «Ok, allora comincio io.» disse prendendogli la mano e stringendola, avendo notato che aveva nuovamente chiuso gli occhi per qualche secondo. «Devo dirti una cosa che riguarda Mycroft.» spiegò e lo sentì gemere sommessamente non appena ebbe pronunciato il nome di suo fratello. «Non l’ho fatto prima perché mi sembrava troppo presto e sapevo che non avresti voluto vedermi, ma credo che sia arrivato il momento che tu lo sappia.» sospirò. «Prima di morire mi ha chiesto di dirti che eri importante per lui e che ti amava. Ti amava tantissimo, Sherlock. Eri tutto per lui.»
 Il corpo di Sherlock tremò a contatto con il suo.
 John aggrottò le sopracciglia e si sporse per studiare il volto dell’amico. Una lacrima stava solcando la sua guancia, percorrendola lentamente fino a perdersi nel suo cappotto.
 Holmes gemette. «Era importante…» sussurrò con voce flebile. «Mycroft… lo amavo molto… e ho r’vinato tutto…» la frase si dissolse in singhiozzi sommessi.
 «Shh… non hai rovinato nulla, te lo assicuro.» John lo cullò dolcemente, asciugandogli la guancia con le dita. «Nonostante tutto ciò che era successo, lui ti amava. Eri la sua famiglia e non voleva nient’altro che fossi felice e al sicuro. E sapeva che anche tu lo amavi.»
 Sherlock scosse il capo. «…mai detto…»
 «Non ce n’era bisogno.» assicurò Watson, accarezzandogli la fronte. «A volte non c’è bisogno di usare le parole. Tra fratelli soprattutto, non ce n’è bisogno. Ci sono cose che si capiscono senza bisogno di essere spiegate. Perciò sono certo che Mycroft lo sapesse.»
 «…sapeva…?» domandò l’altro.
 «Sì.» rispose il medico. «Ti posso assicurare che lo sapeva.»
 Il consulente investigativo annuì, ma una fitta di dolore gli attraversò il capo. Ansimò e si portò una mano alla fronte, sentendo le lacrime rigargli le guance con violenza, nonostante stesse tentando di trattenerle. Si rannicchiò maggiormente contro l’amico. «…male…» gemette. «John… fa male…»
 John lo strinse a sé e gli accarezzò il petto con una mano. «Lo so, tenta di non pensarci.» consigliò. Poi gli prese la mano e gli accarezzò il dorso, tracciando linee leggere con il pollice. «Pensa a qualcos’altro. Tieni la mente lontana e distaccata dal dolore. Credi di poterlo fare?»
 Holmes si lamentò nuovamente, scuotendo il capo e portandosi le mani alla testa.
 «Sì, che puoi.» disse lui, dolcemente, allontanandola per evitare che toccasse la ferita e rischiasse così di infettarla. «Pensa a qualcosa che ti tranquillizza e che ti fa star bene.» sentendolo lamentarsi nuovamente, risistemò meglio il suo corpo contro il proprio, in modo che Sherlock avesse il capo poggiato sulla sua spalla. Gli accarezzò la fronte e poggiò la tempia contro la sua.
 «…stanco…» ripeté l’uomo. «…dormire… solo ‘n momento…» bofonchiò.
 «No.» sbottò John. «Non dormire, Sherlock. Resta sveglio.»
 «…non riesco…»
 «Sì, invece, puoi farcela. Devi farlo almeno fino a che non sarai tornato completamente lucido.» replicò il dottore con voce ferma. «Sai che cosa facciamo? Adesso cominciamo a contare. Una bella prova di matematica, che ne dici?» propose. Forse se fosse riuscito a tenerlo abbastanza concentrato da permettergli di mantenere attiva la sua mente, sarebbe riuscito a rimanere sveglio.
 Un sorriso accennato fece capolino sulle labbra del consulente investigativo. «’ono bravo… ‘n matematica…» sussurrò.
 «Sì, lo so, sei un maledetto genio. Come in qualsiasi altra cosa, d’altronde.» fece notare con un sorriso e accarezzandogli i fianchi. «Ok, cominciamo. Allora… quando fa 482-138?»
 «344» ripose Sherlock dopo poco meno di due secondi.
 «122+69?»
 «191»
 John annuì. «Bravo.»
 Continuarono per più di un’ora. Sommarono e moltiplicarono cifre di ogni genere, un’operazione dietro l’altra, fino a che Sherlock sembrò aver recuperato quasi totalmente la capacità di formare frasi di senso compiuto.
 Il tentativo di tenerlo sveglio andò in porto, tanto che Sherlock riuscì anche a rivolgere alcune domande a John e rimproverarlo per alcuni errori di calcolo. Il medico ridacchiò, decisamente sollevato nel vedere che il suo amico stava lentamente tornando a essere quello di sempre.
 
 Qualche ora dopo, il corpo di Holmes prese a tremare violentemente contro quello del medico, che continuava a tenerlo stretto a sé.
 «…freddo…» mormorò Sherlock con voce tremante. «Ho freddo, John…»
 Watson fece scivolare una mano sulla fronte dell’amico, sentendo che era bollente.
 «Dannazione, hai la febbre.» disse, imprecando sottovoce. Avrebbe dovuto immaginare che presto sarebbe arrivata, ma sperava in cuor suo che non fosse così, considerando la bassa temperatura della stanza e la mancanza di possibilità di riscaldarsi. A quel punto si spostò, inginocchiandosi accanto a Sherlock. Gli resse la testa e lo fece sdraiare in posizione supina.
 La mano di Sherlock si chiuse immediatamente intorno al polso del medico, tirandolo verso di sé. «…non lasciarmi…» ansimò, nuovamente colto dalla stanchezza. Aveva le guance arrossate e gli occhi vitrei, segno che la febbre stava salendo velocemente.
 John gli strinse la mano. «Non ti lascio.» assicurò mentre si toglieva la giacca e la adagiava sul corpo dell’amico per tenerlo al caldo. «Voglio solo che tu rimanga sdraiato.» concluse e si sedette sul bordo del materasso, accanto a lui. Scostò la stoffa della sciarpa che aveva avvolto intorno al capo di Holmes e diede una rapida occhiata alla ferita, poi sospirò, risistemando il tessuto in modo da coprirla nuovamente.
 «…morirò…?» domandò Sherlock, respirando affannosamente.
 John abbassò immediatamente lo sguardo sugli occhi dell’amico e gli sorrise rassicurante. «No. Certo che no.» rispose dolcemente. «È una ferita superficiale.»
 Sherlock annuì. «…ho sonno… ti prego, John, voglio dormire…»
 Il medico ci pensò per un momento e alla fine annuì. «D’accordo, dormi un po’.» concesse, accarezzandogli i capelli.
 
 Nel bel mezzo della notte, John, che si era sdraiato accanto all’amico per concedersi qualche ora di sonno, si svegliò di soprassalto. Si allarmò, sentendo che il corpo di Sherlock stava tremando violentemente a contatto con il suo, il dottore si mise seduto e si volse verso il moro.
 Il volto di Sherlock era solcato da rivoli di sudore freddo, le pelle era bollente e a giudicare dal rossore delle sue guance e dal respiro rotto e pesante, la febbre doveva essere salita sopra i 39°.
 Il consulente investigativo gemette, sentendo il corpo di John allontanarsi dal proprio. Aprì lentamente gli e incontrò quelli di Watson.
 Il dottore si chinò su di lui, accarezzandogli il petto. «Sherlock, dobbiamo abbassare la temperatura.» spiegò «Devo toglierti il cappotto e la sciarpa. So che sentirai freddo, ma è per il tuo bene.»
 Il consulente investigativo annuì febbrilmente e quando l’amico lo aiutò a mettersi seduto, lasciò che gli sfilasse la sciarpa, il cappotto e la giacca.
 John li adagiò sul pavimento e, facendolo sdraiare nuovamente, prese a sbottonargli la camicia per scoprirgli il petto. Vedendo che era lucido di sudore freddo, prese la sciarpa e tamponò il petto e il collo dell’uomo, che intanto stava tremando sotto il suo tocco.
 «Passerà» assicurò il dottore. «Andrà tutto bene.» promise, accarezzandogli il capo.
 «…sono felice che tu sia qui…» ansimò Sherlock sollevando una mano, in modo che l’amico potesse stringerla.
 John sorrise dolcemente e gli accarezzò una guancia. «Anche io sono felice di averti ritrovato, Sherlock.» sussurrò, chinandosi su di lui per poggiare la fronte contro la sua. «Usciremo di qui molto presto, te lo prometto.»
 
 Sherlock gemette. Sentiva una continua e fastidiosa pulsazione alla testa, il cuore galoppargli nel petto e il respiro sempre più affannoso e rotto.
 John gli stava asciugando il petto, madido di sudore e quando lo sentì lamentarsi, sollevò lo sguardo e gli poggiò una mano sulla guancia, accarezzandola delicatamente. «Shh…»
 Il moro si lamentò e il suo corpo tremò. «John…» sussurrò.
 Il medico sorrise. «Sono qui.»
 «…puoi stringermi?» ansimò Sherlock. «…ho freddo…»
 John annuì e si sdraiò accanto a lui, accogliendolo fra le sue braccia. Avvicinò il suo corpo a quello dell’altro e fece scorrere la mano tra i suoi ricci corvini. Sentì le mani di Sherlock chiudersi intorno alla sua camicia e il suo viso affondare nell’incavo del suo collo. Intrecciò le loro gambe sperando di potergli trasmettere abbastanza calore da farlo smettere di tremare.
 «…ho paura…» ammise Holmes, in un sussurro.
 «Non devi.» sussurrò il dottore, stringendolo maggiormente a sé. «Non devi, perché io sono qui e finché sarò al tuo fianco non permetterò che ti accada nulla.» promise e lo sentì annuire contro la sua spalla.
 E rimasero stretti l’uno tra le braccia dell’altro, in attesa della notte.
 
 Il mattino seguente, l’uomo che aveva scortato John fino al capannone aprì la porta e fece scivolare sul pavimento un vassoio sul quale avevano adagiato due bicchieri d’acqua. Il medico ringraziò il cielo, dato che la sete aveva cominciato a farsi sentire. Sia lui che Sherlock erano affamati, ma dopo due giorni passati senza bere nemmeno una goccia d’acqua, reidratarsi era la priorità.
 «Sherlock?» lo chiamò John, accarezzandogli i capelli, per svegliarlo.
 Il consulente investigativo aprì gli occhi e incontrò quelli di John. Immediatamente accennò un sorriso. «Ciao…»
 Il medico sorrise a sua volta. «Ciao» gli accarezzò una guancia. «Hanno portato dell’acqua. Hai bisogno di bere o rischi di disidratarti. Che ne dici di provare a metterti seduto, mentre vado a prendere i bicchieri?»
 Il consulente investigativo annuì e quando l’amico si mise in piedi, facendo leva sulle braccia, si mise seduto sul materasso. Si portò una mano al capo e chiuse gli occhi per qualche istante per recuperare la lucidità.
 «Ecco qui.»
 La voce di John gli fece riaprire gli occhi. Il medico era in ginocchio di fronte a lui e gli stava porgendo un bicchiere. Sherlock lo prese tra le mani, leggermente tremanti a causa di giorni di digiuno, e se lo portò alle labbra, bevendo lentamente.
 John sorrise e quando l’amico ebbe finito, gli porse il secondo bicchiere.
 Holmes scosse il capo.
 «Sì, Sherlock, devi bere o ti disidraterai.»
 «Anche tu devi bere» fece notare.
 «Io non ho la febbre e non ho perso quasi un litro di sangue.» replicò Watson. «Bevi.»
 L’altro scosse il capo. «Non se prima non bevi anche tu…» insistette.
 John lo osservò per un momento, poi sospirò e annuì. «D’accordo.» concesse. «Ne bevo metà, ma l’altra metà la finisci tu, ok?»
 Il moro annuì e quando il dottore ebbe bevuto metà della sua razione d’acqua, lui finì il bicchiere, poggiandolo poi il capo contro la parete, facendo respiri profondi.
 John si inginocchiò nuovamente di fronte al consulente investigativo e poggiando due dita sul suo polso, controllò il suo battito, guardando l’orologio che portava al polso. Alla fine, avendo appurato che nonostante la ferita il battito fosse nella norma, prese posto accanto a Sherlock e gli prese la mano.
 Sherlock sorrise, tenendo gli occhi chiusi.
 «Cosa c’è?» domandò John, volgendosi verso di lui e aggrottando le sopracciglia.
 «Mi piace tenerti la mano.» sussurrò, aprendo gli occhi e puntandoli sul volto del dottore.
 Watson intrecciò le loro dita. «Anche a me piace tenere la tua.»
 Il consulente investigativo inclinò il capo a sinistra e lo poggiò sulla spalla dell’amico, chiudendo nuovamente gli occhi.
 
 Sherlock aprì gli occhi di scatto e ansimò.
 John se ne accorse e immediatamente gli accarezzò il capo. «Ehi…» sussurrò senza allentare la presa intorno al suo corpo, sdraiato accanto al suo. «Tranquillo, era solo un sogno.»
 Il consulente investigativo inspirò profondamente un paio di volte, poi annuì, stringendosi maggiormente contro l’amico. Chiuse nuovamente gli occhi, sperando che il suo corpo smettesse di tremare così violentemente, dopo quell’incubo tremendo.
 «Cosa stavi sognando?» domandò il medico, accarezzandogli i capelli. Dopo cinque giorni passati in quel capannone, quella era la prima notte in cui Sherlock si svegliava spaventato da un incubo.
 «Il nostro addio. Tre mesi fa, alla pista.» mormorò Sherlock, con voce impastata e fiato corto. «E a ciò che avrei… a ciò che avrei voluto dirti prima di partire.»
 «Riguardo al fatto che quella missione sarebbe stata fatale?» domandò John.
 Il consulente investigativo sollevò lo sguardo sul volto dell’amico, tentando di metterlo a fuoco nell’oscurità. «Come lo sai?»
 «Me lo ha detto Mycroft. Sapeva quanto fossi arrabbiato per il fatto che fossi quasi andato in overdose, così è venuto da me e mi ha spiegato perché avevi fatto una cosa del genere.» spiegò il medico. «Per questo ti ho perdonato. Perché ho capito che se tornare in Europa ti spaventava così tanto da spingerti a un gesto del genere, allora dovevi essere davvero disperato.» concluse e gli accarezzò uno zigomo con delicatezza.
 Sherlock sospirò. Disperato non era esattamente un termine adatto ad esprimere il suo stato d’animo al momento della partenza per quella missione. «Non era questo che volevo dirti.» replicò dopo un momento.
 John aggrottò le sopracciglia. «Allora cos’era?»
 «Che ti amo.» replicò Holmes e immediatamente abbassò lo sguardo. Gli aveva già confessato ciò che provava per lui, ma non in maniera così diretta. Per un momento si sentì in imbarazzò. Il sangue affluì alle guance, colorandole di un leggero rossore. Inspirò profondamente e si fece coraggio, risollevando lo sguardo. «Io ti amo, John.»
 Quelle parole furono potenti quanto un rombo di tuono in una giornata di sole, tanto che John rimase senza fiato e per un momento non seppe come replicare. «Avevi detto di aver commesso un errore. E che non avresti più provato questo tipo di sentimenti, perché non avevano fatto altro che danneggiarti.» replicò alla fine, accarezzandogli la schiena.
 Sherlock scosse il capo. «Nulla di ciò che ti riguarda è un errore o mi danneggia…» replicò con voce tremante, beandosi delle carezze dell’amico e tremando leggermente contro di lui, sentendo i brividi causati dalla febbre scuoterlo nuovamente. «L’unico errore che ho commesso è stato dirti una cosa del genere, sapendo che ti avrei ferito.»
 «Non importa.» replicò Watson. «Eri sconvolto e arrabbiato. Capisco che tu possa aver reagito così.»
 «Le mie azioni non sono giustificabili. Nulla legittimerà mai l’averti ferito, neanche la rabbia.» replicò, inspirando profondamente. «Non avrei mai voluto ferirti. Perdonami, se puoi…»
 «Ma certo che ti perdono.» disse John, accarezzandogli la fronte con le labbra e sussurrando contro la sua pelle. «Ti ho perdonato cose ben peggiori, ricordi?»
 Una risata leggera lasciò le labbra di Holmes. «Hai ragione.»
 John accennò un sorriso, poi, dopo un momento di silenzio chiese: «Come fai ad essere certo che sia amore?»
 Sherlock si allontanò leggermente da lui e puntò i suoi occhi in quelli blu del dottore. Sollevò una mano e arrivò a sfiorare le guance del dottore con le dita, quasi fosse stregato dal suo volto e dalla luminosità dei suoi occhi. Il leggero strato di barba che le ricopriva gli solleticò i polpastrelli. «Perché quando sei con me…» si interruppe per riflettere meglio su quella domanda. «Quando ti vedo tutto sembra cambiare. Il mondo sembra acquisire colore. Come se prima del tuo arrivo non avessi fatto altro che vedere ogni cosa in bianco e nero.» si interruppe, cercando le parole adatte. «Sei il mio primo pensiero quando apro gli occhi e l’ultimo prima di addormentarmi. Non riesco a non pensare a te per più di dieci secondi. Sei costantemente con me, in ogni cosa che faccio, in ogni momento e in ogni luogo.»  
 «Ma…» John esitò. «E se io non provassi lo stesso?» domandò titubante.
 Sherlock sorrise dolcemente. «Non importa che provi lo stesso.» fece notare. «Non voglio che nulla cambi tra di noi, se tu non lo vuoi. A me importa che tu sia felice.» e detto questo tornò a poggiare il capo sul petto dell’amico, chiudendo gli occhi. «Rimarrai sempre il mio migliore amico.»
 «Ma perché non me l’hai mai detto?» domandò il medico.
 «Come avrei potuto? Tu non sei gay.» dichiarò Sherlock. «E non potevo certo dirtelo prima di saltare dal tetto del Bart’s. Ti avrei spezzato il cuore. E rimanendo lontano per due anni, anche se tu non provavi lo stesso, sapevo che ti avrei legato a me, impedendoti di andare avanti. E tu dovevi andare avanti con la tua vita.» sospirò. «Ma mentre ero in missione, in quei due anni, mi ero ripromesso che una volta tornato te lo avrei fatto sapere. Non potevo più negarlo e volevo che tu sapessi la verità… che sapessi quanto eri importante per me.»
 «So di esserlo, perché anche tu sei importante per me.» replicò John. «Ma se ero così importante, perché mi hai permesso di sposare Mary?»
 Sherlock rise sommessamente. «Perché eri felice.» disse, in tono ovvio. «Quando sono tornato e ho visto quanto Mary ti avesse reso felice e quanto avesse reso migliore la tua vita, non avrei certo potuto stravolgere ogni cosa solo perché non avevo avuto il coraggio di confessarti la verità quando ne avevo avuto l’occasione. Sono egoista, John, ma non fino a questo punto e soprattutto non quando ne va della tua felicità.» sospirò «E poi Mary mi piaceva, non potevo certo farle una cosa del genere… ovviamente adesso le cose sono cambiate, ma aldilà di ciò che è successo, ero veramente felice che avessi trovato una donna come lei. Ero felice di vederti sorridere di nuovo, esattamente come la prima volta in cui ti avevo visto.»
 John sospirò e chiuse gli occhi, colpito da quelle parole.
 Dopo un lungo momento di silenzio, Sherlock parlò di nuovo. «Posso dormire ancora un po’, John?» chiese, sentendo nuovamente la stanchezza avvolgerlo, rendendo tutto indistinto, quasi lo stesse facendo galleggiare nell’aria. «Sono stanco…»
 Il medico gli accarezzò i capelli. «Ma certo. Dormi pure.»
 Sherlock annuì contro il suo petto e poco dopo scivolò nuovamente nel sonno.
 
 John era senza parole.
 Per tutto il resto della giornata, le parole di Sherlock gli vorticarono nella mente, martellando e rimbombando in ogni suo angolo, senza dargli un attimo di pace. Quando aveva parlato, poco prima, Sherlock scottava ancora, dato che la febbre non era passata del tutto, ma sembrava aver recuperato la capacità di pensare lucidamente, quindi era pienamente cosciente di ciò che stava dicendo. Inoltre gli aveva già confetto di provare qualcosa per lui settimane addietro, subito dopo la morte di Mycroft, ma non in maniera così schietta. La prima volta in cui glielo aveva fatto sapere era in preda alla rabbia, quindi poteva anche aver parlato senza pensare, ma era raro che qualcuno come Sherlock Holmes lo facesse, quindi…
 Dio… era davvero innamorato di lui. E lo era sempre stato, fin dall’inizio. Per questo era stato disposto a fingersi morto per due anni per proteggerlo da Moriarty e uccidere Magnussen. E lui non se n’era mai accorto.
 Complimenti, John Watson.
 Mentre lui pensava a flirtare con le ragazze e a rifarsi una vita, Sherlock combatteva per sopravvivere e tornare da lui. Mentre lui era impegnato a covare rabbia e rancore nei confronti di Mary, Sherlock sparava a Magnussen per assicurare a lui e sua moglie un futuro migliore.
 Sherlock aveva rinunciato a tutto per lui e John non era nemmeno riuscito a ricambiare, a fargli capire quanto fosse importante per lui.
 Stupido, si maledisse mentalmente.
 Sherlock era tutto per lui. Certo, forse non lo amava nel modo in cui Sherlock amava lui, ma ci si avvicinava molto, Greg aveva ragione. Il problema era che, probabilmente, aldilà di ciò che l’amico gli aveva detto, non sarebbe mai stato abbastanza.
 
 «Ti infastidiva?»
 Sherlock volse il capo verso John, seduto accanto a lui sul materasso. «Cosa?» domandò, aggrottando le sopracciglia.
 Il medico sospirò. «Vedermi con Mary. Vedere che le tenevo la mano o che la baciavo… vederci insieme.» 
 Holmes abbassò lo sguardo e strinse le ginocchia al petto. «A volte.» ammise, sospirando. Poi accennò un sorriso. «Ma, come ti ho già detto, il fatto di vederti così felice rendeva tutto più semplice.»
 John scosse il capo. «E sostieni di essere un sociopatico.»
 «Che vuoi dire?»
 Il medico si volse verso di lui e incrociò il suo sguardo. «La prima volta in cui abbiamo incontrato Moriarty hai detto di non avere un cuore. E il tuo mantra, di fronte a chiunque, è sempre stato quello di essere un sociopatico iperattivo, distaccato da ogni cosa, libero dalle emozioni e privo di tutti quei difetti chimici che non avrebbero fatto altro che danneggiarti. Ma quello che vedo io è ben diverso.» spiegò. «Io vedo un uomo dal cuore gentile che farebbe qualsiasi cosa per proteggere le persone che ama e che ha deciso di rimanere distaccato da ogni cosa per potersi difendere da tutto ciò che avrebbe potuto ferirlo.»
 Holmes abbassò lo sguardo.
 Per svariati minuti, il silenzio calò sulla stanza, avvolgendo entrambi.
 Poi, John ruppe la quiete per la seconda volta. «Mi dispiace tanto.»
 «Per cosa?» domandò il consulente investigativo.
 «Di non poterti dare ciò che vuoi.» rispose il dottore. I loro occhi si incontrarono nuovamente e il moro lesse in quelli del medico una tristezza profonda. «Di non provare ciò che provi tu per me… di non ricambiare come dovrei.»
 «Non sono un esperto in questo genere di cose, ma sono sicuro che qualcuno abbia detto che al cuore non si comanda. Non devi dispiacerti di nulla, non sei costretto a provare lo stesso.» replicò Sherlock. «Tu mi dai tutto ciò di cui ho bisogno: la tua amicizia. La tua sola presenza mi fa star bene. Non ti chiederei mai più di questo.»
 «Gesù, Sherlock sei-» sospirò John, ma venne interrotto dall’ingresso nella stanza di Sherrinford e dei suoi uomini.
 «Signori, che piacere rivedervi!» esclamò Sherrinford, avanzando e fermandosi di fronte a loro. «Vi trovo in forma. Anche tu, fratellino. Vedo che il buon dottore si è preso cura di te.» concluse volgendosi verso John e rivolgendogli un sorriso malizioso.
 «Vai all’inferno.» ringhiò John.
 «Dottore, così potrei offendermi.» affermò, fingendosi colpito nel vivo. Poi si volse verso suo fratello. «Ho bisogno del tuo aiuto, William. Alzati.» ordinò, indicando la porta con un cenno del capo.
 «Puoi scordarti il mio aiuto.»
 «Non sai nemmeno di cosa si tratta.» replicò il fratello, sorridendo. «Tu stesso avevi detto di voler proteggere i tuoi amici. Io voglio darti la possibilità di farlo.»
 Sherlock aggrottò le sopracciglia.
 «Il tuo amico Lestrade continua a chiamare sia te che il dottor Watson da giorni. Non vorrei che il vostro silenzio lo insospettisse, altrimenti il gioco non sarebbe più così divertente.» spiegò. «Quindi voglio che tu adesso venga con me, che lo chiami e che gli assicuri che tu e John siete insieme e che va tutto bene.»
 Il fratello lo osservò per qualche secondo. «No.»
 «Sicuro?» chiese Sherrinford, aggrottando le sopracciglia. «Ti avverto, i miei uomini muoiono dalla voglia di usare le loro pistole. E il dottor Watson si trova proprio nella traiettoria dei proiettili. Non vorremo che accada qualche spiacevole incidente, non è così?» non ebbe il tempo di concludere la frase, che i due scimmioni avevano già estratto le pistole e le avevano puntate contro il medico.
 Sherlock si irrigidì. «No, fermo! Vengo con te, farò quello che vuoi.»
 Sherrinford sorrise sornione. «Scelta saggia.» concluse. Poi si volse verso i suoi uomini e con un cenno indicò il consulente investigativo. «Aiutatelo a mettersi in piedi.»
 I due uomini avanzarono.
 «No» si oppose John, scattando in piedi, parandosi davanti all’amico con fare protettivo. «Non vi permetto di portarlo via.»
 «Va tutto bene, John.» assicurò Sherlock, mettendosi in piedi lentamente e affiancandolo. Gli poggiò una mano sulla spalla e cercò il suo sguardo. «Non preoccuparti. Non mi faranno del male. Hanno bisogno di noi.» sussurrò.
 «Sherlock sarà di ritorno entro venti minuti, dottore.» assicurò Sherrinford, sorridendo. «Non si preoccupi per la sua incolumità, non gli farei mai del male. Non in sua assenza.» detto questo, indicò la porta a Sherlock e facendogli cenno di precederlo, uscirono dalla stanza.
 
 «Lestrade»
 La voce di Greg raggiunse le orecchie di Sherlock, meno squillante del solito, incrinata da una nota di preoccupazione.
 «Sono io.» disse il consulente investigativo.
 «Sherlock, grazie a Dio, mi hai fatto preoccupare! Non sai quanto sia felice di sentirti.» esclamò l’Ispettore. «Ma dove sei finito? E perché non rispondi al cellulare? Stai bene?»
 Sherlock poté sentire la canna della pistola accarezzargli la tempia come monito ad agire con saggezza. «Con calma, una domanda alla volta.» disse Holmes, in tono stranamente calmo, sperando che l’amico, dall’altro capo, riuscisse a cogliere qualcosa di strano in quella conversazione. «Ero andato fuori città per delle indagini e l’ho perso.» mentì.
 «E non potevi chiamarmi da una cabina? O con un telefono usa e getta? Per l’amor del cielo, ero preoccupato per te! E anche John lo era.» disse l’altro, sospirando. «A proposito: l’hai chiamato? È lì con te?»
 «Sì.» confermò. «John è qui con me e anche lui sta bene.»
 Sherlock poté sentire l’Ispettore esitare.
 «Sherlock, sei sicuro che vada tutto bene?» chiese, preoccupato.
 «Sì.» rispose Sherlock. «Va tutto bene, Greg.»
 Silenzio.
 «Ok.» concluse Greg e Sherlock poté sentire, in sottofondo, il rumore di una tastiera e delle voci sommesse. «Dimmi dove siete, vengo a prendervi.»
 Sherrinford fece scattare il cane della pistola, per invogliarlo a chiudere la chiamata e Sherlock pregò che Lestrade avesse sentito tutto e fosse già riuscito a rintracciare la cella telefonica a cui il cellulare si era agganciato per quella telefonata.
 «Scusa, adesso devo andare.» si affrettò a dire. «Mi farò vivo io.»
 Sherrinford gli strappò immediatamente il cellulare dell’orecchio e chiuse la chiamata. Poi si avvicinò e prendendolo per la collottola lo fece alzare dalla sedia, sbattendolo contro la parete.
 Sherlock gemette, sentendo una fitta di dolore attraversargli il capo e la schiena.
 «Piccolo bastardo.» ringhiò il fratellastro, circondandogli il collo con una mano e puntandogli la pistola alla tempia con forza. «Credi che non sappia a che gioco stai giocando?»
 «Non so di cosa parli…» bofonchiò il consulente investigativo, con voce strozzata, chiudendo le mani intorno al braccio del fratello, per tentare di allontanarlo.
 «Credi che non sappia che in tutta la tua vita tu non abbia mai azzeccato il nome dell’Ispettore Lestrade?» ringhiò, sbattendolo violentemente contro la parete una seconda volta. Poi lo lasciò andare e lo colpì al volto con il calcio della pistola. «In questo modo credi davvero che capirà che qualcosa non va? È il più inetto tra i poliziotti di Scotland Yard. Non capirà mai dove ci troviamo.» sibilò, furioso, poi lo sollevò, prendendolo per i capelli. Dopo aver riposto la pistola nella cintura, gli sferrò un pugno così potente da tagliargli il labbro superiore e la guancia. Inspirò profondamente per calmarsi, poi riprese. «In ogni caso, anche se dovesse trovarci, sapremmo come accoglierlo.» concluse ghignando, poi si volse verso i suoi uomini e indicò Sherlock. «Portatelo via.»
 
 Quando la porta si riaprì, John sollevò lo sguardo di scatto, appena in tempo per vedere gli uomini di Sherrinford gettare Sherlock all’interno della stanza e richiudere la porta.
 L’uomo cadde su un fianco, gemendo. Poi, facendo leva sulle braccia, a fatica tentò di alzarsi da terra.
 «Sherlock!» esclamò John, mettendosi in piedi e raggiungendolo. Si inginocchiò al suo fianco e gli poggiò una mano sulla spalla. Quando l’amico sollevò lo sguardo, il medico raggelò. Aveva il viso coperto di sangue: due lunghi tagli gli percorrevano il volto, uno lungo il sopracciglio destro e l’altro lungo la guancia sinistra fino ad arrivare al labbro superiore. «Gesù, cosa ti ha fatto?» domandò, più a se stesso che all’amico. «Vieni, siediti sul materasso, così posso controllare le ferite.» e detto questo lo aiutò a mettersi in piedi e a raggiungere il materasso, dove lo fece sedere.
 Strappò un lembo della sciarpa che Sherlock aveva utilizzato come cuscino nei giorni precedenti, lo intinse in uno dei bicchieri d’acqua che i collaboratori di Sherrinford avevano portato poco prima del ritorno del consulente investigativo e cominciò a pulire il viso di Sherlock.
 «Cos’è successo?» domandò, controllando i tagli, che nonostante stessero sanguinando copiosamente, non sembravano essere profondi.
 «Mi hanno fatto telefonare a Lestrade per fare in modo che interrompesse le sue ricerche.» spiegò e una smorfia di dolore si dipinse sul suo volto quando una fitta gli attraversò il labbro. «Ma Lestrade ha capito che qualcosa non andava e quando io gliene ho dato conferma, Sherrinford si è infuriato.»
 «Dio, Sherlock…» sfuggì a John, scuotendo il capo. «Ma cosa ti è saltato in mente?»
 «Volevo che Lestrade sapesse dove ci troviamo e…» si interruppe e chiuse gli occhi per qualche secondo, inspirando profondamente. Si portò una mano alla fronte.
 John sollevò lo sguardo e aggrottò le sopracciglia. «Cosa c’è?»
 «Mi gira la testa…» bofonchiò l’altro e un ansito gli sfuggì dalle labbra.
 «Sdraiati sulla schiena.» disse il medico. Portò una mano dietro il collo dell’amico e poggiò l’altra sul suo petto, facendolo sdraiare sul materasso. Una volta che il moro fu in posizione supina, John si mise in piedi e gli sollevò le gambe.
 «Va meglio?»
 Sherlock inspirò profondamente e aprì gli occhi. «Sì, grazie.»
 John annuì, abbassò le gambe dell’amico e riprese a controllare le ferite alla testa, pulendole con il lembo di sciarpa intinto nell’acqua. Non aveva modo di disinfettarle o suturarle, quindi si sarebbe dovuto premurare di mantenerle pulite. Poi passò al capo, pulendo la ferita che correva parallela al sopracciglio.
 «Sei stato un incosciente. Non avresti dovuto esporti così tanto con tuo fratello. Non sai fino dove potrebbe spingersi.» disse il medico, rompendo nuovamente il silenzio.
 «Cosa avrei dovuto fare? Mentire a Lestrade senza tentare di fargli capire che siamo nei guai?» chiese. «Dovevo trovare un modo per farci uscire di qui.»
 «Non puoi lasciare che per una volta siano gli altri a risolvere la situazione?» chiese. «Per una maledetta volta, ti prego, lascia che siano gli altri ad aiutare te. Non potrai avere sempre la soluzione a tutto. E prima o poi questo atteggiamento ti costerà la vita.»
 «L’ho fatto per riuscire a uscire di qui.» protestò Sherlock.
 «Lo so.»
 «Allora perché ti comporti così?» domandò il consulente investigativo, mettendosi seduto. «Tu avresti fatto lo stesso se fosse servito a far uscire vivo di qui almeno uno di noi. E io voglio che tu esca vivo di qui.»
 «Vuoi sapere perché mi comporto così? Forse è perché vuoi sempre fare l’eroe e sembra che non ti importi nulla della tua vita, tanto da compiere azioni che la mettono in pericolo praticamente ogni giorno da quando ci siamo conosciuti.» esplose John, in tono duro. Poi sospirò e scosse il capo. «Io non voglio perderti, Sherlock. Non posso perderti.»
 «Secondo te perché faccio queste cose? Credi davvero che sia perché mi piace mettere a rischio la mia vita?» chiese Sherlock, aggrottando le sopracciglia. «Saltare da quel tetto, uccidere Magnussen, tentare di fronteggiare Sherrinford… sai qual è il denominatore comune in tutto questo?»
 John rimase in silenzio, in attesa.
 «Tu» rispose il consulente investigativo. «Sei sempre tu, John Watson.» il suo sguardo si addolcì e una vena di tristezza gli attraversò gli occhi. «E tutto perché, proprio come hai detto tu, non posso perderti. Moriarty e Magnussen avevano minacciato di farti del male e io non potevo permettere loro di farlo, esattamente come non posso permetterlo a Sherrinford. Preferisco di gran lunga morire, piuttosto che vivere in un mondo in cui tu non ci sei.»
 Gli occhi di Watson si spalancarono e per un momento, smise addirittura di respirare. Quelle parole erano state come un pugno nello stomaco, ma allo stesso tempo gli avevano scaldato il cuore più di qualsiasi altra dichiarazione mai ricevuta. John sospirò, poi gli poggiò una mano sulla guancia e, tirandolo verso di sé, poggiò la fronte contro quella dell’amico, chiudendo gli occhi. Sentì la mano di Sherlock chiudersi intorno al suo polso.
 «Oh, Sherlock…» sussurrò il dottore.
 Entrambi sospirarono a quel contatto così intimo e carico di tenerezza. Quando si allontanarono, i loro occhi si incatenarono gli uni agli altri per un lungo istante, poi, quasi inconsapevolmente, John si mosse in avanti, avvicinando le labbra a quelle dell’altro. Quando furono così vicine da respirare la stessa aria, però, Sherlock parlò.
 «Pensaci bene, John» gli soffiò sulla bocca, avendo intuito ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. «È davvero quello che vuoi?»
 Watson rimase immobile per qualche secondo, spostando gli occhi da quelli di Sherlock, alle sue labbra. Poi serrò la bocca, chiudendo gli occhi. Volse il capo e poggiò la tempia contro quella di Holmes. «Scusami.» sussurrò soltanto, cingendogli il petto con un braccio.
 
 Sherlock e John erano sdraiati sul materasso, su un fianco, dandosi la schiena. La notte era scesa da qualche ora e i due si erano concessi qualche ora di sonno – considerando che erano giorni che non riposavano più di due ore di seguito – rimanendo però vigili, nel caso in cui qualcuno fosse entrato.
 Per questo quando Sherlock cominciò a singhiozzare, John se ne accorse immediatamente.
 Il medico aprì gli occhi di scatto e si voltò. Sbatté più volte le palpebre e quando ebbe messo a fuoco il corpo dell’amico, vide che stava tremando. Sentì una fitta al cuore, così si mise seduto e poggiò una mano sulla spalla di Sherlock, mentre con l’altra gli accarezzava i capelli tentando di calmarlo.
 «Shh…» sussurrò. «Shh… va tutto bene. Tranquillo, va tutto bene.»
 Un singhiozzo lasciò le labbra del consulente investigativo e fu così potente da scuotere il suo corpo. Si portò le mani al volto, coprendolo, per nascondere le lacrime che gli avevano rigato le guance.
 «Senti dolore?» chiese il dottore, non riuscendo a capire perché l’amico fosse crollato in quel modo. Sherlock scosse il capo e John aggrottò le sopracciglia, confuso.
 «È morto…» mormorò il consulente investigativo, con voce impastata dalle lacrime, scuotendo il capo. «L’ho perso… Mycroft è morto… è morto… non tornerà più…»
 Watson chiuse gli occhi, sentendo una stretta al cuore, e dopo un momento passato in silenzio, accarezzò il viso dell’amico con delicatezza. «Mi dispiace tanto, Sherlock»
 Sherlock singhiozzò.
 A quel punto il medico lo tirò a sé e facendolo voltare verso di sé lo abbracciò, stringendolo contro il suo petto e accarezzandogli i capelli. Prese a cullarlo dolcemente avanti e indietro, sussurrando parole dolci per calmarlo.
 «Sono qui.» sussurrò John. «Sono qui, Sherlock.»
 Il consulente investigativo si aggrappò alla giacca dell’amico, affondando il viso nell’incavo del suo collo. «Ho bisogno di lui… non può lasciarmi… non può… deve tornare…» balbettò.
 Il medico sospirò e gli scoccò un bacio sulla fronte, non sapendo cosa dire di fronte a quelle lacrime e a quelle parole così cariche di sofferenza. Continuò a tenerlo stretto a sé e cullarlo fino a che non si fu calmato.
 Sherlock ansimò. «È come se avessi un buco nel petto e non riuscissi a respirare.» sussurrò dopo alcuni minuti di silenzio, passati con il capo poggiato contro il petto del medico. «Fa male e non smette… ti prego, fallo smettere… voglio dimenticare… voglio che il dolore se ne vada…»  
 «Vorrei poterlo fare, Sherlock, ma sai bene che non è possibile.» replicò. «E dimenticare non servirà a nulla, anzi farà ancora più male. Lascia che ti faccia male, piangi e grida, ma non spingerti a dimenticare, perché quando il dolore tornerà sarà ancora più potente di prima.»
 Sherlock sollevò leggermente il capo e incontrò gli occhi dell’amico. «Mi manca, John.» ammise. «Mi manca così tanto…» la frase si dissolse in singhiozzi e quando affondò il viso nell’incavo del collo di Watson, aggrappandosi alle sue spalle, John lo strinse nuovamente a sé.
 
 Sherlock si riaddormentò quasi un’ora più tardi.
 John – essendosi accorto che la febbre era salita di nuovo e che probabilmente era il motivo per cui aveva avuto quella reazione – l’aveva fatto sdraiare sul materasso e, tenendogli la mano, gli aveva accarezzato il petto a lungo, rassicurandolo con parole dolci e sorrisi accennati, fino a che non era caduto nuovamente in un sonno profondo e tormentato dalla febbre.
 Il medico scosse il capo, sospirando. A prova del fatto che quella situazione sarebbe stata insostenibile per chiunque, c’era il fatto che anche Sherlock, dopo essere stato preso in giro da Sherrinford, aver perso Mycroft e dopo giorni prigionia, fosse crollato. Tutto era diventato troppo per lui. E, in aggiunta, il suo migliore amico gli aveva anche sbattuto in faccia che tra loro non ci sarebbe mai potuto essere niente più che un’amicizia, perché lui non provava nient’altro che non fosse affetto nei suoi confronti. E si era sentito così male nel farlo, che in quel momento avrebbe potuto scommette qualsiasi cosa che quella famosa voragine che Sherlock sentiva nel petto fosse anche, in parte, causa sua.
 Come aveva potuto ignorare i sentimenti di Sherlock per così tanto tempo? Come aveva potuto chiedergli di fargli da testimone e pretendere che lo aiutasse a preparare il suo matrimonio con un’altra donna? Come aveva potuto essere così crudele e cieco di fronte all’evidenza?
 Se avesse capito, se fosse stato in grado di amarlo, probabilmente non sarebbero mai arrivati fino a quel punto. Non avrebbe mai sposato Mary, Sherlock non sarebbe stato costretto a sparare a Magnussen e non sarebbe dovuto partire per quella maledetta missione rischiando un’overdose e forse non sarebbe stato così disarmato e privo di protezioni di fronte all’attacco di Sherrinford.
 Sollevò lo sguardo sul volto di Sherlock, pallido, scavato e completamente immerso nel sonno. Fece scorrere le dita sul suo zigomo, accarezzando la sua pelle nivea, costellata di cicatrici e segnata dopo giorni di prigionia. Sospirò e poi si chinò in avanti per poggiare la fronte contro quella dell’amico, accarezzandogli i capelli.
 Il giorno precedente era stato sul punto di baciarlo e se Sherlock non l’avesse fermato, probabilmente il dottore l’avrebbe fatto, con l’unico risultato di ferire il suo migliore amico e di farlo andare in pezzi, più di quanto non lo fosse già. Eppure in quel momento, quand’erano stati così vicini, aveva sentito qualcosa di diverso, come una sorta di calore che si allargava nel petto e che l’aveva fatto sentire bene dopo mesi di agonia. E anche se si era fermato, resosi conto che quelli non erano né il momento né il luogo adatti per baciare Sherlock, avrebbe tanto voluto farlo. Per un momento si era ritrovato a desiderare di provare a poggiare le labbra su quelle del suo migliore amico, per conoscerne il sapore e la consistenza, per capire ciò che avrebbe provato, per sapere se davvero sarebbe stato impossibile provare gli stessi sentimenti che Sherlock provava per lui. Ma non l’aveva fatto.
 Quando si allontanò dall’amico gli poggiò un delicato bacio sulla fronte, poi, senza lasciare la sua mano, si sdraiò accanto a lui e chiuse gli occhi, addormentandosi a sua volta poco dopo.
 
 Quando John aprì gli occhi, la prima cosa che vide furono gli occhi di Sherlock, blu come il cielo d’estate, a pochi centimetri dai suoi, che lo stavano osservando.
 Il consulente investigativo abbozzò un sorriso. «Ciao» salutò.
 John ricambiò il sorriso. «Ciao» sussurrò. Poi portò una mano alla fronte dell’amico per controllare la temperatura. «La febbre è scesa. Non è ancora passata del tutto, ma sta decisamente migliorando.»
 Holmes annuì, poi abbassò lo sguardo. «Mi dispiace per stanotte.»
 «Non devi dispiacerti.» replicò il dottore, poi fece scivolare la mano sul fianco dell’amico, accarezzandolo delicatamente e cercando il suo sguardo. «Ehi, Sherlock, guardami.» lo richiamò e quando il moro risollevò lo sguardo su di lui, John accennò un sorriso e riprese. «Non c’è nulla per cui tu debba vergognarti o dispiacerti. Va tutto bene, te lo assicuro.»
 «È solo che…» si interruppe, scuotendo il capo. «Non so cosa mi stia succedendo. Continuo a crollare quando non dovrei. E mi sento così strano. Non riesco più a…»
 «Ehi, ehi…» lo bloccò John, vedendo che aveva preso ad ansimare. «È perfettamente normale reagire così dopo quello che hai passato nell’ultimo periodo. Ci vorrà un po’ per riprendersi, ma vedrai che tutto tornerà alla normalità.» assicurò e gli accarezzò il petto.
 Sherlock abbassò lo sguardo.
 «Puoi avvicinarti, se vuoi.» disse John, vedendo che l’amico si era impercettibile allontanato da lui. «Siamo rimasti abbracciati per giorni a causa del freddo, possiamo continuare a farlo.»
 Il consulente investigativo risollevò lo sguardo e poi si mosse verso l’amico, cingendogli il petto con le braccia e affondando il viso nella sua spalla. Le loro gambe si intrecciarono e poté sentire le labbra di John poggiarsi delicatamente sui suoi capelli.
 
 Il decimo giorno la porta della stanza si spalancò di colpo, sbattendo contro il muro e i due uomini di Sherrinford, armati di pistola, entrarono con passo spedito. John e Sherlock erano seduti sul materasso, uno accanto all’altro, e quando i due si avvicinarono, sollevarono il capo.
 Uno dei due uomini rivolse un cenno del capo al medico. «Dottor Watson, venga con noi.» disse con voce roca, tenendo una mano sulla pistola, appesa alla cintura.
 Il medico aggrottò le sopracciglia. «Dove?»
 «Venga con noi.» ripeté l’altro, con voce ferma, prendendolo per un braccio per costringerlo a mettersi in piedi e a seguirli.
 Sherlock scattò. «No»
 Watson oppose resistenza, sottraendosi alla presa dell’uomo e tornando ad affiancare l’amico. Osservò attentamente i due, valutando la situazione. Metterli al tappeto era escluso, non con Sherlock così esposto: avrebbero anche potuto sparagli, se avesse provato a ribellarsi e non poteva rischiare tanto.
 I due, quasi gli avessero letto nel pensiero, presero le pistole e le puntarono contro Holmes, pronti a fare fuoco. «Non ci costringa ad usarle.»
 Watson ansimò, parandosi davanti all’amico. «D’accordo. Calma. Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Datemi solo un momento.» li pregò, poi si voltò verso Sherlock e inginocchiandosi di fronte a lui, gli prese il volto fra le mani, sentendo il cuore accelerare all’idea che lo avrebbe allontanato da lui. «Devo andare con loro, Sherlock.»
 «Posso farlo io. Possono avere me.» replicò il consulente investigativo, tentando di mettersi in piedi. «Non posso permettere che ti facciano del male.»
 John gli poggiò le mani sulle spalle e lo rimise a sedere. «No. Vogliono me, perciò tu rimani qui.» disse con voce ferma. «E poi l’hai detto anche tu: non ci uccideranno, hanno bisogno di noi.»
 Holmes scosse il capo. «John…» fu quasi una preghiera. Poi gli circondò i polsi con le mani, sentendo il dolore al capo tornare improvvisamente. «Se mi lasci qui non posso proteggerti… devo proteggerti, non posso permettere…» una smorfia di dolore gli attraversò il viso e fu costretto a interrompersi e chiudere gli occhi.
 «Shh… non succederà nulla.» disse l’altro, poggiando la fronte contro la sua. «Lascia che questa volta sia io a proteggerti. L’ho promesso a Mycroft e ho intenzione di mantenere la promessa.» sussurrò, accarezzandogli le guance.
 «Non posso perderti.» sussurrò il moro. «Non fare nulla di stupido.»
 A Watson sfuggì una risata leggera. «Senti chi parla.» replicò. Poi sospirò e abbassò la voce e sua volta. «Non mi perderai, te lo prometto. Usciremo di qui e torneremo a Baker Street, insieme. Saremo di nuovo io e te contro il resto del mondo.» concluse e sentendolo singhiozzare, provò una fitta allo stomaco, desideroso di poter fare qualcosa per rassicurarlo e calmarlo.
 Perciò fece l’unica cosa che gli venne in mente: si mosse in avanti e poggiò le labbra su quelle di Sherlock, baciandolo dolcemente, sentendo l’amico ricambiare dopo un momento di esitazione. Quando si separarono, accarezzò il naso di Holmes con il proprio, portando nuovamente le labbra su quelle dell’amico.
 «La polizia sarà qui molto presto.» gli soffiò sulla bocca, perché gli uomini di Sherrinford non potessero sentirlo. Chiuse nuovamente la bocca su quella di lui, accarezzando e succhiando il suo labbro inferiore. «Resisti e andrà tutto bene.»
 «John…» fu tutto quello che Sherlock riuscì a mormorare.
 «Ora basta, ha avuto anche fin troppo tempo.» disse uno dei due uomini. Poi, senza attendere oltre, entrambi lo afferrarono per le braccia e lo allontanarono da Holmes. «Andiamo.» ringhiarono, trascinandolo verso la porta.
 John, prima di uscire, si voltò un’ultima volta verso Sherlock. «Sherlock, andrà tutto bene.» disse con un sorriso rassicurante.
 E la porta si richiuse.
 
 Quattro ore.
 Erano passate quattro ore, da quando John era stato portato via dagli uomini di Sherrinford.
 I minuti erano trascorsi lenti, pesanti come macigni. E man mano che la consapevolezza che il suo fratellastro non gli avrebbe più restituito John si faceva strada in Sherlock, l’uomo poté sentire il suo cuore andare in pezzi, sgretolandosi a quella consapevolezza, troppo dolorosa per essere sopportata.
 Sapeva che Sherrinford l’aveva portato lì per fargliela pagare, ma solo in quel momento realizzò che il piano del suo fratellastro non era mia stato uccidere lui. Sarebbe stato tutto troppo semplice e definitivo.
 No, Sherrinford non l’avrebbe mai ucciso, nemmeno alla fine.
 L’avrebbe lasciato in vita, togliendogli tutto ciò che di più caro aveva al mondo, perché quella sarebbe stata una punizione migliore.
 Per questo aveva ucciso Mycroft.
 Per questo aveva preso John.
 Sentì la rabbia montare dentro di lui e scorrergli nel sangue come veleno.
 Se fosse riuscito a uscire di lì e se Sherrinford avesse veramente fatto del male a John, lui l’avrebbe ucciso e lo avrebbe fatto lentamente, facendolo soffrire così tanto che avrebbe rimpianto il girono in cui aveva deciso di mettersi contro di lui, portandogli via il suo cuore. 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! Come state? ;)
Dopo questo weekend di pausa, rieccomi qui con il terzo capitolo, che alcuni di voi stavano attendendo con impazienza! ;) È molto fitto e denso di avvenimenti, ma ho preferito raggrupparli in un unico capitolo perché per una volta avrei voluto tentare di scrivere una storia che non superasse i dieci capitoli. :) Spero che il capitolo vi sia piaciuto comunque.
A Mercoledì con il prossimo, bacioni…
Eli♥
 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: xX__Eli_Sev__Xx