Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: TheSlavicShadow    01/03/2016    1 recensioni
Quando all'improvviso decidi di prendere in mano le redini del tuo destino e ci sono delle scelte da compiere.
{JeanMarco; sequel di "Three Days Till..."}
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Three Days'
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Era un soleggiato mercoledì mattina quando Marco Bodt aveva messo piede all'aeroporto “Charles De Gaulle”. Non aveva le idee molto chiare su come agire. Non aveva neppure pensato alle conseguenze che quel gesto poteva provocare, ma per una volta non gli importava. Era solito ponderare bene su ogni propria parola, su ogni sua mossa. Se non aveva pensato e ripensato più volte a quali potevano essere le conseguenze delle sue azioni di solito non faceva nulla.

Questa volta, non ci aveva pensato molto.

Aveva passato il lunedì, il giorno subito dopo le non nozze, dopo aver smaltito la sbronza assieme ad Annie e altri loro amici che neppure ricordava di aver invitato a casa, a scusarsi con i genitori di lei. Non erano contenti. George Leonhart voleva anche fargli causa perché aveva rovinato la sua reputazione di fronte a tutti gli invitati. Ne erano seguite delle parole poco carine, a cui Marco aveva inarcato un sopracciglio e Annie aveva preso le sue difese, ricordando al padre che se lo insultava per il suo orientamento sessuale poteva essere Marco a denunciarlo per discriminazione. Quelle parole da parte della figlia probabilmente lo avevano solo fatto infuriare ancora di più, visto il modo in cui aveva iniziato ad urlare contro ad entrambi. Marco non era uno stupido e si rendeva perfettamente conto di ciò che aveva fatto. Si rendeva anche conto di aver fatto coming out di fronte a tutti gli invitati, Dio compreso.

Il pastore Nick – amico della famiglia Leonhart – aveva telefonato quella mattina per accusarlo del peccato che aveva commesso, cercando di convincerlo a salvare la sua anima in qualche modo. Marco, fedele alla sua educazione lo aveva lasciato parlare, non ascoltando quasi nulla della predica che stava avvenendo attraverso quello strumento demoniaco quale era il telefono. Quando captava qualche parola del prete, riusciva solo a cercare di non ridere mentre gli venivano in mente le parole di quella canzone che spesso sentiva in radio. “Take me to church” risuonava nelle sue orecchie e quando poi ne aveva parlato con Annie, mentre andavano dai suoi genitori, questa gli aveva chiesto se gli avesse citato almeno un verso. Era tentato, le aveva ammesso, ma non voleva dargli ulteriori motivi per avercela con lui.

Annie era stata una santa. Si comportava come se non fosse successo quasi nulla, e davvero tra loro non era cambiato nulla. Tranne il titolo che li legava. Quel lunedì mattina, quando aveva tutte le ragioni del mondo per odiarlo, lei aveva preparato la colazione per tutti i presenti. Aveva sopportato le battute di cattivo gusto di Reiner e Connie. Non aveva protestato quando Sasha aveva quasi svuotato la dispensa. E li aveva mandati via solo perché nel pomeriggio avevano un impegno.

Forse quello era anche il suo modo di affrontare la situazione.

Gli erano tornate in mente le parole di Jean. Quando, in piedi davanti al suo letto, gli aveva fatto presente il suo errore. Quanto un tradimento potesse ferire. E avrebbe voluto parlarne con Annie, avrebbe voluto scusarsi. Ma non aveva parole per giustificare ciò che aveva fatto.

Se tradisci vuol dire che non ami. Questo lo aveva visto fin troppe volte al lavoro.

E lui aveva tradito Annie nel peggiore dei modi. Non amandola mai come avrebbe voluto e dovuto, sempre intrappolato dai fantasmi del proprio passato. E si odiava per questo motivo.

Quel mercoledì mattina lo aveva accompagnato lei all'aeroporto, e lei stessa gli aveva prenotato un biglietto per Parigi. Avrebbe potuto tranquillamente prendere i mezzi pubblici, ma Annie voleva essere sicura che salisse su quell'aereo. Perché gli aveva detto che almeno voleva che la figura di merda che le aveva fatto fare di fronte a tutti fosse servita a qualcosa. E conoscendo il suo carattere poco incline ad essere impulsivo, aveva dovuto dargli una mano.

Marco non le sarebbe mai stato abbastanza grato, e aveva sorriso quando lei gli aveva detto, mentre lo salutava in aeroporto, che aveva intenzione di invitare Armin a cena a casa loro. Aveva abbassato un po' lo sguardo e il moro era sicuro di averla vista arrossire. Le aveva solo sorriso, mentre la stringeva forte a sé, e alla fine le augurava buona fortuna.

 

✵✵✵

 

All'aeroporto “Charles de Gaulle” ad aspettarlo c'era sua sorella maggiore, Ymir. L'unica sua complice da quando era nato. L'essere più spietato e crudele che lui avesse mai incontrato, ma che con lui era sempre dolce e protettiva.

“Ohi, fratellino!” Il ghigno stampato sul volto della mora gli aveva fatto subito venire voglia di fare dietro front e prendere il primo aereo per Londra. Sapeva che non prometteva nulla di buono e quasi si pentiva di averle annunciato il proprio arrivo. Doveva prenotare una camera da qualche parte, e non accettare l'ospitalità della sorella.

“Ti vedo sempre solare, Ymir.” Aveva scosso la testa, prima di venire inglobato dalle braccia della sorella. Ricordava quando lei era molto più alta di lui, e lo stringeva dolcemente, soprattutto la notte quando dormivano insieme. Ymir continuava ad essere abbastanza alta per una donna, ma lui aveva superato il metro e 80 da diverso tempo.

“Si, mi sono appena alzata. Sono stata in piedi tutta la notte.”

Marco aveva nuovamente scosso la testa. Ymir si era laureata in Lettere. I suoi genitori sognavano per lei la carriera accademica, da bravi insegnanti quali erano. Solo che lei aveva scelto una via alternativa per mettere in uso la propria laurea, decidendo di scrivere.

“Il tuo povero editore ha dovuto controllarti, no?”

La donna aveva sbuffato. “La scadenza non è ancora vicina. Lavoro meglio quando sono sotto pressione da “maledetta stronza come hai fatto a perdere tanto tempo così? Ora scrivi fino alla morte”. E il caffè non mi aiuta più a restare sveglia.”

“Ne hai abusato troppo quando eri all'università.” Marco aveva ridacchiato, mentre con la donna andava verso la sua macchina.

“Detto da te! Ricordo quando litigavamo per l'ultimo granello di nettare degli dei che rimaneva in casa!”

“Avevo anch'io degli esami da preparare. Ci tenevo a finire tutto in tempo.”

La donna aveva messo in moto la macchina, uscendo dal parcheggio dell'aeroporto per immettersi nel traffico che li avrebbe condotti verso la capitale. Avevano passato i primi minuti del viaggio in silenzio, Marco guardava fuori dal finestrino e Ymir fischiettava in modo bassissimo una canzone che stavano trasmettendo in radio. Era da diverso tempo che non tornava in Francia, sempre con la scusa del lavoro. E anche con la sorella aveva avuto meno contatti rispetto ai primi tempi in cui se ne era andato a Londra. Lei aveva ritmi di vita che lui faticava a capire, e lui di solito dormiva nelle ore in cui lei era sveglia.

“Non ho detto a mamma e papà che saresti venuto a casa. Sono ancora infuriati.” Si era di nuovo zittita, come se stesse riflettendo su qualcosa. “Oh, sono arrabbiati anche con me perché sono venuta a divertirmi al tuo non matrimonio. Festa indimenticabile.”

“Soprattutto per te.” Marco l'aveva guardata inarcando un sopracciglio. “Avevi detto che me ne avresti parlato una volta a Parigi. E come facevi ad essere sicura che sarei venuto?”

“Perché ti conosco.” Il suo tono si era fatto serio mentre teneva gli occhi puntati sulla strada. “Sapevo che non avresti lasciato perdere, solo non sapevo esattamente quando saresti arrivato. Devo dire che mi hai molto stupito arrivando subito.”

“Annie. Ha prenotato lei l'aereo.” Il moro si era passato una mano tra i capelli, guardando di nuovo fuori dal finestrino. “Fosse stato per me sarei ancora al sicuro nella mia camera a fissare il soffitto cercando di capire quale sia il modo giusto di agire.”

“Gli hai telefonato?”

Marco aveva scosso la testa, certo che la donna avrebbe notato con la coda dell'occhio il movimento.

“Oh Marco! Sei un idiota!” Ymir aveva sbattuto un pugno contro il volante, pregando poi Dio di non aver colpito l'airbag. “Cosa sei venuto a fare a Parigi se lui non sa che sei a Parigi? Vuoi visitare la Tour Eiffel? Les Champs-Élysées? Jardin des Tuileries e Place de la Concorde?”

“Non saprei cosa dirgli. Non ci siamo lasciati propriamente in modi amichevoli neppure stavolta.”

“Però hai piantato Annie all'altare, davanti a tutti gli invitati, per lui.”

Marco si era passato una mano tra i capelli, non guardando la sorella. “Sono qui più per Annie che per altro, Ymir. Dopo quello che le ho fatto, questo glielo devo. Anche se non ho idea di come presentarmi davanti a lui. Cosa dirgli. Cosa fare. Non gli posso solo dire “Ciao, come stai? Sono venuto a farti una sorpresa”. Mi sputerebbe in un occhio e avrebbe tutte le ragioni del mondo per farlo.”

Ymir aveva sospirato, continuando a guidare di nuovo in silenzio. Probabilmente anche lei, come Marco, cercava le cose giuste da dire. Solo che non sembravano esserci parole.

“Mamma è incazzata come una iena. E papà è sconvolto dall'avere un figlio finocchio. Testuali parole, se te lo stai chiedendo. Ti posso assicurare che il viaggio di ritorno è stato un inferno e mi devi almeno una sbronza per dimenticare l'accaduto.”

Aveva portato la macchina al parcheggio sotterraneo del complesso in cui abitava. Marco non le aveva mai chiesto esattamente quanti soldi guadagnasse e sotto quanti pseudonimi scrivesse. Era sicuro che oltre al suo vero nome avesse anche un nome finto, perché ricordava che da giovane aveva passato più e più notti a leggere racconti al limite della decenza scritti da lei. Ficwriter si definiva all'epoca delle superiori.

“E tu mi devi delle spiegazioni, che mi hai promesso una volta che fossi venuto a Parigi.”

Ymir aveva ghignato scendendo dalla macchina, lasciando una nota di suspance che a Marco non era piaciuta.

 

✵✵✵

 

Una cosa che di Ymir non era mai cambiata era il caos primordiale in cui viveva. Ricordava ancora la sua stanza, nella casa dei loro genitori, in cui si faticava ad entrare. E le teorie di Ymir sul fatto che gli artisti avessero bisogno di sfogare il loro io anche non mettendo mai le cose al proprio posto.

Teoria simile a quella che Jean gli aveva spesso ripetuto, per lo stesso motivo.

Aveva appoggiato il proprio bagaglio vicino al divano, sedendosi subito su di esso mentre Ymir preparava il caffè. Il caffè era sempre un must tra di loro. Un tacito accordo di lunga amicizia, oltre alla fratellanza che li univa. Anche se non avrebbe dovuto avere preferenze, Ymir era quella che preferiva tra i loro fratelli. Per qualche tempo erano stati solo loro due. E il fatto di non avere neppure un anno e mezzo di differenza li aveva resi ancora più uniti. Erano cresciuti insieme, e la donna conosceva tutti i suoi segreti.

Lui, al contrario, non conosceva tutto della sorella, si era reso conto da fin troppo poco.

Sospirando aveva lasciato lo sguardo vagare sulle librerie piene di volumi. Alcuni ordinati, altri messi alla rinfusa, probabilmente per mancanza di spazio. Libri e fogli erano sparsi ovunque. Ma era una cosa così tipica di sua sorella che gli dava quasi conforto, un senso di protezione che aveva sempre percepito provenire da lei.

E Ymir lo aveva sempre protetto. Anche quando aveva parlato con sua madre di Jean la prima volta. Ymir era con lui. Gli stringeva la mano. E quando la loro madre aveva iniziato ad urlare, lei si era messa in mezzo, proteggendolo e difendendolo.

“Ymir, cos'è successo domenica?”

Prendendosi il suo tempo per rispondere, la donna aveva appoggiato due tazze in tavola – il caffellatte preparato da lei era sempre ottimo – e gli si era seduta di fronte. Aveva appoggiato i gomiti sulla poltrona e aveva sorriso.

“Dipende da cosa vuoi sapere.”

“Non fare la finta tonta, sai bene cosa voglio sapere.”

“Che le ragazze sono fottutamente carine e morbide, soprattutto quando le mordi?”

Il moro aveva chiuso gli occhi, scuotendo lievemente la testa.

“Perché non me lo hai mai detto?”

“Perché non era importante.” Ymir si era portata la tazza alle labbra, sorseggiando piano la bevanda tiepida. “Non ho mai avuto alcun problema ad accettarmi per quello che sono. Anche se non ho mai avuto delle relazioni stabili.” Aveva sospirato. “Ma quella è solo colpa mia che salto di fiore in fiore come un'ape curiosa.”

“Non ho mai sospettato nulla...”

“Perché eri troppo concentrato a nascondere te stesso. Avevi così paura che non riuscivi neppure ad accorgerti di chi ti stava attorno. Sinceramente, mi sono sempre chiesta come abbia fatto Jean a sopportarti per così tanto tempo. Quando è scoppiato e ti ha lasciato non mi sono stupita più di tanto, e anche se ero lì, con te, non potevo che dargli ragione. Avrei fatto lo stesso anch'io.”

“Non potevo andare a vivere con lui, Ymir! Cosa avrei potuto fare? Dovevo ancora finire gli studi! E mamma e papà cosa avrebbero detto? Tu non capisci! Non potevo farlo!”

“Smettila.”

Marco si era zittito non appena il tono serio e freddo di Ymir aveva raggiunto le sue orecchie. Aveva appoggiato la tazza sul tavolo e lo aveva guardato.

“Non potevi o non volevi? Sono due cose molto diverse, Marco. E io non capirei? Sono cresciuta nello stesso buco omofobo da cui sei uscito tu, quindi credo di capire fin troppo bene. Pensi che a me non abbiano mai detto nulla? Che siano stati in silenzio quando non uscivo con nessun ragazzo? La loro più grande preoccupazione è che sto superando l'età da marito. Sai quanti ragazzi mi hanno presentato negli ultimi 15 anni? E sai con quanti sono uscita? Con nessuno. Non gli ho permesso di rovinarmi la vita con i loro desideri.”

Marco l'aveva ascoltata in silenzio, abbassando poi lo sguardo. Fissava la tazza di caffellatte come se questa potesse dargli tutte le risposte.

“Jean ti ha amato sul serio.” La donna aveva continuato a parlare. “A volte quando lo incontravo in qualche locale ci fermavano a parlare, soprattutto quando era ubriaco. E lui parlava sempre di te. Anche se non mi ha mai chiesto come stavi, cosa facevi. E io non ho mai voluto dirgli nulla. Soprattutto non gli ho mai parlato di Annie.”

“Non sapevo foste rimasti in contatto.”

“Cosa vuoi farci. Non saremo mai grandi amici, ma sopportiamo bene uno la presenza dell'altra.” Aveva sorseggiato di nuovo dalla propria tazza. “Ti ha fatto vedere Marie? Ha il suo stesso carattere.”

“Gli assomiglia moltissimo...” Aveva mormorato, continuando a non guardare la sorella. “Mi sono tanto stupito quando mi ha detto di avere una figlia. E anche che è divorziato.”

“Si, ma meglio così. Una vera cagna, lascia che te lo dica. Jean è stato un santo anche solo a sposarla. Mi ha lasciata di sasso quando ho saputo che si sarebbe sposato, ma del resto quel cazzone è più responsabile di quello che vuol far credere.”

“Quando parli di lui non so mai se ti piace o meno.” Marco aveva scosso la testa, non riuscendo a nascondere un sorriso.

“Anche tu sei un cazzone, e sei mio fratello, e ti voglio bene. Sono convinta che Jean dovrebbe prenderti a sberle almeno un paio di volte. O perlomeno è quello che farei io. Perdere così tanto tempo e poi ritornare...” La donna si era guardata le unghie, mentre inarcava un sopracciglio. “Dopo il divorzio è tornato a vivere da sua madre, portando la bambina con sé. Quindi sai dove trovarlo, e non hai scuse.”

Ymir aveva ammiccato e Marco sapeva benissimo che quello sguardo non ammetteva alcuna replica.

 

✵✵✵

 

Ricordava ancora perfettamente la strada che lo avrebbe condotto all'abitazione dei Kirschtein. Subito fuori dal centro parigino, poco lontano dalla casa in cui lui stesso era cresciuto. Aveva percorso quelle strade migliaia di volte. A volte a piedi, altre utilizzando i mezzi. Spesso era con Jean, a volte era da solo e stava andando a trovarlo. Dopo scuola, nei fine settimana. Erano molte più le volte in cui passavano il tempo a casa del biondo, dove sua madre non li controllava come faceva la sua.

Quella casa era stata il luogo in cui Marco si era sentito più al sicuro durante tutti gli anni che aveva passato con Jean. Quelle mura erano state testimoni di tante loro prime volte ed esperienze.

Ed ora eccolo lì. Spaventato di fronte al cancello, con la mano a mezz'aria, dubbioso sul premere o meno il campanello.

Una voce lo aveva deconcentrato dai suoi timori, e aveva voltato la testa di lato.

“Marco...?”
   
 
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