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Autore: Hermione Weasley    01/03/2016    2 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 24
~

 

Aveva lasciato cadere l'arco e la faretra ed era rimasto a guardare con maltrettenuta apprensione mentre l'infermiera si affaccendava al capezzale di lord Phillip. All'inizio aveva creduto di essere indietreggiato fino alla parete per non ingombrare il passaggio, ma poi si era accorto che non sarebbe stato capace di tenersi saldamente in piedi senza il rigido sostegno del muro alle sue spalle.

La stanza era una piccola mansarda collocata sotto il tetto dell'ala ovest del palazzo reale; si apriva su uno stretto corridoio tempestato di porte che avrebbero condotto ad altrettante camere, tutte riservate alla servitù, o almeno parte di quella.

Il tragitto dalla cattedrale alla dimora regia era stato talmente rapido e confuso da impedirgli di rintracciarlo con precisione nella sua testa. Ricordava di essersi concentrato sulla figura di Natasha che gli procedeva davanti – armata e pronta ad entrare in azione in caso di pericolo –, di essere passato accanto al piazzale silenzioso antistante l'imponente edificio senza degnare né l'uno né l'altro di uno sguardo, di aver ridotto gli stimoli del mondo esterno al peso dell'uomo che gli rallentava i movimenti.

A Barney ancora non riusciva a pensare. Temeva che se avesse chiuso gli occhi l'espressione determinata e furente su cui si era sigillato il portone della chiesa l'avrebbe tormentato per sempre. La faccia gli faceva ancora male per il cazzotto che il fratello gli aveva somministrato come antidoto alla sua ostinazione.

“Come sta?”

Era stata la sua voce a parlare. Le parole gli erano uscite di bocca senza preavviso nel momento in cui la donna aveva finito di medicare alcune ferite sul torso scoperto di lord Phillip. Gli appariva tremendamente pallido, riverso com'era sul letto di un paggio o una cameriera, più bianco delle lenzuola su cui era stato frettolosamente adagiato.

Dopo aver riguadagnato l'interno del palazzo attraverso il passaggio delle scuderie – come il colonnello Fury aveva loro suggerito di fare – erano stati condotti senza una parola di più nell'ala ovest, perché era lì che l'ordine si era trincerato per ridurre la superficie dell'area che avrebbero dovuto sorvegliare e difendere da eventuali intrusioni nemiche.

Non uno dei membri dello Scudo con cui avevano parlato prima di quella notte si era fatto vedere. L'uomo barbuto che li aveva accompagnati fino al corridoio delle stanze dei domestici li aveva lasciati soli dopo averli aiutati a sistemare lord Phillip sul letto. Pochi minuti e l'infermiera era arrivata a sostituirlo, evidentemente allertata dal collega, armata di una bacinella d'acqua calda, garze e una piccola borsa di pelle dentro cui tintinnavano boccette di vetro tutte le volte che veniva spostata.

La donna non aveva offerto spiegazioni; né lui né Natasha ne avevano chieste. Si erano limitati a scambiare un paio di muti sguardi che non si preoccupavano più di cancellare la tensione.

“Vado a cercare di capire cosa sta succedendo,” gli aveva detto prima di defilarsi silenziosamente, lasciandolo con l'infermiera ancora impegnata a fare il possibile per l'uomo che gli aveva a suo tempo salvato la vita.

La donna, che indossava una logora divisa da cuoca, si decise finalmente a prenderlo in considerazione.

“Ha subito diversi traumi,” spiegò, rispondendo alla sua domanda con consistente ritardo. “Danni interni, anche, ma non ho gli strumenti per accertarmene. L'addome è gonfio e-”

“Ce la farà?” Non aveva bisogno di specifiche mediche, solo di capire se lord Phillip sarebbe sopravvissuto per vedere l'alba ormai imminente e magari quella successiva e quella dopo ancora.

“Troppo presto per dirlo,” rispose la donna in tono asciutto. Aveva l'aria stanca di chi non si è fermato un secondo per tutta la notte. Clint capì che dovevano aver avuto il loro bel da farsi, lì a palazzo, ma non riusciva comunque ad affrontare lucidamente la scarsezza dei mezzi a loro disposizione, non quando ne andava della sopravvivenza di lord Phillip. “Mi dispiace,” la sentì aggiungere, forse perché si era accorta del suo turbamento. “Fategli bere un po' d'acqua con cinque gocce di questa soluzione,” gli mostrò una boccetta in cui ondeggiava un liquido scuro, “ogni tre ore”.

Clint annuì, incapace di articolare niente di sensato. L'istruzione le era uscita in modo superficiale, come se le circostanze fossero tali da rendere quegli inutili dettagli quotidiani una battuta di spirito che non faceva ridere. Lo Scudo era ancora occupato a far fronte all'attacco dell'Idra che, ne era piuttosto sicuro, non intendeva arrendersi tanto facilmente.

La testa era un macigno e i pensieri gli si confondevano nel cervello mentre la donna si allontanava, lasciandolo di fatto solo in compagnia di lord Phillip. Raggiunse il letto con pochi passi barcollanti e osservò il viso dell'uomo, cereo e così diverso da come lo ricordava. Non avrebbe mai potuto immaginarselo in uno scenario tanto squallido, con la camicia strappata e macchiata di sudicio e sangue ammucchiata in un angolo del pavimento, il busto ricoperto di lividi e ferite di varia entità, le più gravi fasciate alla meno peggio dall'infermiera che se n'era appena andata.

Si sforzò di ricordarlo nel salotto in cui era solito intrattenere i suoi ospiti con vini, sigari, pasticcini al limone, con quel ridicolo ritratto che aveva fatto fare del capitano Rogers, ma non ci riuscì. Erano scene che appartenevano ad una vita diversa e lontanissima da quella che stava vivendo in quel momento; faceva fatica a capacitarsi del qui ed ora e la stanchezza – che adesso cominciava a pesargli sugli occhi e sulle spalle – non aiutava affatto.

“Non farmi brutti scherzi,” si ritrovò a bisbigliare, molto più informalmente di quanto non avesse mai fatto.

Tutte le volte che i pensieri e le considerazioni sfioravano zone troppo oscure, Clint si obbligava a ritrarsi bruscamente indietro. Perché se si fosse lasciato andare al vortice buio della propria disperazione, non ne sarebbe più uscito. All'eventualità che lord Phillip non potesse farcela, che quindi Barney si fosse sacrificato per niente, non poteva neanche pensare.

Fu costretto a mettersi seduto sul bordo del materasso quando un conato di vomito gli risalì su per la gola. Inspirò a fondo e cercò di ignorarlo, di placarsi, di focalizzare su qualche dettaglio reale e concreto che gli impedisse di fluttuare incoscientemente sul flusso confuso degli eventi e delle reazioni che gli avevano scatenato dentro.

Passi leggeri arrivarono a fargli compagnia: Natasha ricomparve sulla soglia della camera, anche lei visibilmente provata – gli occhi cerchiati e più scuri, le labbra spaccate all'angolo della bocca, i lividi delle colluttazioni che cominciavano ad affiorare sulla superficie bianchissima della sua pelle.

“Che ti hanno detto?” Le chiese con urgenza, perché distrarsi con altro, con questioni ben più immediate e attive, era diventata improvvisamente una necessità inderogabile.

“A quanto pare Stark ha drogato mezza città,” rispose lei con voce calibrata. La guardò mentre recuperava una sedia sbilenca abbandonata nei pressi della finestra di tela, la sistemava davanti a letto e vi prendeva finalmente posto. La schiena parve incurvarsi di colpo sotto la pressione dello sfinimento.

Trovava piuttosto ridicolo il modo in cui il mondo pareva appesantirsi di colpo tutte le volte che smettevano di correre, fuggire, inseguire. Era come se la reale portata di quel continuo sperpero di energie si palesasse ad entrambi solo quando si fermavano; non prima. Bastava spezzare l'incantesimo dell'azione per precipitarli nella più sfiancata stanchezza.

“Drogato... mezza città?” Fece una smorfia. “Forse devo solo dormire, ma non credo d'aver capito... un cazzo,” biascicò. Ricordava, però, la nebbia bianca che avevano visto avvolgere l'ingresso del palazzo reale quando non erano che appena arrivati alla tesoreria. Anche quel dettaglio gli appariva lontanissimo nel tempo.

“Una sostanza inventata da lui,” si limitò a spiegare, facendo vagare lo sguardo da lui a lord Phillip e viceversa. “Unita ad un altro congegno, una sorta di... soffione, credo. Sono riusciti a mettere a dormire gran parte della folla prima che i cancelli venissero divelti.”

“Per quanto?”

“Non lo so. Hanno portato via alcuni dei soldati e degli ufficiali mescolati alla gente per aizzarli alla ribellione. Sperano che senza istigazioni, chi non era coinvolto se ne torni a casa non appena l'effetto del sonnifero si esaurirà.”

“Dove li hanno portati?” Non sapeva nemmeno perché gli importasse.

“Non me l'hanno detto,” spiegò brevemente con una leggera scrollata di spalle. “Sono quasi tutti impegnati a fortificare gli accessi all'ala ovest. Lady Carter è andata a cercare rinforzi al quartier generale.” Di cui, tra l'altro, non avevano ancora scoperto la collocazione.

“Per quanto credi che durerà ancora?” Perché se si soffermava a pensarci, a tutta quella storia non vedeva una fine. Quella che gli si presentava davanti era la prospettiva di una battaglia da combattere ad oltranza.

“Non lo so,” cercò i suoi occhi, rivolgendogli una muta domanda che Clint non riuscì a decifrare. “Altre truppe di traditori stanno convergendo sulla capitale. Non è finita... non ancora.”

La seconda carica da parte degli uomini dell'Idra si stava avvicinando, quindi, e lo Scudo avrebbe avuto bisogno di tutte le forze a sua disposizione se voleva avere la meglio e salvare quel che restava della dinastia Stark.

“Fury e Stark stanno escogitando altro per... massimizzare i mezzi a nostra disposizione,” aggiunse Natasha, come se quello fosse uno spiraglio abbastanza roseo da fargli rivedere le sue lugubri aspettative.

Rimasero in silenzio a lungo, scrutandosi a vicenda o divergendo la loro attenzione su lord Phillip, sul suo respiro pacato e ancora irregolare.

“Dovresti riposare,” suggerì lei, “posso stare io con lui.”

“Non cambierebbe niente.”

“Hai bisogno di dormire.”

“Anche tu.”

“Posso resistere.”

“Anch'io, se è per questo.”

Si voltò a guardarla giusto in tempo per scorgere il lampo d'irritazione che le aveva rianimato gli occhi, ma fece finta di niente. Si ripromise di non parlare, perché troppe cose gli si agitavano in petto per permettergli di pensare linearmente. Avrebbe corso il rischio di pronunciare parole che non pensava, di muoverle accuse che riteneva infondate.

Eppure il silenzio era complice della confusione e più pensava e più quell'insopportabile sensazione d'affanno cresceva e si gonfiava.

“Come ci riesci?” Le chiese quand'ormai gli sembrava che non ci fosse più aria nella stanza.

Natasha ricambiò con uno sguardo perplesso, perché non aveva colto il senso di quell'allusione. Ma poi, poco a poco, vide il suo viso riassorbire lo smarrimento e l'espressione distendersi senza alcun sollievo.

“Non ci riesco,” confessò dopo un attimo d'esitazione.

Di tutte le cose che aveva fatto quella sera e che minacciavano di tornare a tormentarlo, l'aver ucciso era in cima alla sua lista perché, tra le tante, era la più impersonale di tutte.

“Ci ripensi... mai?” Si era aggrappato a quella conversazione nella precaria speranza di sentirsi ancorato a qualcosa. A qualcuno.

“A volte,” ammise, ma non gli parve soddisfatta della risposta. “Spesso,” si corresse infatti. Si era seduta più compostamente sulla sedia, come se il dialogo richiedesse maggiore rigidità. “Non ti ci abitui mai del tutto.”

“Quante volte l'hai...”

“Non lo so. Ho perso il conto.” In un altro momento l'avrebbe presa in giro per l'esagerazione, ma in quello non poté far altro che crederle ciecamente.

“Ti ricordi tutte le loro facce?”

“No... solo alcune.” Clint realizzò che non le faceva piacere parlarne, che estorcerle una parola per volta era come una lenta tortura. “Devi solo imparare a conviverci.”

“Suona più facile a dirsi che a farsi,” l'accusò debolmente, tentando un sorriso che non convinse nessuno dei due.

“Uccidere è più rapido che ferire, stordire o imbavagliare. E' più pratico.” L'atteggiamento gelido e pragmatico che aveva assunto, invece che inquietarlo, lo rassicurò perché riportava quel groviglio di eventi impossibili ad una dimensione tutta materiale, di azioni e reazioni, di scelte inderogabili.

“Forse se-”

“No, Clint,” Natasha l'interruppe bruscamente. “Salvare la vita a quella gente avrebbe significato rallentare... tutto. E' già tanto essere riusciti a tirar fuori lord Coulson.”

Ma non Barney. La consapevolezza gli balenò davanti agli occhi con l'ineluttabilità delle cose tanto reali quanto orribili. Forse ce l'aveva fatta a scappare da un'altra uscita, magari era stato capace di far fronte all'attacco degli uomini dell'Idra. Poteva essere ancora vivo. Poteva aver bisogno del suo aiuto.

“Alle volte puoi solo scegliere tra una brutta scelta e una scelta ancora peggiore,” riprese Natasha. “Ci sono situazioni in cui devi per forza giocarti una parte di te.”

Compromettersi, di questo stava parlando. Compromettersi quando ormai si è messi alle strette, quando non si sa più dove sbattere la testa, quando uscirne in modo pulito non è altro che un'illusione bella e buona. Un sogno confortante e irreale in egual misura.

“Puoi convivere con il peccato di certe cattive azioni, ma non con il peso di altre.” La voce della donna era ormai solo un soffio.

Clint deglutì a fatica, cercando di ricacciare indietro il nodo che gli aveva ingombrato la gola. Fu solo quando la guardò dirigere lo sguardo verso lord Phillip, disteso sul letto sul quale era ancora seduto, che capì cosa intendesse.

Avrebbe potuto salvare gli uomini che aveva ucciso in nome di un corso d'azione più rapido, ma avrebbe significato arrivare troppo tardi, perdere lord Phillip, magari mettere in pericolo la vita di Natasha, Barney, se stesso. Poteva sopravvivere al peso di quelle morti, ma non a quella del suo protettore, della gente a cui tutto sommato voleva bene. Aveva rinunciato alla propria integrità morale pur di non dover rinunciare a lord Phillip, pur di non fallire nel salvare chi l'aveva a sua volta salvato tanti anni prima.

No. La portata di quella delusione, di quel senso di colpa, non gli avrebbe permesso di vivere. Se lo sarebbe portato dietro come un'ombra soffocante per il resto dei suoi giorni. Anche i volti anonimi dei banditi dell'abbazia, dei soldati dell'Idra che aveva eliminato l'avrebbero accompagnato fino alla fine, ma non avrebbero pesato così tanto sulla sua coscienza. Non gli avrebbero impedito di vivere, di respirare.

“Non devi farlo per forza.” Si accorse che Natasha lo stava guardando dritto negli occhi. “Non dopo stanotte.” Stava cercando di consolarlo... a suo modo.

“Neanche tu,” le ritorse contro, il tono di voce più controllato e pacato.

“E' quello che faccio,” lo contraddisse lei, il fantasma di un sorriso amareggiato ad incresparle le labbra. “Da sempre.”

“Non sei più obbligata a tornare alla Stanza Rossa,” ribadì, calmo eppure deciso. Voleva farle capire che il caos degli eventi aveva modificato per sempre la fisionomia delle cose, che niente era più come prima, che si era aperto un nuovo margine di libertà. Uno spazio nuovo, vuoto, privo di qualsiasi restrizione, dove avrebbe potuto scoprire se stessa, svestire i panni dell'assassina addestrata alla menzogna per capire chi era veramente. Chi voleva essere.

“Forse non l'ho mai lasciata,” ribatté lei, la voce contratta dalla rassegnazione e dalla rabbia verso se stessa.

Non era una questione di alleanze e schieramenti, realizzò Clint. Si trattava di scelte di vita che si erano ormai fatte carne, sangue ed ossa, tutt'uno con la sua persona. Magari era davvero troppo tardi per districarsi da quella ragnatela, ma... non ci voleva credere. Non poteva farlo. Sapeva che Natasha era molto più di quello e avrebbe fatto di tutto pur di farglielo capire, pur di permetterle di vedersi come la vedeva lui.

“L'unico modo per saperlo è provarci,” finì per dire, cercando i suoi occhi, verdi e profondamente turbati. “Provare non costa niente.”

“Tutto ha un prezzo.”

“No... alcune cose non ce l'hanno,” la smentì. “Alcune cose resistono... e sono quelle che contano davvero.”

Pensò a Barney, all'ultimo sguardo che gli aveva lanciato prima di chiudere il portone della cattedrale, prima di tagliarlo fuori sul sagrato della chiesa avendogli concesso un prezioso vantaggio per mettere in salvo se stesso e lord Phillip.

Era sicuro che fosse davvero odio il sentimento che suo fratello aveva provato quando l'aveva rivisto la prima volta. Delusione, tradimento, abbandono, ossessione erano stati i compagni degli anni che Barney aveva trascorso lontano da villa Coulson e da lui. La vita era stata implacabile con lui, l'aveva costretto ad abbassarsi ai compromessi più tremendi. Sopravvivere significava questo, dopotutto: fare qualsiasi cosa nelle proprie facoltà pur di autoconservarsi. Pur di andare avanti e strappare un altro giorno al destino avverso, mandare la morte al diavolo per un'alba, un tramonto ancora. Odiarlo, odiare quel fratello minore a cui aveva dato tutto e che l'aveva abbandonato per una disattenzione imperdonabile, gli aveva permesso di aggrapparsi alla realtà e di andare avanti, di avere un'ancora forte e concreta che lo tenesse ben saldo nel mondo dei vivi. Era il ricordo che aveva portato con sé all'inferno e forse lo stesso che gli aveva permesso di uscirne... solo qualche ora prima in quella maledetta cattedrale.

Sbatté le palpebre e riprese contatto col presente, ritrovando gli occhi di Natasha puntati nei suoi. Era sicuro avesse capito a che stava pensando, c'era troppa consapevolezza sul suo volto per poter ipotizzare altrimenti. Intuì anche che avrebbe voluto dirgli qualcosa e allo stesso tempo che non l'avrebbe fatto.

“L'infermiera ha detto di dargli cinque gocce di quello insieme ad un po' d'acqua,” si ritrovò a dire, indicandole la boccetta abbandonata sul comodino accanto al letto. “Ogni tre ore.”

La confusione che le lesse in volto sparì in fretta quando colse le sue intenzioni. In fin dei conti aveva davvero bisogno di riposare e, se non l'avesse fatto, la sua presenza e il suo aiuto allo Scudo non sarebbero valsi a niente, esausto com'era.

“Vengo a darti il cambio tra tre ore esatte, va bene?” Decise, perché una sana dormita non avrebbe fatto bene solamente a lui.

Natasha annuì una sola volta mentre Clint si rimetteva in piedi per sgranchirsi le braccia e la schiena.

“La camera qui accanto è libera,” l'informò la donna a mezza voce, lasciando che ne prendesse atto senza aggiungere alcunché.

Recuperò l'arco e la faretra e scoccò un'ultima occhiata a lord Phillip, ancora profondamente assopito, e si sentì stringere lo stomaco alle pietose condizioni in cui versava. Quanto avrebbe dato per avere una di quelle sue orrende parrucche ingrigite da mettergli in testa per farlo assomigliare un po' di più al lord Phillip che ricordava, prima che il mondo decidesse di cadere a pezzi davanti ai suoi occhi.

Districò a forza se stesso dalla stanza, guardò ancora Natasha e poi si dileguò nel corridoio e nella camera accanto.

Si gettò sul letto sfatto dopo aver mollato le armi sul pavimento e senza darsi neppure il tempo di sfilarsi gli stivali. Gli ci vollero pochi minuti per crollare in un sonno senza sogni.

 

*

 

Il sole era sorto, caldo e dorato, da almeno un paio d'ore quando si riunirono in un salotto rivestito di seta damascata nei toni del giallo e dell'ocra per decidere sul da farsi.

Clint si era rifiutato di abbandonare il capezzale di lord Phillip finché non era arrivata Melinda a sollevarlo dall'incombenza di vegliare il malato; non aveva ancora ripreso conoscenza: a malapena erano riusciti a risvegliarlo dal suo torpore le due volte che gli avevano somministrato la medicina.

Natasha era al suo fianco, ancora visibilmente intontita dal (poco) sonno non fosse stato per la luce acuta e presente che le animava lo sguardo. Di nuovo, non si sarebbe stupito di vederla correre in giro, combattere e resistere alla stanchezza e al dolore fino all'infinito.

In piedi e appoggiati alla cabinetta di legno lucido alle loro spalle, non avevano spiccicato parola mentre gli ultimi membri dell'ordine prendevano posto sui divani, le ottomane, le sedie che erano state disposte a cerchio al centro della stanza.

Riconobbe alcune facce note: Maria Hill, seduta rigida e composta sul bordo del divano; il ragazzetto a cui aveva ordinato di dare l'allarme durante lo scontro con Grant; il finto nobiluomo che aveva accompagnato Natasha durante la festa in maschera, la parrucca mestamente abbandonata in grembo. Non era l'unico ad essersi risvegliato dal riposo forzato inflitto dal sonnifero dell'Idra. Clint li riconobbe perché erano quelli vestiti meglio, i più imbarazzati e i più arrabbiati perché meno stanchi di chi era rimasto sveglio tutta la notte.

“Sai cosa sarebbe pazzesco?” Si voltò verso Natasha con aria allucinata. “Che ci avessero riuniti tutti qui per dirci che siamo spacciati.”

Andate tutti a casa, qui non c'è più niente da fare?” Recitò la donna in tono assolutamente incolore. “Non suona divertente.”

“Ho detto pazzesco. Non divertente,” le fece presente.

Natasha stava per ribattere quando il colonnello Fury entrò nella stanza seguito da un paio di agenti travestiti da stallieri che presero rapidamente posto per terra, sul tappeto.

“Ci siamo tutti?” Domandò l'uomo, facendo dardeggiare il suo unico occhio in giro per la stanza. “Dov'è Melinda?”

“Con Phil,” si affrettò a rispondere Maria, che ottenne solo un rapido cenno d'assenso in risposta.

“Le nostre vedette hanno confermato che diverse truppe dell'esercito stanno ritornando in fretta e furia qui alla capitale,” il colonnello non si perse in convenevoli prima di cominciare ad illustrare il mare di merda in cui erano ancora immersi. “Non possiamo sapere se stiano arrivando per darci man forte, o per fotterci ulteriormente. Fino a prova contraria qualsiasi membro dell'esercito è da considerarsi un nemico.”

I presenti annuirono tutti insieme con aria più o meno grave in attesa che l'uomo continuasse.

“La cattiva notizia è che dei messaggeri che ho inviato alle varie sedi dello Scudo per chiedere rinforzi ieri notte, ne sono tornati solo due... su sette.” Un mormorio sommesso, ma indignato serpeggiò per il salotto, ma Fury fece finta di non aver sentito. “Ci abbiamo guadagnato a malapena due dozzine d'uomini in più.”

“E la buona notizia?” Azzardò un agente vestito da maggiordomo in possesso di un orribile paio di baffi – lunghi, sottili e arricciati alle estremità – che cominciò a leccarsi forsennatamente quando il colonnello lo incenerì con lo sguardo.

“Non ce ne sono, brutto idiota. Ti sembro forse Gesù Bambino la notte di Natale?”

Il finto domestico arrossì vistosamente e cercò di far finta di niente distogliendo lo sguardo altrove; se ne pentì amaramente un attimo dopo perché incrociò quello di Maria, che di occhi per guardarlo male ne aveva ben due e sapeva come sfruttarli al massimo.

“Gesù Bambino ci sarebbe d'aiuto,” Clint confermò senza riuscire a frenare la battuta.

“Grazie tante, signor Barton, cercheremo di tenerlo presente nel caso qualcuno scoprisse il suo indirizzo.”

“Si figuri, colonnello,” insisté l'arciere, sentendo una sorda e ridicola euforia risalirgli su per lo stomaco e il petto: perché la situazione era disperata e quello poteva benissimo essere l'ultimo giorno che passava sulla terra. Di questo era sempre più consapevole con ogni secondo che passava ed era sicuro di non essere l'unico là in mezzo alle prese con quella realizzazione.

“Il principe Stark è nel suo...,” Fury si soffermò per un attimo, come alla ricerca della parola adatta a non far suonare quello che stava per dire come un'immane, improbabile stronzata, “laboratorio. Speriamo che possa avere il tempo di mettere insieme qualcosa che possa aiutarci a sopperire allo svantaggio numerico.”

“Ma non è naturale!” Protestò con voce acuta e squillante una finta nobildonna ancora agghindata nell'abito del ballo, rosa e terribilmente voluminoso, gli occhi bistrati e i pomelli di un rosso troppo acceso.

“Accomodatevi pure,” la invitò il colonnello, che non sembrava aver intenzione di blandire i suoi uomini per prepararli alla battaglia ormai annunciata. “C'è una morte naturalissima che vi attende là fuori,” ribadì, “magari sarete fortunata e non sarà né lenta né dolorosa.”

La donna raggrumò le labbra in un unico punto sbiadito e irrigidì la mascella senza però aggiungere nient'altro. Era chiaro che nessuno aveva poi così tanta voglia o fretta di crepare per mano dell'Idra o di chicchessia.

“Ci sono già alcuni uomini ad aiutarlo,” riprese Fury del tutto indisturbato. “Altri agenti si stanno occupando di riesumare i cannoni d'assedio di cui il palazzo dispone,” disse, “ma sono antiquati e risalgono ad almeno centocinquanta anni fa.”

“Come siamo messi a polvere da sparo?” Intervenne l'aristocratico accompagnatore di Natasha alla festa.

“Non bene,” ammise il colonnello. “Speravamo di organizzare alcune spedizioni per recuperarne all'esterno, ma non ho abbastanza uomini per garantire la sicurezza di tutti.”

“Posso andare da solo,” si offrì l'altro, improvvisamente determinato. L'imbarazzo di chi si era lasciato fregare dallo champagne e dai vini drogati era particolarmente vivo in lui perché era stato messo in guardia da Natasha, ma non aveva voluto crederle.

“Ottimo. Ne riparleremo a riunione conclusa,” convenne Fury, lanciandogli un'occhiata penetrante ma carica di rinnovato rispetto. “Abbiamo organizzato dei turni per sorvegliare le entrate all'ala ovest. Rivolgetevi a Maria per sapere quale vi è stato assegnato.”

La situazione era pressoché disperata, ma la pragmatica sicurezza e sferzante causticità del colonnello gli infondeva coraggio, la bizzarra convinzione che sarebbe andato tutto bene... o quasi. Che, in qualche modo, si potesse uscirne. Gli dava la stessa impressione di Natasha, lo stesso modo pratico di analizzare le cose, di non lasciarsi scoraggiare dall'imponenza dei problemi, ma la continua e instancabile solerzia di spezzettarli in parti più piccole per renderli più facilmente gestibili. Per aggredirli da più direzioni nella speranza di sgretolarli E la prospettiva dipinta da Fury suonava talmente scientifica che Clint non poteva fare a meno di fidarsi come aveva imparato a fidarsi delle reazioni chimiche che Leopold innescava nella sua stanza da lavoro, nelle cantine di villa Coulson.

“Quello che vi consiglio di fare è prepararvi e riposarvi. Abbiamo inferto un duro colpo all'Idra questa notte, decimato le loro file... ma torneranno all'attacco,” stabilì il colonnello, soffermandosi un po' su tutti. “Rimettete in ordine le vostre armi e affilate le vostre spade. A breve ci giocheremo il tutto per tutto.”

Gli era parso di udire la rassegnazione nella sua voce, ma capì che era solennità e non altro: la consapevolezza che una prova importante stava avvicinandosi e che – per quanto avesse voluto – non tutti i presenti sarebbero stati capaci di superare l'ostacolo e approdare dall'altra parte. E forse era proprio quella l'unica cosa che il colonnello Fury non poteva sopportare, l'idea di mandare i suoi uomini al macello senza avere un'alternativa convincente.

“Se qualcuno avesse una brillante idea,” riprese l'uomo bendato, “questo è il momento di parlare.”

“Io ne ho una, signore.”

Si voltarono tutti verso l'ingresso del salotto giallo. Clint udì prima le manifestazioni di sorpresa a malapena trattenute e i respiri sospesi e solo poi si rese conto che chi aveva parlato altri non era se non il Capitano Steve Rogers.

“Capitano,” constatò il colonnello, neanche lui esente dallo stupore di vederlo in piedi con indosso una divisa spaiata, la giacca rossa da ufficiale, i pantaloni blu della gendarmeria.

Lady Carter gli era comparsa di fianco insieme ad un ristretto manipolo d'uomini tra cui Clint, con una stretta allo stomaco, riconobbe Antoine.

“Uno dei messaggeri inviati alla sede dello Scudo presso le montagne dell'est è ritornato al quartier generale secondario con cinquanta uomini,” disse la donna, i capelli spettinati e i vestiti sgualciti, eppure ancora in possesso di una certa parvenza d'eleganza. “Non sono molti, ma non hanno avuto il tempo di fare di più. Confermano, inoltre, che alcune truppe dell'esercito sono ormai alle porte della città.” Lady Carter distolse lo sguardo da Fury e lo fece vagare sui volti dei presenti. “Non manca molto prima che tornino all'attacco.”

“Mi posso occupare io della difesa dei cancelli,” si offrì Rogers. “Magari riesco a convincere qualcuno a desistere.”

Il colonnello gli rivolse una lunga, penetrante occhiata. Si vedeva lontano un miglio che non era ancora convinto della solidità delle sue condizioni, eppure la situazione era talmente disperata da richiedere misure estreme se volevano sopravvivere per vedere un altro giorno. Persino mettere in campo un capitano amato dai suoi soldati, ma acciaccato e non al massimo delle proprie forze, gli doveva apparire come una possibilità di tutto rispetto.

“Non sono io che detto gli ordini,” decretò Fury, restituendo la patata bollente a Lady Carter.

“Il capitano è già stato informato del mio disaccordo, ma data la situazione non possiamo fare altrimenti,” specificò la donna, scandendo a tal punto le sillabe ed evitando di guardare il capitano con tanta concentrazione, che Clint intuì che una lunga discussione a riguardo doveva già aver avuto luogo tra i due e che lui aveva avuto la meglio.

Il colonnello annuì e un breve secondo di silenzio cadde nel salotto.

“E' tutto. Andate,” li esortò infine Fury, visto che nessuno sembrava aver più niente da dire.

Clint prese automaticamente Natasha per mano e puntò verso l'uscita perché voleva riabbracciare Antoine e presentarlo alla donna, ma la perentoria voce del colonnello li fermò sul posto, nessuno dei due particolarmente consapevole di avere l'uno la mano in quella dell'altra.

“Barton, Romanoff. Ho un lavoro per voi.”







Note: capitolo di pausa & logistica mentre ci approprinquiamo alla fine della battaglia che... sarà tutta nel prossimo capitolo e presa in modo un po' strano. Insomma, vi ho avvertiti ù_ù
Grazie a chi continua a leggere e alla sociabeta Eli :3
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
  
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