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Autore: Alex Wolf    03/03/2016    1 recensioni
(Ambientata nel Giappone feudale)
Kunoichi, ninja donne che nel giappone antico venivano addestrate separatamente dai loro pari uomini. Sono elementi importanti in un clan quanto la controparte maschile, tant'è che il loro nome scomposto vuol dire sia "donna" che "una dei nove". Erano addestrate nell'arte della seduzione e nel combattimento corpo a corpo: spesso agivano usando veleni e armi nascoste come i Neko-te. Lavoravano puntando sui travestimenti che la loro femminilità gli permetteva di ricoprire, ed erano letali killer silenziosi.
Genere: Azione, Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Giappone feudale
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 Loto



“Domandare non costa che un istante d’imbarazzo, non domandare è essere imbarazzati per tutta la vita.”
Antico proverbio giapponese.

 

 
 
Ogni cosa all’interno di quella stanza le dava sui nervi. Sebbene davanti a lei era seduta la padrona di casa in quel luogo, o almeno così pensava la Kunoichi, non sembrava mai esserci stata una donna.
Certo, tutto era ben pulito ma spoglio; non vi era un fiore o un dipinto che potessero rallegrare un’ambiente tanto cupo e freddo. La poca luce che entrava dalla porta scorrevole e si gettava a terra sul tatami sembrava non aver voglia di riscaldare nulla, era presente li solo perché non poteva fare altrimenti.
«Vostra figlia è una ragazza molto bella» stava intanto dicendo l’anziana, mentre una giovane donna serviva il tè. «Ha degli occhi molto seducenti.»
Fingendosi imbarazzata la ninja si coprì il volto con il ventaglio. Ogni minimo gesto era importante in quella messa in scena, anche il più piccolo sbaglio poteva rivelarsi fatale per lei d’ora in avanti.
«La ringrazio» intervenne subito la madre, carezzando la mano libera della prole. 
La giovane frugò velocemente negli occhi della genitrice ma non vi trovò l’ombra di un sentimento; vide solo un luce brillante e nient’altro. Quello che sua madre mostrava non era altro che l’ombra di un sentimento che non provava.
In un certo senso, la kunoichi l’ammirava. La madre riusciva a fingere  naturalmente ogni cosa e la gente pendeva inevitabilmente dalle sue labbra cariche di menzogne. Ogni tanto, la giovane ragazza si domandava se non avesse mai provato rimorso: non è semplice mentire per l’intera vita, ma molto probabilmente quando uno è abituato alle menzogne queste diventano parte di se e non si può più fare a meno di adoperarle.  Anche lei aspirava a diventale una tale creatura? Un essere che manipola, uccide e mente perché le viene ordinato, perché prova piacere nel farlo? Rabbrividì.
La padrona di casa sorrise alla giovane che l’affiancò. Le mise una mano sulla spalla e guardò le proprie ospiti con una vera scintilla negli occhi e disse: «Lei è Chiyo, una mia fedele servitrice. E’ come una figlia per me.»
«E’ molto bella» mormorò la giovane dama, parlando per la prima volta da quando aveva messo piede nella casa del futuro sposo. Le sorrise.
Chiyo, pur essendo vestita in modo umile rispetto a loro, sfoggiava la sua bellezza in modo meraviglioso. Il suo tutto: dal lungo collo, al seno prosperoso, alla linea sinuosa dei fianchi che lei possedeva la rendeva agli occhi della kunoichi la creatura più sensuale che avesse mai visto. Nemmeno nel quartiere a luci rosse, abbondante di ragazze splendide, aveva mai trovato un simile soggetto. La spaventava. Sarebbe dovuta stare attenta a come si comportava in sua presenza.
«Grazie, mia signora.» La giovane serva abbassò leggermente la testa in segno di rispetto.
La madre della kunoichi s’intromise quasi di prepotenza nella conversazione. «Chiyo rimarrà qui con mia figlia, o verrà con voi in campagna?»
Internamente una scintilla scattò nel petto della giovane nobile. Anche la genitrice temeva quella donna prosperosa e questo significava che la sua intuizione non era del tutto errata.
«Resterà in questa casa, con vostra figlia. Non potrei augurarle compagnia migliore di questa giovane ragazza» sorrise amabilmente la vecchietta, dando un pizzico sul naso di Chiyo. La mora sorrise d’stinto guardandola con gentilezza.
Nascosta dietro uno sguardo imbarazzato, la kunoichi tenne costantemente sotto controllo quella serva messa in evidenza più del dovuto.
Passò qualche altro tempo fra chiacchiere e complimenti, un tempo che alla giovane nobile pareva interminabile, finché la porta alla sua sinistra non si aprì e l’ombra di un’altra giovane cameriera si allungò sul tatami. Annunciò l’oro alla padrona di casa e con gentilezza l’accompagnò assieme a Chiyo dal nuovo Capo Villaggio.
Il silenzio accerchiò i corpi delle due donne rimaste sole. Era così bello, così calmo attorno a loro. La kunoichi non poteva fare a meno che adorare tutto ciò.
Come se danzasse la madre le si pose davanti e le porse una tazza di te fumante. Tra le lunghe maniche dell’abito la giovane intravide il scintillio di un piccolo kunai.
«Quella ragazza non mi piace» sussurrò velocemente, portandosi la tazza di te alla bocca. «Vedi di non fare passi falsi in sua presenza, a quanto ne sappiamo la squadra dei nove è al diretto servizio del capo villaggio; d’ora in poi vivrai nella tana del leone.»
Lei annuì, odorando il tè che aveva in mano. Il rumore del sangue le offuscò l’udito. Correva veloce e senza freni nel suo corpo, era come un allarme. C’era qualcosa di diverso rispetto a prima in quella bevanda.
Senza far capire alla genitrice lo sconcerto che le stava corrodendo la mente, poggiò la tazzina di lato e la lasciò; questa, essendo ubicata in malo modo, cadde rovesciando il proprio contenuto sul tatami.
«Che sbadata» disse, fintamente amareggiata, «farò sì che sia Chiyo a occuparsi delle pulizie.» L’insegnante che aveva davanti sorrise dietro una nuvola di vapore.
 
Poggiò il piede fasciato sull’engawa e subito l’aria fresca le colpì il viso con una carezza. La dolcezza dei profumi che si spandeva dal giardino le volteggiava attorno riempiendole piacevolmente il naso. Il sole, splendente, si riversava nel laghetto poco lontano da lei illuminando le increspature formate dal vento; le ricordò un foglio d’oro adagiato a terra.
Davanti a loro stava una guardia che si era presentata con fretta  senza guardarla negli occhi, come forma di rispetto. Aveva un portamento fiero e un’andatura non troppo veloce; a dire il vero camminava con le gambe molli, come se fosse annoiato o aspettasse che qualcuno lo attaccasse alle spalle.  
Teneva i lunghi capelli legati in una coda alta da un nastro pallido, sul fianco una spada batteva contro lo stivale che indossava e, sull’elsa dove aveva appoggiata la mano la giovane kunoichi intravide sulla pelle dell’uomo vari segni più chiari. Probabilmente risalenti a episodi di difesa.
Nascondendo le mani all’interno della maniche a farfalla, la giovane si avvicinò un poco a quella schiena che da vicino sembrava troppo grande. Imponente. «Signor Katashi» iniziò «sono lieta di conoscervi.» Non fece quella mossa per cortesia, bensì pensò che mostrarsi amichevole e docile agli occhi di tutti –perché c’erano altre guardie nel giardino a sorvegliare il perimetro- potesse essere un vantaggio iniziale; chi è di rango inferiore accetta più volentieri un nuovo capo se esso si dimostra aperto a loro, lei questo lo sapeva benissimo.
L’uomo, fino ad allora rimasto muto e retto con la testa, si voltò e le sorrise. «Il piacere è mio, mia signora» la frase andò via via scemando d’intensità quando incrociò gli occhi di lei. E così fece anche il respiro della donna che, però, non diede a vedere la sua sorpresa.
Lei quegli occhi li aveva già visti, sebbene solo una misera volta e di fretta. Aveva già incontrato uno sguardo così scuro e lucente al tempo stesso, la sera dell’omicidio del mercenario.  
Impallidì, sperando che lui non avesse una buona memoria. Certo, quella sera era vistosamente truccata e indossava abiti diversi e molto appariscenti, il suo viso era coperto per metà dal ventaglio ma nessuno meglio di lei poteva sapere che anche solo un misero dettaglio può fare la differenza.
Si affrettò a coprire il volto con le maniche fingendosi imbarazzata per la lunga occhiata intercorsa fra loro. Katashi parve riprendersi e si voltò rizzando la schiena.
Dannazione.
«Quanto dista la stanza dove ci attendono?» La voce della madre interruppe il silenzio palpabile, andando a colmarlo con un tono quasi prepotente. «Detesto chiederlo, ma ho avuto problemi alle gambe e camminare mi viene faticoso» aggiunse.
La kunoichi trovò la verità in quel tentativo di cambio d’argomento. Ricordava ancora bene la sera in cui era accorsa nella camera della madre sebbene le fosse stato orinato di restare nelle sue stanze. Era piccola, smaniosa di passare più tempo possibile a scoprire e vogliosa di sapere, come ogni bambino dovrebbe essere. Ricordò il sangue che colava dalle gambe della genitrice, piene di tagli e rovinate in eterno. Cosa le avesse causato quelle cicatrici non lo scoprì mai; nessuno ne fece parola l’indomani e tutti i servi vennero licenziati, o almeno la maggior parte, quelli con la lingua troppo lunga, e ne arrivarono altri. La kunoichi, allora ancora troppo piccola persino per addestrarsi, perse la sua balia e vide scemare la vita negli occhi della madre sempre di più, giorno per giorno finché non iniziò a insegnarle quello che sapeva sull’antico segreto e arte che si tramandava nella loro famiglia.
In modo indifferente, si avvicinò alla genitrice e le porse un braccio in un gesto di silenzioso affetto. Sebbene quella donna l’avesse promessa in sposa a uno sconosciuto, le avesse insegnato a combattere e impartito di uccidere a proprio piacimento per un gioco sadico che ancora non riusciva a comprendere, le voleva bene.  Era l’unica persona al mondo a cui non avrebbe mai voltato le spalle. La famiglia non si tradisce.
Mordere la mano che l’aveva nutrita e cresciuta, no, non se ne parlava proprio. Erano una cosa che le faceva accapponare la pelle per il ribrezzo.
«Grazie» sussurrò la donna, senza perdere il tocco d’autorità che tendeva a portarsi dietro come un’ombra. Eppure, per qualche secondo il cuore della giovane pompò più velocemente, felice.
 
Ryuu, il dragone, sostava davanti a lei con un apparente sorriso di cortesia stampato sul viso. Negli occhi brillava la classica scintilla d’imbarazzo che tutti i giovani provano davanti a una nuova conoscenza; un leggero barlume mosso da varie domande ed emozioni che si contendono il trono in un intricato gioco di pensieri, supposizioni e idee. Restava comunque molto virile.
Teneva la schiena eretta e ciò permetteva alla fievole luce che entrava di colpire i suoi tratti migliori come le larghe spalle coperte dal kimono scuro che lo fasciava, i lineamenti decisi della mascella e gli zigomi alti. Era bello. Sorrise compiaciuta. Almeno non mi stuferò di guardarlo.
L’anziano seduto accanto a lui le sorride, mostrandole la dentatura che iniziava a diradarsi. «Kenshin» iniziò, voltandosi di scatto verso il padre «tua figlia è proprio una principessa.» Il padre rise, carezzando dolcemente la mano della kunoichi.
Nei suoi occhi neri come la pece la ragazza intravide un leggero lampo d’orgoglio e vanto. «Cosa vi avevo detto? La mia bambina è la più bella e la più regale fra le tutte le nobile in età da marito.» Le sue dita callose intente ad accarezzarle l’attaccatura del polso le infondevano calore e sicurezza a tal punto che, quando si ritrovò senza quel contatto, le parve che l’aria in quella stanza fosse diventata  gelida oltre ogni limite. Nascose le mani nelle larghe maniche a farfalla.
«Prima abbiamo parlato molto» affermò la vecchia padrona di casa, interrompendo il leggero silenzio, «e vostra figlia si è dimostrata cordiale ed educata oltre ogni mia aspettativa.» Poi si voltò verso il nipote e gli puntò addosso uno sguardo severo. «E’ la sposa migliore che tu potessi desiderare, Ryuu.»
Lui la guardò sorridendole e annuì. «Non dubito delle vostre parole, nonna.» Si alzò imponendo la propria figura su tutti i presenti nella stanza. La sua ombra oscurava il poco sole in quella camera e copriva ogni cosa come un’immensa coperta densa e catramosa.
La kunoichi fissò Ryuu per quello che le parve essere un secolo, studiò i suoi lineamenti alla perfezione e il modo in cui i suoi muscoli si muovevano e reagivano agli impulsi che lui comandava. Nel vederlo dalla sua angolazione, seduta, lui pareva imponente e invincibile. Ma è solo un uomo, non sono immortali.
«Mia signora, perché non mi accompagnate a fare una passeggiata? Vi mostrerò i giardini, se la cosa vi aggrada.» Stava innanzi a lei con la mano tesa, leggermente tremante per lo sforzo.
Gli sorrise e accettò, stringendo un muto patto che ben presto l’avrebbe incatenata. Mentre uscivano dalla stanza gli occhi dei parenti erano pressanti sulle loro spalle, presenze antipatiche e che creavano solo disturbo. Lei non era una persona in cerca d’attenzioni, al contrario tendeva a restare il più possibile nell’ombra e non dare nell’occhio. Le sue mani erano sporche di sangue, non innocente ma pur sempre sangue, ed era meglio che le persone –specialmente gli abitanti del villaggio-  non la vedessero. C’era sempre la possibilità che qualche uomo frequentatore del quartiere rosse la riconoscesse.
Finalmente la porta alle loro spalle scorse e il fardello visivo cessò. Tirò un leggero sospiro di sollievo.
«Mia signora» sorrise il nuovo Capo Villaggio «mi segua.» Senza sfiorarsi s’incamminarono.
Non le sfuggirono le figure appostate sugli alberi e sul tetto che, silenziosamente, si mossero con loro.
 
 


Nella luce pomeridiana il viso della donna che aveva di fianco brillava splendente. Piccoli ciuffi di capelli neri le cadevano dall’acconciatura con accuratezza. Le incorniciavano il viso lungo e delicato, brillante di giovinezza.  L’ombrello decorato che reggeva fra le mani, all’apparenza morbide, volteggiava e girava dolcemente mosso dalle sue dita lunghe e curate.
Con eleganza la figlia di Kenshin si abbassò ad accarezzare una carpa rossa. Sorrideva in modo così semplice che Ryuu si sentì quasi un intruso. Troppo alto. Troppo scuro. Troppo privo di vita. Troppo spaventato da quello che avrebbe dovuto rappresentare d’ora in avanti per quella creatura innocente.
«Perché non provate a nutrire le carpe, mio Signore?» lo richiamò lei, porgendogli il palmo aperto ricoperto di briciole di pane.
Ryuu alzò un sopracciglio. «E quelle dove…?» domandò sorpreso.
Lei sorrise furba, i suoi occhi neri luccicarono di felicità. «Porto sempre un sacchettino di pane dentro le mie maniche, così quando trovo un laghetto nutro i pesci. Lo trovo davvero rilassante» gli confidò, nascondendo una risata infantile.
Ryuu allungò una mano e aspettò che la giovane gli riempisse la mano di briciole. Si avvicinò assieme a lei alla riva del laghetto e, seguendo il suo esempio, si accucciò. Con movimenti aggraziati la giovane increspò l’acqua richiamando l’attenzione dei pesci poi gettò le briciole. Le bocche delle carpe ingoiavano cibo e acqua senza differenza, ed erano talmente tante che sembrò che nello stagno stessero prendendo vita non uno ma circa trenta mulinelli contemporaneamente.
Il ragazzo rise quando, troppo concentrata a sorridere e prendersi gioco degli animali, la ragazza si lamentò di aver sporcato il proprio abito come una fanciulla. L’aiutò ad alzarsi e le propose di aiutarla a pulirlo.
«No» ripose prontamente lei, distanziandosi da lui di qualche passo. Quando si riprese dallo scatto, respirò a fondo e aggiunse: «No grazie, mio Signore. Non vorrei mai che il vostro bel kimono si macchi.» Stringeva la manica con una mano, stretta.
«Mi permetta almeno di chiederle di»
«Sto bene, non si preoccupi, mio Signore» lo interruppe lei. Un nuovo sorriso andò a curvarle le labbra. «Purtroppo, non sono una ragazza molto attenta in questi casi. Mi vogliate scusare, la mia infantilità di tanto in tanto esce a galla» mormorò con lo sguardo rivolto verso l’acqua. «Sono desolata, mio Signore.»
«Va bene così.» Il Capo Villaggio si accarezzò i lunghi capelli scuri. Osservò le proprie mani grandi e aperte, le chiuse e alzò il mento nella direzione della giovane muta, arrossita. «Dammi del tu, mia Signora, te ne prego» si fece forza «e chiamami Ryuu. Presto saremo sposati e, mi farebbe piacere che tu mi chiamassi con il mio nome, mia Signora.» Fece qualche passo in avanti. Più avanzava più la distanza fra loro si accorciava. Lei era così bella, si disse, mentre era intenta ad analizzarlo con quegli occhi grandi da cerbiatto. Aveva proprio l’aspetto di una boccata d’aria fresca.
«Te ne prego, mia Signora» sussurrò ancora.
Lei si morse visibilmente una guancia, dopo di che la lasciò andare ed espirò. «Ren. Vorrei che anche voi mi chiamaste per nome, mio Signore Ryuu.»
«Loto» mormorò sorridente lui, venuto a conoscenza del nome della nuova compagna. «E’ un nome meraviglioso, adatto a una bellezza come te.» Lei sorrise imbarazzata, abbassando lo sguardo a terra, rossa in viso.
Era bellissima, si disse il ragazzo, degna di portare un nome tanto elegante come quello. Bellezze come Ren si vedevano raramente; molto probabilmente fiorivano ogni cent’anni, come il fiore di cui portava il nome.
Chissà se l’avrebbe paragonata ad un fiore senza spine se l’avesse conosciuta davvero? Forse gli sarebbe parsa più il filo che collega il loto al fondo degli stagni in cui fiorisce, una pericolosa arma che asfissia fino a condurre ad una morte lenta e tortuosa.
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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