Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    04/03/2016    1 recensioni
È strano pensare che per una volta a salvare la situazione non sia stato Sherlock Holmes, ma la sua nemesi, James Moriarty. Ma quando il suo volto compare sugli schermi di tutto il paese, Sherlock sa bene che non può essere Jim, l'autore di quel messaggio. Qualcun altro sta tentando di trattenerlo a Londra. Qualcuno che sta tentando di ottenere qualcosa da lui. Qualcuno che conosce i suoi punti deboli e sa come sfruttarli a suo favore. Qualcuno che si spingerà così oltre da riuscire a stravolgere completamente il mondo di Sherlock Holmes, un mondo che il giovane consulente investigativo aveva sempre dato per scontato.
Questa volta, Sherlock non si ritroverà ad affrontare un semplice criminale, ma dovrà fare i conti anche con se stesso e con le proprie ombre e come sempre non sarà solo.
Il gioco è ricominciato.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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This is war
 

The disappointment
 
 
 Sherlock e John si fermarono di fronte alla lapide di Mycroft.
 Il funerale si era tenuto settimane prima. Era stato intimo, su richiesta di Sherlock e, a parte lui e John, avevano partecipato solo Lestrade, la signora Hudson e i genitori di Mycroft e Sherlock, che se n’erano andati prima della fine della cerimonia, per non dover affrontare nuovamente l’ira del figlio, dopo tutto ciò che era successo e dopo tutte le bugie. Greg e la signora Hudson, d’altro canto, erano rimasti accanto a Sherlock, nel più completo silenzio. Un silenzio che stava a significare che sarebbero sempre stati lì per lui ogni volta in cui ne avesse avuto bisogno, perché tutti sapevano che il consulente investigativo avrebbe avuto bisogno di aiuto.
 Alla fine della cerimonia la padrona di casa l’aveva stretto a sé, accarezzandogli i capelli e scoccandogli delicati baci sulla guancia, per confortarlo. «Tesoro, ti voglio bene.» aveva sussurrato.
 Sherlock aveva annuito e quando si era allontanato dalla donna le aveva sorriso dolcemente per ringraziarla, baciandole la fronte. Poi si era voltato verso Lestrade, che in piedi, immobile accanto a John. Era stato dimesso dall’ospedale qualche giorno dopo Watson ed era tornato al lavoro la settimana seguente, nonostante John glielo avesse caldamente sconsigliato.
 L’Ispettore l’aveva osservato per qualche istante, poi si era avvicinato e gli aveva poggiato una mano sulla spalla. Quando Sherlock aveva abbassato lo sguardo, l’aveva poi abbracciato. «Sono qui, Sherlock» aveva mormorato, accarezzandogli i capelli e la schiena. «Per qualsiasi cosa, sarò sempre qui.»
 «Grazie.» aveva risposto il moro, in quello che non era stato più di un sussurro. «Mi dispiace. Per tutto. Perdonami.»
 «Non è colpa tua.» aveva replicato l’Ispettore, poi l’aveva lasciato andare e avevano lasciato il cimitero per tornare a Baker Street. Greg e la signora Hudson sul sedili anteriori dell’auto e Sherlock e John su quelli posteriori, mano nella mano.
 Ma quel giorno, al cimitero, erano presenti solo Sherlock e John.
 Il medico sapeva bene che l’amico aveva bisogno dei suoi spazi, perciò si era limitato a seguirlo quando era uscito di casa e aveva attraverso il cimitero a poca distanza da lui, senza fare domande. Non aveva avuto bisogno di chiedere dove volesse andare o perché da giorni non proferisse parola: era ovvio e non c’era stato bisogno di domande superflue.
 Per questo in quel momento erano immobili, uno accanto all’altro, di fronte alla lapide in marmo su cui spiccava, a caratteri elaborati color argento, il nome di Mycroft Holmes.
 John poteva percepire la rigidità nella postura di Sherlock e la tensione che il suo corpo emanava e sapeva perché si stava comportando così, ma quello non era il momento di parlare, nemmeno per elargire consolazioni. L’unica cosa che Watson fece, fu far scivolare la mano in quella dell’amico e chiudere le proprie dita intorno al suo mignolo e all’anulare, senza dire una parola e senza aspettarsi che la stretta fosse ricambiata.
 
 John venne svegliato, nel bel mezzo della notte, dal bagliore della luce proveniente dal piano inferiore. Quando il medico aprì gli occhi, si mise a sedere sul letto, facendo leva sugli avambracci, sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco la stanza. La luce proveniva dal salotto e penetrava dalla porta semiaperta illuminando una porzione di materasso. Watson poteva sentire il fuoco scoppiettare nel camino e vedere le ombre delle fiamme proiettate sulle pareti della rampa di scale. Eppure era certo di aver visto Sherlock andare a dormire. Ma chi altro avrebbe potuto accendere il camino nel bel mezzo della notte?
 L’uomo si stropicciò gli occhi e scostò le coperte. Aprì lentamente la porta e scese le scale a piedi nudi, per evitare di fare troppo rumore e svegliare anche la signora Hudson. Una volta sulla soglia del salotto, si fermò.
 Sherlock era seduto di fronte al camino, le ginocchia strette al petto, il capo poggiato sopra esse e si stava dondolando avanti e indietro, impercettibilmente. L’unico rumore udibile, oltre a quello del fuoco che scoppiettava nel cammino, era il flebile suono dei suoi singhiozzi sommessi.
 John aveva già visto Sherlock piangere… era successo sul tetto del Bart’s prima che decidesse di buttarsi e dopo aver sparato a Magnussen, ma non si sarebbe mai aspettato che avrebbe avuto una reazione dal genere anche dopo la morte di suo fratello. Perché se c’era una cosa della quale John era certo, era che in quel momento il suo amico stesse piangendo per Mycroft. Il problema era che, a parte quando erano stati rapiti da Sherrinford e si trovava in stato confusionale, non era mai accaduto. Per la morte di Mycroft aveva gridato e si era infuriato, ma mai aveva pianto. Non l’aveva fatto nemmeno al suo funerale.
 Ma quello non era il momento di chiedersi perché stesse piangendo nel bel mezzo della notte. Non poteva certo lasciarlo in quelle condizioni, rimanendo a guardare. Perciò il dottore, senza attendere oltre, avanzò e raggiunse il consulente investigativo. Sospirò e si inginocchiò al suo fianco, poggiandogli una mano sulla spalla. Non aveva idea di come avrebbe potuto a calmarlo, perciò si limitò ad accarezzargli delicatamente la schiena e i capelli.
 Holmes sollevò lo sguardo. I suoi occhi erano spenti e colmi di lacrime e quando incontrò quelli del dottore, le pupille si dilatarono e le lacrime presero a scendere lungo le sue guance.
 «Vieni qui, Sherlock.» sussurrò John, accarezzandogli una guancia.
 Sherlock poggiò il capo sul petto dell’amico, aggrappandosi alle sue spalle e lasciandosi stringere; i suoi singhiozzi si fecero sempre più potenti, fino a diventare rotti e convulsi, rimbombando in quella stanza che si era fatta troppo vuota e fredda.
 John affondò una mano nei capelli dell’amico, circondandogli il petto con un braccio e cullandolo dolcemente. E lo tenne stretto a sé per lungo tempo, sperando potesse riuscire a buttare fuori tutto il dolore che fino a quel momento aveva trattenuto.
 
 Quando i singhiozzi si furono calmati, dopo mezz’ora passata stretto tra le braccia del dottore, Sherlock si allontanò da John e i loro occhi si incontrarono. Le lacrime continuavano a rigare le guance scavate del consulente investigativo, ma i suoi occhi sembravano più chiari e limpidi di quanto non lo fossero stati in quegli ultimi giorni.
 John gli accarezzò le guance con i pollici, asciugando le lacrime che stavano correndo sulla sua pelle nivea e perfetta, accennando un sorriso rassicurante.
 Dopo un momento di assoluta immobilità passato ad osservare il viso del suo migliore amico, Sherlock, senza preavviso, si mosse in avanti e poggiò le labbra su quelle del dottore, in un bacio casto e delicato. Non durò a lungo e fu lo tesso Holmes il primo a romperlo, resosi conto di ciò che aveva fatto. Si allontanò da John, gli occhi spalancati per lo stupore, le guance colorate di un leggero rossore.
 «Mi dispiace, John… io… scusami…» balbettò, allontanandosi. «Non volevo… è… è stato solo-»
 John non gli permise di concludere: portò una mano dietro il suo capo e lo tirò nuovamente verso di sé. Lo baciò dolcemente, muovendo le proprie labbra sulle sue; accarezzò il suo labbro inferiore con la lingua e quando Holmes le dischiuse, il medico ansimò sulla sua bocca penetrandola con la lingua per cercare la sua e intrecciando le dita nei suoi capelli ricci per avvicinarlo maggiormente a sé.
 Un gemito sfuggì dalle labbra di Sherlock. Quando si allontanò da Watson, a corto di fiato con il respiro accelerato e le guance arrossate, gli rivolse uno sguardo perplesso. «Perché l’hai fatto?» ansimò sulla sua bocca. 
 «Per ne abbiamo bisogno.» esordì John, ma immediatamente si bloccò e abbassò lo sguardo. «Stai soffrendo, Sherlock, e dopo tutto ciò che abbiamo passato… che hai passato…»
 Sherlock ansimò e si mise in piedi, uno sguardo colmo di delusione dipinto sul volto. «Sono davvero solo questo per te?» ringhiò, ricacciando indietro le lacrime e indietreggiando. Non poteva credere che il suo migliore amico l’avesse baciato solo perché provava pietà per lui. «Un cucciolo ferito per cui provare pietà e del quale doversi prendere cura?»   
  Il medico si alzò a sua volta. «No, ma certo che no.»
  «Allora perché mi hai baciato?» domandò il consulente investigativo, con voce tremante. «Anche quel giorno a capannone, prima che ti portassero via… perché l’hai fatto? Perché mi hai baciato?»
 «Perché tu hai detto di amarmi e io…» sospirò, scuotendo il capo. «Volevo che sapessi che sei importante per me e che resistessi fino alla fine.»
 «Ti avevo detto che non volevo che ricambiassi i miei sentimenti e che tutto sarebbe potuto rimanere esattamente come prima.» replicò il consulente investigativo, ferito da quella rivelazione. «Non voglio che tu faccia questo solo perché Mary non è più qui per darti quello che vuoi.»
 Gli occhi del dottore si spalancarono. «Non è per questo che ti ho baciato.»
 «Ah, davvero?» replicò. «Vuoi negare che lei ti manchi?»
 Watson deglutì a vuoto e abbassò lo sguardo.
 «Come immaginavo.» disse Holmes. «Be’, sappi che io non prenderò il suo posto. Non sarò il tuo amante o… amico di letto o qualsiasi cosa tu voglia che io sia.» affermò in tono duro, quasi con disprezzo. «Ti amo, John, sarei disposto a fare qualsiasi cosa per te, ma non questo. Non lascerò che mi usi in questo modo. Non lascerò che strappi quel briciolo di me stesso che mi è rimasto.»
 «Sherlock, sei impazzito?» esclamò John. «Io non voglio usarti.»
 «Allora perché mi stai facendo questo?» domandò, le lacrime pronte a sgorgare dai suoi occhi per l’ennesima volta, nonostante stesse tentando di esercitare tutto l’autocontrollo di cui era capace, per trattenerle. «Perché mi hai baciato sapendo che non potrai mai amarmi?»
 Il volto del dottore venne attraversato dal dolore. «Non ho mai detto che-»
 «Non hai mai detto che non potrai amarmi?» chiese l’altro, interrompendolo. «Quindi stai affermando che potresti provare per me ciò che hai provato per Mary? Che potresti nutrire per me gli stessi sentimenti che avevi nei suoi confronti?»
 Watson tentò di parlare, ma il consulente investigativo lo interruppe.
 «Basta, smettila» fu quasi una preghiera. «Smettila di ferirmi… ti imploro, basta.» mormorò Sherlock e abbassò lo sguardo, sentendo le lacrime rigargli le guance.
 «Sherlock…» disse John, tentando di prendergli la mano.
 Holmes si scostò e senza aggiungere altro, prese la giacca e uscì dall’appartamento, sbattendo la porta.
 
 Quando Lestrade aprì la porta del suo appartamento, intenzionato a prendere a calci chiunque avesse avuto la brillante idea di suonare alla sua porta a quell’ora, sentì il cuore fermarsi nel petto. Di fronte a lui c’era Sherlock, gli abiti zuppi e i capelli neri grondanti d’acqua e incollati al volto, pallido come un cencio; gli occhi erano arrossati e gonfi, le pupille dilatate e vuote. A giudicare da quanto era bagnato, doveva aver camminato sotto la poggia per chilometri. Probabilmente aveva lasciato Baker Street e aveva raggiunto il suo appartamento a piedi… ma perché? Con il temporale che infuriava su Londra dal quel pomeriggio, solo qualcuno completamente pazzo, o profondamente disperato, sarebbe uscito di casa. E l’aspetto del consulente investigativo gli suggerì che l’opzione più sensata fosse la seconda.
 «Sherlock, cos’è successo?» chiese Greg, aprendo maggiormente la porta.
 Gli occhi di Holmes si riempirono di lacrime e prima di poter rispondere, un singhiozzo eruppe dalle sue labbra e lo fece in maniera così violenta, che l’uomo si portò una mano allo stomaco, che era stato attraversato da una potente fitta di dolore. Abbassò lo sguardo, pentendosi immediatamente per non essere riuscito a mantenere il contegno di fronte all’Ispettore.
 «Oh, mio Dio…» sfuggì dalle labbra di Lestrade, che senza esitare, gli prese la mano e lo guidò all’interno dell’appartamento. Quando ebbe richiuso la porta, sentendo che Sherlock aveva preso a singhiozzare convulsamente, poggiò una mano sulla sua spalla e lo tirò a sé per stringerlo tra le braccia. «Shh… shh… tranquillo.» sussurrò, lasciando che il moro si aggrappasse alle sue spalle. «Tranquillo, va tutto bene…»
 «Ho bisogno di te…» mormorò Sherlock, tra le lacrime, contro la spalla del poliziotto. Si portò le mani alle orecchie e chiuse gli occhi. «Aiutami… ti prego, Greg, aiutami… non lasciarmi anche tu…»
 Greg sentì il cuore dolere. Poche erano state le occasioni in cui Sherlock aveva utilizzato il suo nome di battesimo, senza storpiarlo o sbagliarlo: quando era stato rapito per avvertirlo del guaio in cui si era cacciato e quando Sherrinford gli aveva sparato e lui gli era quasi morto fra le braccia. Perciò, in quel momento, doveva essere successo qualcosa di altrettanto grave.
 «Sono qui, Sherlock. E non ti lascerò, te lo prometto.» replicò, accarezzandogli i capelli. «Dimmi cos’è successo.»
 L’uomo scosse il capo e singhiozzò.
 «Parlami, Sherlock. Se non lo fai non posso aiutarti.» fece notare il poliziotto. Poi sospirò e vedendo che l’amico non sembrava aver intenzione di parlare, riprese. «Vieni, sediamoci sul divano.» concluse; lo accompagnò e lo fece sedere, prendendo posto al suo fianco e poggiandogli una coperta sulle spalle, dato che aveva gli abiti bagnati. «Cos’è successo?»
 Sherlock scosse il capo. «Io…» balbettò. «Io non…»
 Greg aggrottò le sopracciglia. Per quanto Sherlock potesse essere stato sconvolto, non era mia stato più confuso che in quel momento. C’era decisamente qualcosa che non andava. Sollevò una mano e gliela poggiò sulla fronte.
 «Dio, Sherlock, scotti.» affermò e i suoi occhi si spalancarono. «Hai la febbre alta.»
 «Sto bene» bofonchiò il moro, scuotendo il capo. Prese un bel respiro e alla fine raccontò ogni cosa, senza versare una lacrima. Ma alla fine la febbre ebbe la meglio e l’uomo esplose in singhiozzi convulsi, crollando nuovamente.
 
 Un’ora dopo Sherlock era ancora sdraiato sul divano di Lestrade, tremante e bollente per la febbre, e Greg era seduto accanto a lui, un panno bagnato fra le mani a premerlo sulla sua fronte madida di sudore per tentare di abbassare la temperatura. Nonostante fosse seriamente preoccupato per la sua condizione, l’Ispettore non poteva chiamare John. Sherlock, non appena aveva udito il suo nome si era agitato e gli aveva esplicitamente chiesto di non chiamarlo, perciò Lestrade si era limitato a inviargli un SMS per fargli sapere che il consulente investigativo sarebbe rimasto da lui per la notte, ripromettendosi che se la situazione fosse peggiorata, avrebbe chiesto l’aiuto del medico senza esitare.
 In quel momento, con uno Sherlock pallido e tremante steso accanto a lui, non poté fare a meno di portarsi le mani al volto e sospirare, distrutto di fronte a quella situazione, che era evidente si fosse fatta insostenibile anche per una persona come Sherlock Holmes.  
 «Oh, Sherlock…» sussurrò poi, accarezzandogli la fronte. «Cosa ti sta succedendo?»
 
 «Non posso credere che ancora ti ostini a rintanarti in questo posto.»  
 Sherlock aprì gli occhi. Si trovava a Baker Street, nel suo salotto.
 «Myc…» sussurrò il consulente investigativo, sentendo il cuore accelerare, non appena ebbe messo a fuoco la figura in piedi di fronte a sé.
 Mycroft lo stava osservando con il capo inclinato e il suo tipico sguardo curioso dipinto sul volto. Il suo completo era perfetto come sempre, nero e bianco, a mettere i risalto i suoi capelli e la barba rossicci. I suoi occhi blu erano brillanti e per la prima volta dopo anni sembravano veramente felici.
 Un pensiero si impossessò di Sherlock. Mycroft era morto… ricordava bene che Mary l’aveva ucciso. Ricordava il suo cadavere all’obitorio, il sangue sui suoi vestiti, il pallore del suo volto…
 «Mary ti ha sparato… sei morto. Come…?» domandò, interrompendosi e schiarendosi poi la voce. «Come puoi essere qui?»
 «Che razza di domanda insensata è mai questa?»
 Sherlock aggrottò le sopracciglia, poi realizzò. «Sta succedendo tutto nella mia testa, non è così?» chiese. «Siamo nel mio palazzo mentale?»
 «Sì.» confermò il maggiore.
 «Non sei reale?»
 «No.»
 Le lacrime appannarono la vista di Sherlock, man mano che la consapevolezza che suo fratello non era reale si faceva strada in lui. Volse lo sguardo, per nascondere le lacrime che erano traboccate dai suoi occhi e tentò di ignorare il groppo che gli aveva bloccato la gola.
 «Non piangere, Sherlock» disse Mycroft, parlando dolcemente.
 «Mi manchi, Mycroft… mi manchi così tanto…» singhiozzò il minore, asciugandosi le guance con un rapido gesto della mano. «È tutta colpa mia se Mary ti ha ucciso. Se ti avessi dato ascolto… se non ti avessi trattato così… perdonami, Myc… perdonami, ti prego…»
 Il politico accennò un sorriso e avanzò. «Tu non hai nessuna colpa, Sherlock.» replicò. «Sherrinford voleva portarti via tutto ciò che avevi di più caro e ha scelto il modo più terribile per farlo.»
 «Tu mi avevi avvertito.» replicò il minore. «Mi avevi detto che sarebbe successo, ma io ho preferito ignorarti… era evidente che Sherrinford ci avrebbe fatto del male, ma io… l’ho fatto per vendicarmi su di te, anche se non avevi colpe e adesso ti ho perso… ti ho perso e non tornerai più…»
 «Oh, Sherlock…» sussurrò Mycroft, allungando una mano e accarezzandogli una guancia.
 Sherlock si lasciò andare a quel contatto che, nonostante sapesse non essere reale, era così concreto, tangibile e dolce, che per un momento vi si abbandonò. Si abbandonò alla sensazione della mano di suo fratello a contatto con il suo viso e altre lacrime gli rigarono le guance.
 «Anche se hai perso me, hai ancora accanto persone che ti amano e che saranno lì per te quando ne avrai bisogno.» riprese il maggiore. «Non sei solo.»
 «Ma io ho bisogno di te.» replicò il consulente investigativo. «Non puoi lasciarmi. Non abbandonarmi, Myc…»
 «Io non ti abbandonerò mai. Non ti lascerò, Sherlock, sarò sempre qui con te.» disse e gli poggiò una mano sul petto, all’altezza del cuore. «Sarò qui ogni volta in cui avrai bisogno di me, ma adesso devi lasciarmi andare. Non puoi aggrapparti a questo, devi tentare di andare avanti.»
 «Come?» chiese, le lacrime che gli rigavano le guance. «Non ce la faccio. Non senza di te.»
 «Hai John. E Greg, Molly, la signora Hudson… loro saranno lì per te quando ne avrei bisogno. Sono tuoi amici e non ti lasceranno solo.»
 Il consulente investigativo scosse il capo. «John non mi vuole.» affermò, abbassando lo sguardo. «Non dopo ciò che gli ho fatto e che gli ho detto. Lui non mi vorrà più. Non mi ha mai voluto.»
 Mycroft sospirò, sorridendogli dolcemente. «Lui ti ama, Sherlock. Ho visto come ti guarda e come si comporta quando è con te. Tu lo rendi felice, lo completi e gli dai tutto ciò di cui ha bisogno. Come potrebbe non volerti?» chiese, inclinando il capo per cercare il suo sguardo. «Si prenderà cura di te meglio di quanto abbia mai fatto io, perché è innamorato di te. E tu dovrai solo lasciarti amare.»
 Altre lacrime rigarono le guance di Sherlock, che riportò gli occhi sul viso del fratello, incontrando i suoi. «Non credo di esserne capace.»
 «Non dire sciocchezze, certo che ne sei capace.» replicò il maggiore. «Io ti amo moltissimo, Sherlock, e non sono l’unico. Sei un brav’uomo, gentile e capace di grandi cose e, proprio come me, i tuoi amici l’hanno visto e ti amano per questo.»
 A Sherlock sfuggì un sorriso. «Credevo mi vedessi soltanto come un cacciatore di draghi.»
 «No.» replicò il maggiore, scuotendo il capo e ricambiando il sorriso. «Sei sempre stato molto più di questo.»
 Il minore sospirò. «Ti amo tanto, Mycroft.»
 «Anche io ti amo tantissimo, Sherlock.» disse il politico e si avvicinò. Prese il volto del fratello tra le mani e gli baciò la fronte, soffermandosi per un momento con le labbra sulla sua pelle. «Sempre.»
 
 Sherlock si svegliò di soprassalto, respirando pesantemente.
 Greg era seduto accanto a lui e non appena il consulente investigativo aprì gli occhi, gli poggiò le mani sulle spalle, avendo intuito che fosse stato svegliato da un incubo. «Va tutto bene, Sherlock.» assicurò accarezzandogli il viso. «Era solo un sogno.»
 Holmes si mise seduto e ansimò, guardandosi intorno, confuso. La febbre rendeva tutto confuso e indefinito, nebuloso, tanto che nemmeno la sua mente sembrava abbastanza lucida da potergli permettere di pensare con coerenza. Si portò una mano alla fronte.
 «Sherlock, devi rimanere sdraiato, hai la febbre alta.» proseguì Lestrade.
 Sherlock scosse il capo.
 «Sì, Sherlock. Ascoltami, ti prego.» lo implorò, poggiandogli le mani sulle spalle, circondandogli poi il viso e accarezzandogli le guance con i pollici. «Sdraiati.»
 Holmes chiuse gli occhi per riordinare le idee e la prima parola che gli salì alle labbra, dopo svariati tentativi di districare qualcosa dal groviglio di pensieri che affollavano il suo palazzo mentale, fu un nome. E quel nome venne appena sussurrato, rimbombando, però, tra le pareti della stanza.
 «John…»
 «Non è qui.» disse Lestrade.
 «John…» ripeté Sherlock, gli occhi colmi di lacrime, il volto pallido e bollente a causa della febbre, riaprendo gli occhi. «Voglio… chiama John… per favore, chiamalo… voglio John…»
 «Ok» disse Greg. «Adesso lo chiamo. Tu, però, devi tranquillizzarti.» prese il cellulare dalla tasca e digitò un messaggio, inviandolo poi a Watson.
 Mentre stava poggiando il cellulare sul tavolino da caffè sentì il capo di Sherlock poggiarsi sulla sua spalla. Si voltò e vide che l’uomo aveva chiuso gli occhi e che il suo corpo si era rilassato. Sospirò e gli circondò il petto con le braccia, accarezzandogli i capelli con una mano. Lo sentì singhiozzare sommessamente contro la sua spalla e affondò le dita nei suoi ricci.
 «Sono qui» sussurrò soltanto.
 Poco dopo, Sherlock sollevò le braccia e si aggrappò alle spalle dell’Ispettore, stringendosi contro di lui. E fu in quel momento che capì. Capì che Sherrinford, quando si era sparato, aveva firmato non solo la condanna a morte, ma anche quella di Sherlock Holmes. Perché avendo ucciso Mycroft, ferito John e sparato a Lestrade l’aveva segnato per sempre, condannandolo a convivere con il senso di colpa per ciò che era accaduto. Per questo si era ucciso… perché aveva raggiunto il suo scopo: distruggere Sherlock, facendolo andare in pezzi poco alla volta, ogni giorno di più.
 
 John raggiunse l’appartamento di Lestrade venti minuti dopo aver ricevuto l’SMS.
 Aveva provato a chiamare Sherlock svariate volte da quando se n’era andato di casa, ma lui non aveva risposto, il che non aveva fatto che accrescere la sua preoccupazione. Ma quando aveva ricevuto l’SMS dell’Ispettore aveva potuto tirare un sospiro di sollievo, sapendo che il consulente investigativo era salvo e al sicuro. Tuttavia, al secondo messaggio, in cui Greg gli aveva scritto che Sherlock aveva chiesto di lui, la paura era tornata ad impossessarsi di lui. Quindi era uscito dal 221B ed era salito sul primo taxi.
 Bussò alla porta dell’appartamento e quando Greg la aprì, si scostò e gli indicò Sherlock – seduto sul divano, con il capo fra le mani, avvolto in una coperta – il medico non attese un invito. Entrò e raggiunse l’amico, prendendo posto al suo fianco. Lentamente gli si avvicinò e gli poggiò una mano sulla spalla per richiamare la sua attenzione.
 «Sherlock?» lo chiamò.
 Il consulente investigativo sollevò il capo di scatto, destato dalla voce famigliare del suo migliore amico. I suoi occhi erano colmi di lacrime e sgranati, le pupille dilatate a coprire quasi interamente l’iride azzurra, e il volto pallido e tirato.
 «John…» mormorò con voce impastata.
 «Sì.» confermò il medico. «Sì, sono io.»
 Sherlock ansimò e le sue guance arrossate si bagnarono nuovamente di lacrime. «John…»
 John colmò la distanza che li separava e lo strinse tra le braccia, lasciando che poggiasse il capo sul suo petto e si rannicchiasse contro di lui. Sentendolo singhiozzare, gli accarezzò i capelli. «Shh… va tutto bene. Sono qui.» sussurrò. «Sono qui con te, Sherlock.»
 «Sto cadendo, John… sto cadendo di nuovo…» ansimò il moro, aggrappandosi alle sue spalle e scuotendo il capo, nuovamente in preda alle lacrime. «Non lasciarmi… non voglio cadere ancora…»
 «Non ti lascerò cadere.» promise il dottore. «Non lo farò. Te lo prometto.»
 Sherlock singhiozzò. «John…»
 «Shh… sono qui.» sussurrò, cullandolo fra le braccia. «Va tutto bene, sono qui. Non me ne vado, stai tranquillo.» e continuò a tenerlo stretto a sé.
 
 Non appena Sherlock si fu calmato, stretto tra le braccia di John, ruppe il silenzio. «Voglio andare a casa…» sussurrò. «Portami a casa, John…»
 John annuì e, insieme a Greg, aiutò Holmes a mettersi in piedi.
 «Ce la fai a camminare?» chiese il medico, vedendo che era instabile sulle gambe.
 Sherlock annuì, reggendosi a lui.
 «Ok.» concesse Watson, tenendolo per un braccio, mentre con l’altro gli aveva circondato la vita, poi si voltò verso Lestrade, ancora in piedi di fronte a loro. «Grazie di tutto Greg.»
 L’Ispettore annuì. «Non c’è di che. Chiamami.» concluse.
 John annuì e insieme a Sherlock uscirono dall’appartamento. Nonostante avesse ancora la febbre, il dottore sapeva che riportarlo a Baker Street era la cosa migliore, almeno lì avrebbe potuto riposarsi tranquillamente e anche Lestrade sarebbe potuto finalmente andare a dormire.  
 I due percorsero il corridoio e raggiunsero l’atrio del palazzo. Quando uscirono, un taxi li stava già attendendo accanto al marciapiede, pronto a raggiungere Baker Street. I due coinquilini salirono e Watson diede indicazioni. A quel punto l’auto partì, immettendosi sulla strada.
 Durante il viaggio, Sherlock continuò a tremare, scosso dalla febbre e dai brividi, ansimando sommessamente, con lo sguardo fisso fuori dal finestrino e le palpebre rese pesanti dal sonno accumulato in quel giorni.
 John, seduto accanto a lui, lo osservò per un lungo momento, poi allungò una mano e la poggiò sulla sua. La strinse e intrecciò le loro dita, accarezzandone il dorso con il pollice.
 Il consulente investigativo si voltò di scatto e puntò lo sguardo sulle loro mani. «Perché?» domandò, aggrottando le sopracciglia, incontrando poi gli occhi del coinquilino.
 «Perché mi piace tenerti la mano.» rispose, utilizzando le parole che Holmes gli aveva rivolto settimane prima quand’erano prigionieri in quel capannone.
 Sherlock scosse il capo. «Io non…» gemette e tentò di ritrarre la mano.
 John lo bloccò, prendendo le sue mani tra le proprie, per impedire che si allontanasse. «Non farlo, ti prego.» lo implorò. «Non allontanarti da me. Non chiudermi fuori.»
 Holmes lo osservò per qualche secondo, sbattendo più volte le palpebre per metterlo a fuoco oltre il velo creato dalla febbre. Alla fine, si limitò a spostarsi più vicino a lui sul sedile e poggiare il capo sulla sua spalla, chiudendo gli occhi.
 John accennò un sorriso e gli accarezzò i capelli.
 
 John aiutò Sherlock e salire le scale del 221B e, una volta entrati nell’appartamento, lo accompagnò nella sua stanza. Lo fece sedere sul materasso e gli tolse il cappotto e la sciarpa, porgendogli un pigiama perché si cambiasse. Poi uscì dalla stanza, diretto in bagno. Prese una bacinella dal mobile sotto il lavandino, lo riempì d’acqua e dopo aver preso un piccolo asciugamano, tornò nella stanza, prendendo posto sul materasso, accanto all’amico, poggiando la bacinella sul comodino.
 Vedendo che Sherlock era ancora seduto sul materasso, gli poggiò una mano sul petto e fece passare l’altra dietro il suo collo, per farlo sdraiare. «Stai giù.» disse, poi lo coprì e sorrise, accarezzandogli il viso. Si voltò verso il comodino, immerse l’asciugamano nella bacinella, lo strizzò e poi lo poggiò sulla fronte di Sherlock.
 Il consulente investigativo tremò violentemente e ansimò, agitandosi sotto le coperte.
 «Hai freddo?» domandò John.
 Sherlock annuì e il medico si avvicinò all’armadio. Lo aprì e prese un’altra coperta, stendendola poi sul corpo del consulente investigativo. Gli accarezzò i capelli e accennò un sorriso, tornando a poggiare la pezza bagnata sulla sua fronte, prendendo posto al suo fianco, sul materasso.
 «Dormi, Sherlock.» disse dolcemente. «Vedrai che domani ti sentirai meglio.»
 L’uomo, ancora avvolto dall’alone della febbre, annuì e chiuse gli occhi e non ci volle molto tempo prima che scivolasse nel sonno.
 
 Sherlock aprì gli occhi lentamente, abbagliato dalla luce del sole che penetrava dalle persiane semiaperte. Inspirò profondamente e si voltò a destra e sinistra per capire dove si trovasse; sbatté più volte le palpebre e intuì di trovarsi nella sua stanza a Baker Street. Aggrottò le sopracciglia, non ricordando come ci fosse arrivato, ma dopo un momento di riflessione rammentò ciò che era successo a casa di Lestrade, l’arrivo di Watson e il ritorno a casa. Era stato John a riportarlo lì. Era andato a prenderlo e l’aveva riportato a casa con sé…
 Solo allora notò che seduto a terra, con la schiena poggiata al materasso, c’era John. Doveva essere rimasto lì tutta la notte per vegliare su di lui, dato che aveva la febbre alta. Sembrava profondamente addormentato e il suo volto era più rilassato rispetto alla sera precedente, quando si erano baciati e quando era andato a prenderlo all’appartamento di Lestrade.
 Sherlock sospirò, al ricordo di ciò che era accaduto la notte precedente. Aveva sbagliato a baciarlo, perché Watson si era sentito costretto a ricambiare e alla fine non erano arrivati ad altro che a un litigio. Holmes avrebbe tanto voluto poter tornare indietro e impedirsi di rivelargli tutto, fermarsi prima di confessargli i propri sentimenti, prima di rovinare ogni cosa, rischiando così di perderlo e allontanarlo da sé.
 Ad un tratto, il sogno della notte precedente e le parole di Mycroft gli balenarono nella mente.
 Lui ti ama, Sherlock.
 Ho visto come ti guarda e come si comporta quando è con te.
 Tu lo rendi felice, lo completi e gli dai tutto ciò di cui ha bisogno.
 Come potrebbe non volerti?
 Mycroft gli aveva assicurato che il suo sentimento era ricambiato, ma dopotutto, Mycroft, quel Mycroft, era solo una proiezione della sua mente. Rispecchiava in tutto e per tutto suo fratello, ma era il ricordo che la sua mente gli aveva proposto per poter sopportare la sua perdita. E poteva anche sbagliarsi. Non era come il Mycroft reale, il fratello che aveva sempre avuto ragione su tutto.
 Scosse il capo per tornare alla realtà. Non era il momento di pensarci. Doveva vegliare John prima che quella posizione gli provocasse qualche stiramento. Perciò gli poggiò delicatamente una mano sulla spalla, scuotendolo leggermente per svegliarlo.
 «John?» lo chiamò.
 Dopo un momento di immobilità, il dottore aprì gli occhi. Sospirò e si voltò, incontrando gli occhi dell’amico. «Ehi, Sherlock…» mormorò accennando un sorriso assonato. «Come ti senti?»
 «Meglio.» replicò il moro, sorridendo a sua volta. «Hai dormito sul pavimento?»
 «Credo proprio di sì.» confermò, stropicciandosi gli occhi e massaggiandosi la base del collo. «In realtà non contavo di addormentarmi ma di controllare che non avessi bisogno di nulla. Sfortunatamente devo essere crollato intorno alle quattro.» concluse con uno sbadiglio. «Sono solo le sei, perché non dormi ancora un po’?» propose voltandosi verso di lui e accarezzandogli i capelli.
 «Anche tu hai bisogno di dormire.» replicò Sherlock. «Sdraiati qui con me.» concluse, scivolando sul materasso in modo da lasciargli un po’ di spazio.
 John, troppo stanco per protestare, si arrampicò sul materasso e si infilò sotto le coperte insieme al consulente investigativo. «Molto meglio.» disse con un sorriso.
 «Dopo una notte sul pavimento mi sorprende che tu riesca a reggerti in piedi.»
 Il medico ridacchiò, poi si avvicinò a lui e gli circondò la vita con le braccia, poggiando il capo sul suo petto, chiudendo gli occhi e facendo aderire il proprio corpo a quello di Sherlock.
 Holmes esitò, sorpreso da quel gesto improvviso, ma alla fine si ritrovò a ricambiare la stretta, poggiando la propria guancia sui capelli dell’amico.
 Entrambi chiusero gli occhi e si lasciarono nuovamente andare alla stanchezza.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! ;) Rieccomi con il quinto capitolo… molto fluff e angst♥♥ perché diciamocelo, cosa c’è di meglio del fluff e dell’angst? ;) Come avrete letto, qui si è capito il perché della scelta di Sherrinford di suicidarsi nonostante stesse pianificando la sua vendetta da più di vent’anni. Lo so, forse sembrerà una spiegazione alquanto stupida – perché andiamo, quale persona sana di mente si sparerebbe per mettere in atto la propria vendetta? – ma nella mia mente, per una persona poco lucida come Sherrinford e per qualcuno disposto a tutto come Jim, poteva funzionare… :)
Ho deciso di pubblicare il prossimo domani, dato che domenica non ce la farei, quindi ci rivedremo molto presto! ;) :)
Grazie a tutti.
Bacioni, Eli♥
 
 
   
 
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