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Autore: nainai    27/03/2009    3 recensioni
Helena vorrebbe una vita normale, perchè lei si sente una donna "normale". Ma nella sua vita c'è una cosa speciale e lei deve difenderla da chi non capisce quanto lo sia. Deve difendere se stessa, il suo amore, la propria vita.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Brian Molko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione: la presente storia ha come protagonisti personaggi realmente esistenti ed altri di fantasia. Non c'è alcuna presunzione di veridicità / verosimiglianza. Non s'intende offendere nessuno. Nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso.

“La differenza tra un uomo ed una donna nel gesto creativo è la seguente: c’è sempre una donna che chiude a chiave la porta affinché il genio maschile possa esprimersi; lo separa dal mondo, risolve tutto per lui in modo che possa rimanere concentrato e puro, tiene alla larga gli intrusi e le quisquilie quotidiane e provvede a tutto dall’esterno cosicché all’interno lo spazio possa irradiare solo la sua luce. A una donna, Emilia cara, nessuno fa il favore di chiudere la porta.”

                                                                                                              “L’albergo delle donne tristi”
                                                                                                                          Marcela Serrano
 
HELENA
 
Come il nome di una canzone, come il nome di una divinità. Aveva sempre pensato che nel suo nome ci fosse qualcosa di speciale.
Nel suo nome.
Non nella sua vita.
 
E del resto così era stato. La sua vita si era svolta con la consuetudine un po’ annoiata che è propria della medio borghesia occidentale. Anche se lei di occidentale aveva un padre – tedesco – ed un’educazione un po’ retrò, che non era bastata a soffocare lo spirito di libertà ostinato e saccente che si tirava appresso fin dall’infanzia.
Per il resto aveva preso da sua madre. Occhi, capelli, altezza da bambola di porcellana, figura minuta e pelle color caramello. Nulla di strano se suo padre, da altrettanto annoiato cittadino mittel-europeo, si era lasciato conquistare dalla grazia esotica di una ragazzina giovane e ben cresciuta -allevata come bestia da matrimonio da un principe orientale che di ricco portava ormai solo il nome – in un safari al contrario, dove lui – fotografo e cacciatore – si era ritrovato improvvisamente preda di una trappola fabbricata in sguardi, ammiccamenti e profumi stordenti. Ci erano voluti vari anni perché il Vietnam smettesse di esercitare su di lui il fascino che aveva giustificato l’attardarsi lì nel compito sopravvalutato di prendere moglie e dare vita ad una bambina. Lei.
E seppure fosse ancora infinitamente piccola quando quello stesso Vietnam era sfilato via con il suo continente asiatico da sotto un aereo sospeso a mezz’aria sui suoi sogni di bimba, appunto, ad Helena sembrava di poter rievocare l’intero viaggio come se fosse un’illusione rimastale attaccata addosso. Chiudeva gli occhi e tornava a sentire gli odori di quando era lì, le pareva di tornare a riposare sotto i rami carichi di fiori nel giardino dei suoi nonni, e rivedeva la madre, come non era mai più stata dopo l’arrivo in Germania.
Non che poi in Germania ci fosse rimasta più a lungo. Ci aveva trascorso l’infanzia per quel che le rimaneva e poi l’intera adolescenza, ma quando l’aveva lasciata per trasferirsi in Inghilterra, lo aveva fatto completamente e totalmente, fino a rimuovere dalla testa anche i residui di ricordi. Come non era riuscita a fare con il Vietnam.
Ma a parte quelle due perdite – l’una delle proprie radici e l’altra dei propri ricordi – la vita di Helena si era sempre svolta nel modo usuale che le si confaceva e che nessuno aveva mai dubitato avrebbe avuto.
 
In questo quadro – astratto – di convenzioni sociali, Brian non era stato davvero un elemento di rottura. Puoi anche essere la donna di un cantante rock ma questo non vale sul serio a modificare la tua essenza, soprattutto quando l’immagine pubblica del tuo compagno e la sua vita vera non coincidono affatto, e lei aveva imparato in fretta che non coincidono quasi mai. Era certa, del resto, che in caso contrario la storia tra loro due non sarebbe neppure cominciata, ogni intesa che potesse essere respirata si era fondata fin dal principio sull’esatta comunanza di un’idea e di un modo di essere che affondava le radici nel comune bagaglio formativo. Ed entrambi, in qualche modo, erano dei fuggiaschi.
Nata nel giorno dell’amore, sussurrava suo padre guardandola, e gli brillavano gli occhi per la commozione che doveva trattenere in un sorriso. Brian non le aveva mai detto niente di altrettanto romantico, la loro complicità era più solida delle frasi d’amore e dell’adorazione cieca, era fatta di comprensione silenziosa e di un tacito accordo per sostenersi a vicenda. Entrambi portavano sul corpo le ferite della propria vita, le avevano riconosciute nell’altro ma non si erano offerti in uno slancio poetico per sanarle, avevano scelto più scientemente di portarne il peso in due, perché già sopravvivere in alcun casi è doloroso e ricominciare a vivere può ucciderti. Loro erano dei sopravvissuti, appunto. A se stessi, fondamentalmente, alla volontà di rompere con qualcosa che era rimasto invariabilmente attaccato alle ossa, quando la pelle era stata strappata via a forza. Avevano dovuto aspettare che le ferite si richiudessero, che la carne tornasse a coprirle di una patina protettiva, ed avevano dovuto imparare a convivere con la cicatrice che restava.
Per questo si erano guardati e si erano capiti. Prima nell’esitazione ferita e dolorante di un’adolescenza fuori tempo massimo, di quelle trascinate nel moto di ribellione, di fuga oltre i tempi, e poi nel lento ristabilirsi di una monotonia più famigliare, simile a quella stessa a cui avevano tentato di scappare ma che ostinatamente tentavano assieme di riempire di un contenuto differente.
 
Mentre ripensava al proprio nome, Helena si diceva che nella sua vita non c’era mai stato qualcosa di davvero speciale a parte quello.
***
E mentre lo pensava osservava il tavolo apparecchiato di bianco, la colazione sistemata come se fosse un’esposizione di fiori freschi, quasi a contrasto di colore. Era bella: la filigrana dei ricami sugli orli, il sole che scendendo tra le persiane aperte si fermava proprio intorno alle stoviglie altrettanto bianche, di porcellana senza decori. Le aveva scelte Brian a Parigi e se l’era fatte mandare lì, a Londra, mentre erano via, la cameriera le aveva spacchettate e lavate e poi sistemate - come si sistemano le composizioni di fiori - sulla tovaglia bianca della prima colazione.
Helena scosse la testa, domandandosi pigramente se il divagare a quel modo nelle riflessioni fosse una conseguenza inevitabile della maternità. Man mano che la gravidanza avanzava il suo corpo e la sua mente si intorpidivano ugualmente e lei si ritrovava soffocata nelle pieghe dei propri pensieri come in un mucchio di bambagia soffice.
Una sensazione che non provava da molti anni.
Posò le mani sulla pancia, in un gesto istintivo che le veniva sempre più naturale negli ultimi tempi, e sollevò gli occhi per distoglierli dalla trama del tessuto e riportarli sull’uomo seduto di fronte a lei ed intento a parlare al telefono con qualcuno. Brian non ricambiò il suo sguardo ed Helena rimase ferma ed in silenzio ad osservarlo, trovandolo un soggetto più interessante per le proprie divagazioni che non la combinazione di marmellata e the che la tavola ospitava. Sbuffò un sorriso a quell’accostamento, seppellendolo fra le dita della mano che si premette sulla bocca. Lui la sentì comunque e si voltò, distogliendo per un istante l’attenzione dalle parole della persona oltre l’apparecchio e riportandola su di lei, per guardarla con una domanda discreta negli occhi cangianti. Helena scosse la testa e non rispose.
Brian salutò il qualcuno in modo spiccio, segno che si trattava di una chiamata di lavoro, riattaccò e lasciò il cellulare accanto a sé, tra la tazza semivuota ed un piatto ancora ingombro.
-Scusami.- si giustificò brevemente per quella mancanza di educazione, ma non fornì nessun chiarimento ed Helena non ne pretese.
-Figurati.- mormorò invece, quieta.
-Hai da fare, oggi?- s’informò lui riprendendo da dove era stato interrotto.
Helena lo guardò, studiando per un momento il movimento che faceva la mano di Brian nell’abbassarsi fino al piatto, afferrare il coltello e raccoglierlo tra due dita per imburrare il pane tostato…
-Veramente sì.- rispose scuotendosi ancora. Si mise dritta sulla sedia, nascondendo in una smorfia la fitta leggera che avvertì alla base della schiena nel riportarla in asse. Quando tornò a guardarlo, il suo compagno la stava scrutando con apprensione, probabilmente consapevole di quel dolore improvviso. Gli sorrise per rassicurarlo.- Ho un pranzo di lavoro, con un editore che vorrebbe un servizio fotografico per una rivista. E poi c’è Alex che mi ha chiamata…Credevo te lo avesse detto.- cambiò bruscamente direzione- Mi ha chiesto se mi andava di uscire un po’ con lei. Per fare un giro tra donne, sai.- ridacchiò.
Brian ricambiò il sorriso, riprendendo ad imburrare il pane.
-Non dovresti strapazzarti troppo.- consigliò pacatamente.
Helena allungò il braccio attraverso la tavola, posò le dita piccole e magre, nervose, sul polso di Brian e, quando lui tornò a guardarla, scrollò le spalle incoraggiante.
-Prometto che se mi stanco torno subito a casa.- asserì lenta.- E comunque prometto che non farò più tardi delle cinque. Dovrei anche occuparmi del sito…
-Tutto questo tempo?!- sbuffò lui insoddisfatto, lasciando cadere l’ultima notazione della donna.
Helena rise apertamente stavolta.
-Tu non ci sarai tutto il giorno!- gli fece notare.- Cosa ti cambia se io sto qui o vado fuori?
-Mi cambia che sono in pensiero.- ammise lui.
Lei non disse nulla. I suoi occhi indugiarono sulla piega del polsino della camicia, scostò la stoffa con delicatezza, insinuandovi sotto le falangi per assaporare la consistenza della carne. Ogni volta che era a casa e stava bene, Brian riportava a galla quella sua tendenza ad ingrassare e mettere su pancetta! Alex lo trovava disdicevole, in previsione dell’uscita del nuovo disco aveva già annunciato all’uomo che sarebbe stato sequestrato e condannato a mesi di palestra forzata, Brian aveva accolto la notizia con lo stoicismo di un condannato a morte, arrendendosi all’evidenza di non potersi evitare di scontare quella pena. Ad Helena, in realtà, non spiaceva particolarmente quel suo “lasciarsi andare”, la naturale propensione di Brian a sembrare un bambino in barba ai suoi quasi trentacinque anni si lasciava coccolare dal sorriso sereno sulle sue guance pienotte e lui finiva per sembrare irriducibilmente “piccolo”, più di quanto non fosse, e questo lo autorizzava a concedersi con più serenità a quegli stessi sorrisi aperti e sinceri.
Si domandò se invecchiare assieme significasse anche questo, cominciare pian piano ad accettare i cambiamenti ed imparare a riconoscerli ancora prima che si verificassero. A volte, quando lui tornava dopo mesi in tour in giro per l’Europa, lei faceva fatica a ricordarsi chi fosse, la notte rimaneva sveglia, seduta nel letto, e lo fissava mentre dormiva come se dovesse reimparare il suo profilo, l’odore, il sapore…
-Devo andare.- annunciò in un sospiro impaziente Brian, gettando un’occhiata di malcelato fastidio all’orologio appeso all’altro polso.
Helena si rimise dritta, liberandolo e dandogli modo di scostare la sedia e tirarsi in piedi.
-Allora, prometti che non ti stancherai?- pretese ancora, piegandosi su di lei per sfiorarle le labbra con le proprie.
Helena si lasciò strappare un sorriso ed un cenno di assenso, osservandolo poi mentre spariva oltre la soglia del salotto. La voce di Maruja rincorse i passi di Brian fino all’ingresso e fu l’ultima cosa che accompagnò il rumore della porta quando si chiuse dietro di lui.
Helena respirò a fondo e si alzò.
***
“Dovrei davvero trovare il tempo per sistemare quel sito”.
Il pensiero si arrotolava su se stesso in una spirale pigra, mentre lei picchiettava sull’agenda aperta con una penna e fissava il numero di telefono che aveva annotato velocemente e che era di Oscar, il tecnico informatico indicatole da Alex a quello scopo.
Si erano già incontrati una volta, Oscar era un “ragazzino” – aveva appena ventitre anni – l’aveva osservata con una tale, palese ammirazione da farla sentire stupida ed incredibilmente giovane, nonostante la pancia gonfia e le caviglie enormi che le facevano male e la obbligavano a sentirsi sempre in bilico sui tacchi “da signora”. Imbarazzata aveva ripreso rapida il controllo di sé, sedendo dall’altro lato di un tavolo analogo a quello che occupava adesso e spiegando ad Oscar quello che aveva in mente per ristrutturare il proprio sito internet. Lui aveva annuito compiaciuto man mano che lei andava avanti nell’illustrazione e poi aveva cominciato ad intervenire, con sempre maggior insistenza, finché quel primo sguardo carico di desiderio era sfumato in un più ragionevole incontro professionale.
Un po’ ci era rimasta male.
Alla fine aveva optato per una comoda via di mezzo ed aveva dignitosamente concesso al ragazzino di lusingare la sua vanità rivolgendolesi con un “tu” informale.
Da allora erano passate più di tre settimane, Helena sospirò fissando lo scorrere dei giorni sotto le dita via via che faceva scivolare avanti il tempo con le pagine dell’agenda, era stata presa da tutta una serie di impegni più pressanti, ma a fare i conti nessuno di questi aveva davvero a che vedere con lei ed il suo lavoro. Visite mediche, pranzi e cene con Brian, viaggi all’estero per accompagnarlo da qualche parte quando doveva stare fuori per due o tre giorni… “Hai qualcosa da fare?”, chiedeva invariabilmente lui prima di dare ad Alex l’assenso per prenotare i voli, lei scorreva le pagine come in quel momento e si rendeva conto che no, non c’era nulla che non potesse aspettare ancora un po’.
-La Sig.ra Berg?- chiese educatamente una voce discreta e calda.
Sollevò lo sguardo dagli occhi allungati, soppesando un momento l’uomo e la mano che lui le porgeva con un sorriso invitante. Posò la penna sul taccuino ed allungò le proprie dita mentre lui le chiedeva affrettatamente “di non alzarsi, per favore”. Accettò di buon grado, l’uomo sedette dall’altro lato del tavolo apparecchiato e lei tornò a rilassarsi contro lo schienale imbottito della poltroncina che occupava.
-Sono Malcom Mayers.- si presentò compitamente. Helena annuì per far capire che sapeva di cosa stavano parlando.- Sono molto felice che abbia accettato di incontrarmi, il Sig. Nadav Kander mi aveva accennato alla possibilità che fosse impegnata in questo periodo quando mi ha dato il suo nominativo.
-E’ stato Nadav Kander a darle il mio nome?- realizzò lei, vagamente sorpresa.
-Sì.- rispose l’uomo- Avevo chiesto a lui di realizzare questo lavoro, ma mi ha detto di non poterlo fare; così mi ha indicato lei, dicendomi che avevate già lavorato assieme per la realizzazione dell’artwork dell’album “Once more with feelings”…
-Sì.- lo interruppe lei, lievemente infastidita dalla piega della discussione.
Non avrebbe saputo dire se Malcom Mayers avesse recepito il fastidio nella sua voce, ma esitò un momento, squadrandola da sopra le mani incrociate sul tavolo, gomiti ai lati del corpo, prima di riprendere lentamente.
-Ho avuto modo di prendere visione dei suoi lavori personali, Sig.ra Berg, e sono rimasto favorevolmente colpito. Mi è sembrata un’ottima soluzione poter incaricare lei.
-La ringrazio.- tagliò corto Helena, di nuovo.
Quei modi quasi bruschi li aveva imparati da Brian, si rese conto all’improvviso, lui aveva l’abitudine di ridurre al minimo le discussioni quando prendevano una piega che non lo interessava o che lo infastidiva, come per lei in quel momento. Lo aveva visto spesso in azione: per Brian lavoro e vita privata erano sempre state due cose talmente distinte – e si sforzava per tenerle tali a qualsiasi costo – che qualunque accenno dell’uno all’interno dell’altra, e viceversa, veniva violentemente riportato entro i giusti confini. Così che le era capitato di essere partecipe di discussioni di lavoro anche in ambiti che con il lavoro non avrebbero dovuto avere a che fare ed in tali occasioni aveva assorbito da Brian gli atteggiamenti decisionisti ed autoritari con cui amministrava la sfera professionale.
Se non avesse saputo anche delle serate passate al piano o alla scrivania, chino sui fogli, sui tasti o semplicemente immobile a fissare le proprie idee, avrebbe pensato che Brian fosse davvero solo questo: un professionista dell’arte. Un concetto alieno ed impossibile, che lei stessa, avendo assaporato sulla pelle il senso profondo dell’idea artistica, percepiva come orribile anche solo da concepire. Ma la verità era che, semplicemente, Brian teneva la sua sfera personale, il suo “io” più autentico, distaccato da tutto, preservato ed irraggiungibile. Non permetteva che fosse toccato, così che nemmeno la sua musica potesse essere toccata. Quando era in studio con gli altri a realizzare quello che aveva ideato in luoghi e tempi diversi, ciò che mostrava e che veniva maneggiato era già qualcosa di profondamente differente dal sentimento iniziale. Quelle sensazioni rimanevano attaccate alla canzone ed al suo testo, rimanevano attaccate alla pelle di Brian ed ai suoi muscoli, ma nessuno poteva davvero toccarli ed afferrarli. Gli altri potevano solo lavorare con lui sul contenitore.
Helena sapeva che era l’unico modo che Brian avesse di difendersi. All’inizio non lo faceva, all’inizio la sua passione e l’ambizione si contendevano il terreno combattendo alla pari.
Ed all’inizio era un disastro.
Ma a quel punto l’inizio era un capitolo chiuso. Sepolto sotto pagine di gossip, scandali ed un’immagine che andava bene, perché era ancora valida, anche se era ancor di più una maschera.
S’impose di respirare a fondo, di mettere via quella ritrosia che non le era mai appartenuta. Respirò, quindi, e fissò l’uomo mentre esponeva brevemente la propria idea per quel lavoro, ascoltò, concentrandosi sulle parole perché la tenevano lontana dai pensieri. Ci stava affogando nei propri pensieri, in quei giorni, prendersi una pausa una volta tanto le era quasi gradito. Quindi si riempì la testa della parole di Malcom Mayers e ad un certo punto del pranzo e del discorso cominciarono a darsi del “tu” e chiamarsi per nome, segno che si era arrivati ad un accordo e che il lavoro sarebbe proseguito insieme, si adeguò al cambio di registro con la stessa disinvoltura educata del suo interlocutore, assaporò gli assestamenti sottili che si verificarono nel rapporto – sapeva che ci sarebbero state nuove “scosse” prima che questo si fosse concluso. Alla fine di quelle due ore si alzò dalla tavola con un sorriso che ricambiava quello dell’uomo dall’altro lato, una stretta educata della mano, la cortesia attenta di una persona piacevole ed a modo, che l’aiutò a scostare la sedia ed uscire nei corridoi tra i tavoli.
Lui le chiamò anche un taxi, le aprì la portiera e si assicurò che ripartisse prima di sparire sullo sfondo grigio e pesante di Londra. Helena si rilassò contro lo schienale di pelle, respirò ancora – e stavolta solo per prendere fiato – guardò fuori mentre la città sfilava via e poi il cellulare suonò.
-Brian?
-Ciao. Cosa stai facendo?- salutò lui precipitosamente.
Lei sorrise intenerita, era talmente evidente l’apprensione nella sua voce che, per quanto Brian fosse sempre stato bravo a tenere a freno le proprie emozioni, se ne sentì quasi investita. Come se lui avesse voluto abbracciarla con una domanda e tenerla al caldo ed al sicuro nel farlo.
-Ho finito adesso di pranzare con Malcom Mayers.- gli rispose
-…Mayers?- ripeté lui.
-Sì, lo conosci.- confermò Helena.- Vi ha intervistati almeno un paio di volte.
Brian mandò un mugolio di assenso, Helena se lo immaginò mentre vagava fuori dagli studi di registrazione, accendendosi una sigaretta ed aspettando il resto delle informazioni.
-Adesso vado all’appuntamento con Alex. Ha detto che si sente in colpa per non aver ancora comprato nulla per il bambino, per cui credo che gireremo negozi per la prima infanzia per tutto il pomeriggio.- annunciò pacata, posando come sempre la mano sulla pancia gonfia.
-Sì.- acconsentì ancora lui.
-Voi?- s’informò Helena a quel punto.
Brian rise amaramente; lei aveva sempre saputo riconoscere ogni sfumatura del suo tono.
-Ci siamo resi conto che un paio di arrangiamenti vanno rifatti, dovremo registrare di nuovo e Steve è inferocito e dice che così come sono gli fanno schifo e che non li farà. Non riusciamo a metterci d’accordo.- concluse con un sospiro lento e stanco.- Farò tardi, stasera.- le annunciò alla fine.
-Vuoi che vi mandi Alex?- rise lieve Helena tentando di suonare abbastanza serena da trasmettere anche a lui quella sensazione.
-Per carità di Dio, Helena!- sbottò Brian fingendosi scandalizzato dalla sola idea.- L’ultima cosa che mi serve è che Alex venga qui ad esaurirsi assieme a noi!- affermò.-Io torno dentro.- le disse poi in tono dolce.
-Sì, a dopo.- lo salutò anche lei, chiudendo la comunicazione mentre il taxi arrivava a destinazione.
***
-E questa cosa di Steve sta stressando tutti, te lo giuro! Non credo che riusciremo mai a vedere la fine di queste registrazioni, fidati. Come minimo lui e Brian arriveranno alle mani prima e…
Alex si fermò di colpo, forse rendendosi conto che erano diversi minuti che parlava da sola, senza prendere fiato e senza dare spazio a quella che avrebbe dovuto essere la propria interlocutrice. Più semplicemente si accorse che quello che aveva appena detto poteva essere frainteso. Voltò la testa a scoccare un’occhiata al viso ancora sorridente di Helena: lei sembrava divertita. Solo divertita.
Alex si sentì più tranquilla.
-Comunque non è che litighino davvero, eh.- affermò per sicurezza ulteriore.
Helena sapeva che le stava mentendo. Brian le aveva già detto che lui e Steve litigavano davvero, litigavano in continuazione. Il fatto stesso che fossero sparite le cene tra amici, le serate al pub a bere birra in tre o le telefonate alla domenica erano il segno tangibile di come stessero effettivamente le cose. Fece finta di crederle lo stesso, annuendo e mostrandosi più interessata alle tutine di spugna che Alex andava sfogliando tra le mani come fossero fogli di carta.
-Quale credi che sia più carina?- piagnucolò quest’ultima, riportando anche lei la propria attenzione sul motivo di quell’uscita.- Dio! Non dovrebbero fare le cose per bebè così graziose! Una donna con un minimo di cuore non riesce a scegliere!
-Ha assolutamente ragione!- concordò prontamente la commessa, di ritorno con un enorme scatola azzurra piena di nuove tutine.- E guardi queste!- annunciò trionfalmente, spalancando la scatola sul bancone davanti a loro e mostrando il contenuto ribollente di trine e merletti.
-Cielo!- sgranò gli occhi Alex, deliziata, un momento prima di affondare le dita nel cotone.- Helena!- la invocò disperata, sfilandone due particolarmente carine da sopra la matassa delle altre e mostrandogliele.- Queste sono il massimo!
-Secondo me sono un po’ eccessive.- si schernì lei perplessa.
-Non sono affatto eccessive!- protestò la donna.- È il figlio di Brian Molko!
-Sì, e Brian non ama particolarmente l’ostentazione…- le ricordò Helena pacata.
-Sciocchezze.- liquidò Alex.- Beh, mi piacciono entrambe, quindi le prendiamo.- disse poi rivolta alla commessa.
-Costano una fortuna!- fu la volta di Helena di protestare.
-Tesoro, ti prego.- la fermò rapida Alex, mentre la donna dietro al bancone si affrettava ad annuire e tirava fuori da sotto il ripiano una scatola nuova, ricoperta di orsacchiotti, ed un fascio di nastri di raso. Alex indicò quello giallo e la commessa si affrettò a confezionare il regalo.- Io ho più di quarant’anni, non avrò mai un figlio e non potrò mai sfiziarmi con queste cose.- spiegò intanto la manager con aria severa- Non impedirmi di viziare il bambino di Brian! Me lo merito con tutto il tempo che perdo appresso a suo padre! Sono come una nonna per lui!
Helena rise di cuore, scuotendo la testa e lasciando perdere.
Mentre Alex pagava ed annunciava a gran voce che “adesso dovevano occuparsi di trovare un regalo che sarebbe piaciuto anche al piccolo Cody e non solo ai suoi genitori”, lei ripensò a quello che aveva detto. In fondo, arrivata alla soglia dei quarant’anni, neppure Helena credeva davvero che avrebbe mai avuto un figlio. Ma poi con Brian ne avevano parlato – quasi per caso, le sembrava – una sera come tante altre e dopo aver fatto l’amore. Era stato lui a mettere in mezzo la cosa, aveva detto che gli sembrava di aver buttato via tutta la propria vita, che non credeva possibile andarsene senza lasciare proprio niente dietro di sé.
Lì per lì Helena lo aveva percepito come un discorso straniante. Brian, anche se davvero se ne fosse andato in quel momento – non riusciva neppure a pensarlo… - avrebbe lasciato quattro album, un mucchio di fan disperati, due vecchi amici che lo avrebbero ricordato per sempre, una manager che si credeva sua madre ed una donna che non sarebbe riuscita neppure a respirare senza di lui. Questo non era niente.
Ma non era riuscita a dirglielo, perché Brian si era voltato nella penombra della stanza, l’aveva guardata e le aveva chiesto se voleva dargli un figlio.
Alex riprese quasi subito a parlare di lavoro. Non erano ancora fuori in strada che lei stava già annunciando ad Helena i progetti per il tour, la Virgin ci si stava impegnando per bene, sarebbe stata una cosa lunga quasi due anni. Helena annuiva e la ascoltava, tentando di concentrarsi sulle sue parole e di non pensare che due anni sono un tempo lunghissimo.
Alex si fermò ancora, l’euforia che aveva ostentato nel negozio e perfino quell’eccitazione isterica che la prendeva a dover fronteggiare la crisi nel gruppo sembravano sparite all’improvviso. Helena la vide mentre lei la fissava intensamente, si domandò dove avesse sbagliato.
-Potresti venire con noi in tour. A Brian farebbe bene averti accanto.- le disse Alex.
Ma lei doveva pensare al proprio lavoro…
***
Le era capitato un sacco di volte di dirsi che forse, alla fine, non sarebbe stato davvero così male. Era quasi certa che, a farglielo capire – che per lei potesse essere importante – Brian le avrebbe chiesto di sposarlo. Dopo che lei aveva annunciato di essere incinta, l’idea doveva perfino essergli balenata da sola, per un paio di settimane aveva albergato tra loro quella domanda inespressa, se la vedevano riflessa in faccia l’un l’altro ma nessuno dei due trovava il fiato per tirarla fuori.
Non sapeva le ragioni di Brian…Poteva intuirle, perché erano qualcosa che aveva a che fare con la sua infanzia, con il rapporto tra i suoi genitori, con la paura di legarsi perché legarsi significa dover dire per forza “sei importante” e poi non poter fingere che non sia così, quando il qualcuno a cui lo hai detto sparisce.
Sapeva le proprie ragioni. Non voleva. Non voleva essere la bambola di nessuno. Non voleva sentirsi dire “nata nel giorno dell’amore”, neppure dalla persona che davvero amava. Non voleva essere protetta, non voleva essere difesa, non voleva essere rinchiusa. Lei non voleva essere la madre, la moglie, l’amante, la sorella, l’amica…
Lei voleva essere la compagna.
Voleva essere la donna a cui Brian diceva che con Steve le cose non erano più come prima. La donna con cui Brian si lamentava che la produzione imponesse delle scelte non in linea con la politica del gruppo. Voleva essere la persona a cui Brian chiedeva di parlare con Alex, perché lui non riusciva ad avvertirla prima che iniziasse la diretta TV e doveva assolutamente ricordarle di quell’impegno pressante ed urgente.
Lei voleva essere la donna a cui Brian si rivolgeva in cerca di aiuto. Di sostegno. Di concretezza.
Voleva essere una sua pari.
La segreteria telefonica scattò un momento prima che la porta si chiudesse con un tonfo. Helena posò le chiavi sulla consolle, i pacchetti a terra tranne l’orso di peluche troppo grande per starci, dentro il pacchetto, si tolse le scarpe mentre sentiva la propria voce chiedere gentilmente di lasciare un messaggio. Il “beep” del nastro e poi Brian.
-Helena? Sei a casa?
Allungò la mano e sollevò il cordless.
-Ci sono.- annunciò con un sorriso nella voce.
-Quando sei tornata?- chiese lui ricambiandolo.
-Esattamente in questo momento.- gli rispose, e si lasciò cadere sul divano insieme con l’orso, arrotolandosi tra i cuscini e sprimacciandoselo addosso. Lo adorava già, magari avrebbe potuto rubarlo a suo figlio.
-Non sono le cinque!- notò intanto Brian a mo’ di rimprovero. Ma siccome usò il tono di un bimbo imbronciato, lei si limitò a ridere.
-Direi di no, sono quasi le otto.- affermò annuendo.-Mi hai chiamata sul telefono di casa per controllarmi?- ritorse poi fingendosi arrabbiata.
Brian smentì fiocamente, ma nessuno dei due credette a quelle debolissime proteste e la cosa finì in una nuova risata di entrambi.
-Dovevi lavorare al sito.- ricordò Brian, cercando una giustificazione pietosa del proprio comportamento.
-Sì, lo faccio tra un po’. Torni per cena?- gli chiese.
La voce di Brian le diede l’esatta percezione del suo rabbuiarsi.
-No.- rispose.- Ceniamo fuori. Tutti e tre.- spiegò.
-Devi parlare con Stef e Steve?- indagò Helena. Brian sospirò un “sì” svogliato.- Su, non può essere così terribile.- sussurrò lei paziente ed amorevole.
-Invece è terribile.- disse Brian strozzato.
Helena trattenne il respiro. Quel tono di voce glielo aveva sentito così di rado da costituire un allarme preciso, che le trasmetteva brividi gelidi lungo la schiena.
-Brian…- provò a chiamarlo piano, esitante. Lui non le rispose, ma lei seppe lo stesso che stava ascoltando. Anzi, che pregava che lei continuasse a parlare, perché la sua voce bastava, a volte, per ricacciare lontano le sensazioni che si annidavano nel suo tono, in tutto quello che implicava.- Maruja ha preparato la paella,- lo informò lieve- le dico di mettertela da parte?
Brian stava sorridendo di nuovo quando le rispose.
-Certo. Mica mi va veramente di mangiare francese.
Si salutarono ridendo. Helena premette il tasto sul cordless e lo fissò mentre la luce si affievoliva fino a scomparire. Lasciò cadere il telefono accanto a sé sul divano, spostando l’attenzione all’orso di peluche, se lo mise di fronte, seduto sulle ginocchia intrecciate, sistemò il papillon con un tocco aggraziato e sbirciò gli occhi neri e lucidi. Magari avrebbe potuto regalarlo a Brian invece che tenerselo per sé…
-Chissà se almeno tu basteresti a non farlo sentire così solo.- ragionò a voce alta.
Con un respiro pesante si alzò in piedi, sciogliendo le gambe per posarle di nuovo a terra. Nel silenzio dell’appartamento vuoto le sembrava di poter sentire il proprio respiro, si fermò un secondo, ascoltando, si domandò per un momento se la vita che portava in grembo faceva già un suo proprio rumore...
Posò le dita sulla pancia, ascoltando da sotto i polpastrelli quello che le orecchie non potevano sentire e sorrise, il rumore di Cody era soffice, come quello di un uccellino in un nido. Era lo stesso rumore che Brian ascoltava di notte, quando le si stendeva accanto e la abbracciava, imitando quel suo gesto nel posarle delicatamente la mano sulla pancia. Helena era sicura che Brian stesse ascoltando Cody in quei momenti, era sicura allo stesso modo che Brian ascoltasse lei, posando il viso accanto al suo, così vicino che i loro fiati si confondevano.
Era questo il modo in cui lui le diceva che era nata per essere amata. Amata da lui.
Sospirò, lasciando scivolare via le dita come se fossero troppo pesanti, seguirono il contorno del suo corpo e poi si fermarono lungo i fianchi. Camminò a piedi nudi, a parte il salotto le altre stanze erano al buio – fatta eccezione per il chiarore dei lampioni in strada, all’esterno, che filtrava attraverso le finestre aperte. In cucina trovò la cena preparata, poggiata su uno dei ripiani in un piatto coperto, sul tavolo la aspettava il portatile ed un mucchio di fogli sparsi su cui Oscar le aveva appuntato un paio di suggerimenti, in attesa che lui potesse confezionarle un sito nuovo.
Guardò senza reale interesse tanto il cibo quanto la macchina elettronica, ma poi il suo senso di responsabilità la spinse all’interno della stanza: allungò una mano a sfiorare il pulsante per accendere il computer e si sedette davanti lo schermo, sistemando al proprio fianco la cena.
***
Helena.
Nel suo nome c’era tutta la poesia di un mondo. Un mondo che non le apparteneva, perché lei era rimasta la bambina che giocava nel giardino del nonno in una terra straniera, perduta e magica. Eppure era “Helena”, perché suo padre l’aveva chiamata così, e poi l’aveva strappata a quella terra ed a quel giardino, con la forza del suo sangue che le scorreva nelle vene. Le aveva regalato una poesia non sua e le aveva donato il nome di una divinità.
Helena avrebbe voluto avere la forza di quella stessa divinità. Il suo orgoglio, la sua rabbia, la sua fierezza. Alla fine quel mondo le era entrato dentro lo stesso e lei aveva imparato le sue regole e dimenticato i giardini, i fiori ed i ninnoli dell’Asia che non c’era più.
 
Brian aprì la porta di casa con delicatezza, badando che il rumore delle chiavi non la disturbasse. Helena sorrise nel buio profondo del salone, rannicchiata sul divano come una bambina guardò le cifre sul display dello stereo.
-…è tardi per la paella.- sussurrò nell’oscurità.
Lo sentì fermarsi di colpo. Gli dava le spalle, il divano era voltato verso la terrazza immensa, sprangata, e lei aveva davanti a sé tutto lo spazio elegante del salone, ma non l’ingresso su cui lui si fermò, cercandola nel buio.
-Helena?- la chiamò incerto, mantenendo comunque basso il tono, sebbene lei fosse sveglia e non ci fosse pericolo di disturbarla.- E’ tardissimo.- disse.
Helena pensò di annuire o di assentire in qualche altro modo, per fargli capire che lo sapeva. Ma poi si disse che non aveva importanza e Brian aveva anche ricominciato a muoversi, spazzando l’ingresso per circumnavigare il divano ed andarlesi a sedere accanto. Si accoccolò su di lei, come se fosse stato un bambino, posando la testa nella piega fra il collo e la spalla e sospirando, senza neppure levarsi il giaccone.
Helena lo lasciò fare e lo guardò. Brian aveva chiuso gli occhi, le ciglia lunghe e dritte erano intuibili anche nel buio, perché erano ancora più scure di questo, come se i suoi occhi risucchiassero ogni luminosità dal mondo.
“…ho dovuto cancellare il sito…”
-La situazione è ingestibile, sai Helena?- iniziò piano Brian, senza scostarsi e senza alzare il tono di voce da quel sussurro quieto e disinteressato con cui parlava delle cose prive d’importanza.- Stasera non era una semplice cena per vedere di mettere le cose a posto.- confessò.
“Le tue fan mi odiano e continuano a lasciare commenti detestabili su di me…a volte anche su di te.”
-Con Alex abbiamo stabilito che è meglio prendere una decisione definitiva.- spiegò Brian, paziente.
Era assurdo che non si muovesse, che i suoi occhi rimanessero serrati, il corpo rilassato contro quello di lei. Helena si sistemò all’indietro sullo schienale, il peso di Brian si spostò con lei e lui affondò le labbra ed il fiato nella sua pelle, proprio dove l’orlo del maglione leggero la lasciava scoperta. Le dita di Brian si mossero gentili, risalendo lungo la gamba ed il fianco per posarsi delicate sul profilo della sua pancia ed acquietarsi lì.
Helena lo imitò. Sollevò una mano anche lei, cingendogli dolcemente il collo con il braccio ed affondando i polpastrelli tra i capelli, per raggiungere la nuca e massaggiarla piano. Posò la guancia sulla sommità della sua testa, strofinando la pelle contro i ciuffi corti e morbidi e pensò che avrebbe dovuto dirgli che lo aveva fatto davvero: aveva cancellato il sito.
Quella sera, quando era entrata a dare un’occhiata per cominciare a fare le modifiche temporanee suggerite da Oscar, aveva trovato un centinaio o più di commenti nuovi. Aveva realizzato che non accedeva al sito da mesi, che non lo visualizzava da altrettanto tempo, e lo aveva realizzato con forza quando, aprendo la pagina dedicata a quei commenti, l’aveva trovata ricolma di messaggi sprezzanti, ingiuriosi, cattivi. Li aveva letti quasi tutti, sbalordita aveva iniziato a sfogliare le pagine fino a risalire al primo. Erano ragazzine. Ragazzine, tutte. Qualcheduna era più grande, sì, ma la media era decisamente di età bassa. E la odiavano. Il loro odio era qualcosa di raggelante, perché nessun adulto può credere davvero che esista un odio così, finché non se lo trova davanti.
Lei si era trovata davanti centinaia di piccoli messaggi di odio, lasciati da bambini gelosi. Gelosi di lei, terrorizzati all’idea che potesse distruggere ciò che amavano, terrorizzati che lei potesse portargli via il loro tesoro nascosto: un amore così grande da credere di poter giustificare tutto, anche l’odio.
Ma l’odio non si giustifica. Ed Helena aveva avuto paura.
-Steve lascia la band.
“Ed avevo così tanta paura, Brian, che l’unica cosa che ho avuto il coraggio di fare è stata cancellare tutto. Cancellare me stessa, per proteggermi da loro.”
Nessuno dei due commentò nulla. Non c’era davvero bisogno di parole per spiegare, era chiaro in quell’abbraccio, era chiaro nel bacio che Helena posò sulla fronte di Brian.
Era chiaro per loro.
-Potremmo andare in vacanza a Parigi dopo che avrete finito con le registrazioni. Prima che parta il tour.
-Pensavo dovessi lavorare.
-…non è…niente che non possa essere rimandato.
“Per proteggere noi, Brian, me, te e Cody, io preferisco smettere di esistere”
 
Helena pensava che a parte il nome, in lei non ci fosse proprio nulla di speciale.
 
“Helena”
MEM 2008
 
Nota di fine racconto:
 
Alcune precisazioni sono doverose, nonostante non sia mia abitudine dare precisazioni.
Di Helena, la compagna di Brian, si sa che è vietnamita di origine, ma la sua metà “tedesca” è frutto di fantasia dell’autrice.
Allo stesso modo, né Oscar né Malcom Mayers esistono davvero, ma sono due personaggi di fantasia inventati da me.
 
Tristemente vero il fatto che Helena abbia dovuto cancellare il proprio sito personale, pare, proprio “a causa” del bashing feroce delle fan dei Placebo.
Brutta razza i fan, dico io ^_^
 
Questa storia è chiaramente una storia inventata. Ma è una storia che ho amato scrivere, ispiratami dal libro meraviglioso da cui è tratta la citazione iniziale e che, sebbene io non sia affatto una “femminista” perché reputo il femminismo inutile nell’epoca moderna e nei paesi occidentali, insegna davvero tanto sulla condizione della donna.
Ne consiglio caldamente la lettura.
 
Inutile dire che, nello scrivere la storia, mi sono resa conto che altro non era che l’ennesima dichiarazione d’amore a Brian Molko. Ormai ci ho fatto l’abitudine e non mi stupisco più, l’affetto che provo per quell’uomo è indubbio XD
 
  
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