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Autore: Mistralia    09/03/2016    0 recensioni
Susanna è la tipica ragazza popolare, bella, ricca, piena di ragazzi, amante della vita mondana e affezionata alle sue amiche. Un quadro talmente perfetto, ma allo stesso tempo delicato, con una famiglia alle spalle troppo assente perchè lei sia felice e troppo poco affetto perchè non sia piena di rabbia. Ma cosa succederebbe se l'equilibrio dei suoi 16 anni si ribaltasse? Se da un giorno ad un altro lei non sapesse più chi essere? Potrebbe tornare ad essere la bambina solare che nemmeno lei si ricorda più di essere stata?
"In un mondo tanto egoista, l'egoista ha tanto successo"
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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“Le storie che non so spiegare”

 

“La storia della mia vita io la porto a casa

guido tutta la notte per cercare di tenerla al caldo

ma il tempo è congelato ormai

Alla storia della mia vita do speranza,

ma spendo il suo amore finché non ne ha più dentro”

 

 

24/11/2015

Caro Diario,

lasciatelo dire, mi fa davvero impressione ritrovarmi qui, la mattina alle 3:49 precise, con una penna in mano, a scrivere la solita formuletta che usavo da bambina sulla cima di questa tua prima bianca pagina.

Ora che ci rifletto meglio, mi sembro davvero una stupida ad affidare le mie memorie a un misero blocco di cartone con delle pagine spiegazzate in mezzo, però, caro mio, sono stanca, devo ancora struccarmi e tanto vale finire quello che ho cominciato.

Quando sono nata, in una austera stanza di un costoso ospedale privato, faceva freddissimo, talmente freddo che le persone giravano ancora per le strade armati di doposcì e scalda-collo di lana; tutta questa situazione era alquanto strana perchè era il 17 Febbraio e, con Marzo alle porte, si presupponeva un briciolo di sole, dopo un inverno abbastanza rigido. 

Mio padre dice sempre che mettermi al mondo non fu facile, poiché non volevo decidermi a uscire da quel caldo rifugio che mi aveva ospitato per nove mesi, per cui, riuscii a vedere la luce del giorno solo dopo dieci ore di tormentato travaglio, al termine del quale mia madre crollò sfinita sul lettino.

Da neonata ero bellissima, ma talmente gracile da sembrar prematura, nonostante i nove mesi di gestazione, e forse, proprio per questo mio essere così candida e indifesa, decisero di chiamarmi Susanna, che in ebraico significa giglio e indica l’innocenza.

Ricordo pochissimi attimi dei miei primi anni di vita, qualche particolare sfuocato, disperso nella mia mente, episodi sconnessi e non chiarissimi, a loro modo, però, affascinanti.

Un frammento spesso ricorrente in quel dilemma che è il mio cervello è, ad esempio, il mio rientro a casa dopo pochi giorni nell’incubatrice; rammento una strana sensazione, come il canto di una sirena, e la smisurata voglia di andare verso quella luce che, in quel grigio giovedì, era debole e fioca, eppure, sembrava irradiare come uno strano calore che mi cullava, mi faceva sentire al sicuro come mai le braccia di mia madre avevano fatto.

“Tu hai sempre amato il caldo, non quello torrido che ti fa irritare la pelle, piuttosto quello debole, tipico della nuova primavera e dei bucaneve che spuntano timidi dalla neve sciolta.” diceva sempre mia nonna.

Tuttora adoro quel periodo dell’anno, poiché simboleggia la rinascita, un nuovo ciclo che cancellava il vecchio, nuove emozioni, sguardi, sentimenti e pensieri, ma anche cambiamenti nell’animo, nella personalità e nelle abitudini.

Era come liberarsi dei pesi accumulati durante l’anno e, in quei pochi attimi di pace, non c’erano versioni di latino, orali da recuperare, ricerche di storia da consegnare, compiti che non andavano mai come dovevano andare; c’eravamo solo io e il mio prato preferito, illuminati dal cielo ceruleo e immersi nel silenzio.

I miei genitori mi diedero tutto: vestiti, giocattoli, una bella cameretta, un’enorme villa in campagna, scordandosi, in compenso, di quella piccola ed insignificante prerogativa di ogni maledetto nucleo familiare che si rispetti: l’affetto.

C’era solo il loro lavoro, il modo più facile di fare soldi, arricchirsi, come se quelli che tenevano in banca non fossero abbastanza; per loro era facile, da bravi chirurghi quali erano, ma per me sopportare che mia madre non mi aiutasse mai a scegliere i vestiti, che mio padre non mi insegnasse mai ad andare in bicicletta, non vederli mai in cucina, vicino al bancone a scambiarsi un casto bacio, per poi abbracciarmi e dirmi quanto mi amavano, non sentire il profumo stuzzicante dei biscotti e delle torte fatte in casa, solo quello degli insipidi preparati Cameo, litigare, piangere e poi sorridersi, era inconcepibile.

Per questo adoravo quella radura dietro la nostra villa, era il posto dove correvo ogni volta che dovevo pensare, isolarmi, oppure scappare da una casa troppo grande quanto fredda per una bambina in cerca di affetto.

Quando la trovai avevo dodici anni ed era il giorno del mio compleanno; ero convinta che quest’anno finalmente i miei genitori non avrebbero avuto l’ennesimo turno in ospedale e avremmo potuto festeggiare insieme come una famiglia qualsiasi, ma una volta svegliata, c’era sono Paulette, la nostra domestica, ad accogliermi, con un vassoio d’argento e una busta di carta beige; mentre mi alzavo dal mio sontuoso letto a baldacchino rosa e facevo per leggerla, già sapevo che avrebbe contenuto il canonico messaggio di scuse scritto al computer, in cui si rammaricavano per la loro assenza dovuta a chissà quale collega da sostituire e promettevano l’ennesimo costoso regalo che non avrebbe mai colmato il vuoto che mi avevano lasciato.

Forse fu l’espressione impietosita di Paulette, forse il messaggio che questa volta sembrava ancor più formale del solito, forse la rabbia scaturita dal mio eterno secondo posto nei loro pensieri, ma, per la prima volta, non mi limitai ad annuire e tornare a dormire, presi un cappotto ed uscii come una furia da quel posto che sembrava soffocarmi ed iniziai a camminare senza una apparente destinazione.

Mezz’ora più tardi, quando ormai mi ero inoltrata nel boschetto dietro la nostra abitazione, vidi uno spiraglio di luce provenire da delle felci addossate a un masso e cercai di capire da dove provenisse; scostando alcune pietre, vidi una piccola fenditura, abbastanza grande da farmici passare in mezzo, e la superai.

Hai presente quando ti batte forte il cuore come se avessi un infarto? A me successe una cosa simile; il sole, quel timido amato sole di fine inverno, che alle mie pupille brillava come un faro, il fiato che mancava nonostante il mio disperato tentativo di respirare, tutte quelle piccole violette, bucaneve e denti di leone che cercavano di vincere la neve, quasi del tutto scomparsa, la rugiada cristallina sui fili d’erba e il canto soave degli usignoli, risvegliatesi dopo mesi di inattività.

Quel luogo, per quanto piccolo e semplice, sembrava chiamarmi per nome, tirarmi verso di se, suggerirmi che avevo finalmente trovato il posto giusto per me, sussurrarmi che ora il dolce silenzio sarebbe stato il mio eterno migliore amico.

Ho passato interi pomeriggi a fissare il cielo inebetita, distesa sul prato, raccogliendo fiori, leggendo interi capitoli ai ragni silenziosi e agli uccelli canterini; che piovesse, grandinasse, ci fosse un caldo torrido, o semplicemente un cupo grigiore, ogni qual volta mi sentissi abbandonata o avessi bisogno di respirare e recuperare la salute mentale, questa radura era la mia destinazione preferita.

E ti assicuro che ci andavo spesso.

Il fatto è che a casa mia, nemmeno un santo avrebbe potuto resistere per più di una settimana, a meno che non avesse avuto un buon apparecchio acustico.

Infatti i miei genitori, quelle poche volte che si ricordavano di avere una vita e anche una figlia, non facevano altro che litigare su ogni cosa, rimproverandosi a vicenda le colpe e i difetti più disparati, tanto da far sembrare che tutti quei volgari epiteti li cercassero la notte sul dizionario; la mia giornata era un continuo sbattere di porte, imprecare, rinfacciarsi anni di insoddisfazione e sputare sentenze su tutto.

Mamma aveva sempre da ridire sulla famiglia di papà, che a parer suo non gli aveva dato la giusta educazione, mentre lui la denigrava per il suo carattere introverso e distaccato e faceva il pazzo geloso; erano entrambi di carattere forte, orgogliosi nelle loro affermazioni e decisioni, per cui quando si scontravano, le reazioni erano pressoché simili a una bomba nucleare.

Quando non discutevano, se ne stavano ognuno per i fatti propri, chi nel suo studio, chi nel giardino d’inverno a leggere, dimenticandosi di me, una bambina prima di cinque, poi sette, poi dieci, poi sedici anni, abbandonata ad una esistenza troppo piena di sfarzi e non di attenzioni.

Rammento che una volta, per la mia promozione, mi regalarono una macchinetta fotografica professionale, completa di una serie di obiettivi e una comoda borsa per portarmela dove volevo; appena tornata da scuola, ogni pomeriggio, la prendevo e iniziavo a fare istantanee un po’ ovunque, dalle orchidee nella serra, al fuoco che divampava nel camino di mattoni, conservando, in tal maniera, frammenti di quella mia infanzia trascorsa nel bosco umido ad osservare e scattare immagini di una solitaria farfalla monarca che, leggiadra, si posava sui deboli fili d’erba illuminati dalla luce aranciata del tramonto, mentre un paziente grillo attendeva la venuta del silenzio, per poter finalmente cominciare il suo abituale canto; un pomeriggio, me ne ricordo benissimo, era maggio e, stranamente, i due instancabili chirurghi se ne stavano, fin troppo quieti, al fresco nella veranda, appena fuori la cucina, sul dondolo, parlando del più e del meno, sorridendosi a vicenda, come due innamorati spensierati.

Con passo felino, mi nascosi dietro il grande vaso di un albero di limone, non per spiarli, ma semplicemente per ammirare la vita che avremmo potuto avere, la famiglia che avremmo potuto essere, l’amore e l’affetto che avremmo potuto far crescere insieme, mentre l’unica cosa che sapevamo fare era guardare da lontano la pubblicità del Mulino Bianco, sempre che avessimo tempo tra un convegno e un’operazione, si intende!

Papà era sereno, la sua bocca si apriva all’insù ad ognuna delle parole di mia madre, che rideva, rideva, rideva, le brillavano gli occhi come due zaffiri ed io, non potevo che esserne contenta e il mio cuore si riempiva di gioia quando lei attaccava a straparlare e mio padre, ingegnosamente, la baciava tenero, amorevole, come se volesse farle una carezza.

A quel punto, con le lacrime agli occhi, tremante come una foglia, premetti un semplice bottone e con un click, impressi per l’eternità quell’attimo fuggente e tornai a rimirarli, conscia che momenti come questi erano più unici che rari.

Dopo una manciata di minuti, però, feci un passo falso ed urtai una mattonella, al che i miei si ridestarono e, quasi come se fossero stati colti in fragrante, mi domandarono cosa stessi facendo, acquattata dietro la terracotta.

  • Vi osservavo mamma e mi chiedevo perchè deve essere tutto così difficile.
  • Difficile cosa tesoro? Spiegati non riusciamo a capirti…
  • Da sopportare papà, è difficile da sopportare.

Loro mi guardarono increduli, non capendo cosa intendessi con queste parole, per cui presi in mano il mio nuovo regalo e glielo porsi, con la loro foto in bella vista.

  • Vedete ho sempre desiderato sentirmi dire che mi volete bene, quando invece questa semplice frase poche volte è arrivata. Quando vedo un padre, o una madre, e una figlia abbracciarsi per strada trattengo le lacrime. Faccio di tutto pur di farmi apprezzare, per meritarmi delle parole affettuose, per rendervi fieri di me. Ma non basta mai. Vi sto dicendo questo, anche se so che voi non mi ascolterete, chiedendomi se sia io ad essere sbagliata. Ho sempre desiderato una famiglia felice e che si vuole bene come quelle delle mie amiche, ma non l'ho mai avuta. Ho sempre desiderato che voi riflettiate su ciò che fate, su quanti litigi consumate ogni giorno, che vi diciate “quella è la persona che ho sposato, ma che sto facendo? Io la amo.” , ma sono sicura che voi non l'abbiate mai fatto. Non riuscite a controllare la rabbia, e lo sapete bene, eppure non avete mai fatto nulla per migliorare.

Quando rialzai il capo, cercando lo sguardo dei miei genitori, trovai solo un capo chino e dei muti singhiozzi, come a voler testimoniare quanto avessi ragione e che le mie, forse un poco dure, constatazioni avessero fatto loro del male.

Almeno, mi dissi, hanno imparato la lezione.

Oh quanto mi sbagliavo caro diario!

Era l’estate del 2012, le scuole medie erano, finalmente, un lontano ricordo ed eravamo nel pieno del mese di agosto; in un anno, dal giorno del mio discorso, la situazione era rimasta sempre la stessa e questi 365 giorni erano stati un assordante concerto di piatti rotti, cocci sparsi sul parquet, nonne maledette, monotone frasi di scuse nei miei confronti per qualche evento al quale non avevano potuto partecipare e turni in ospedale sempre troppo lunghi.

Non sapevo che quella sarebbe stata un’estate che mi avrebbe cambiata, dalla quale non sarei mai uscita come ero prima; stavo per precipitare nell’Inferno come Lucifero, per non far più ritorno.

Quel fatidico giorno, ero nella mia camera, cercando disperatamente di far entrare il dizionario di greco dentro la libreria, mentre con un piede reggevo il volume gigantesco dei Promessi Sposi, chiedendomi quale strano elfo dai poteri superiori mi avesse convinto ad iscrivermi al Liceo Classico.

Udii solo dei suoni attutiti di vetri che si sfracellavano al suolo ed urla arrabbiate, ma una frase, una su mille, rimase impressa indelebile nella mia mente.

  • Se la nostra vita fa schifo, se il nostro rapporto è ridotto in briciole, se tua figlia è un disastro, è solo colpa tua e dei tuoi atteggiamenti da adolescente!
  • La smetti di urlare? Ho solo ricevuto una telefonata di lavoro e tu cominci a sbraitare come una ragazzina! La vuoi finire una buona volta con questa gelosia? Non mi lasci respiro hai capito?
  • Io la devo piantare? Ma se non fai altro che tornare ogni sera tardi e fare strane chiamate nel cuore della notte! Sono una donna, non sono stupida! E non puntarmi il dito contro, incivile! O la tua mammina non ti ha insegnato la buona educazione?
  • Mia madre non la devi neanche nominare! Sei tu che non hai saputo fare la madre, hai pensato solo alla carriera! Nostra figlia diventerà una di quelle debosciate drogate che si truccano come spogliarelliste, si ubriacano e tornano tardi la sera! E tutto solo perchè tu, incapace come nessun altro, non hai mai voluto fare la madre!
  • Tu non sai nemmeno dove sta di casa l’esser genitori! Quando mai ti ho visto insegnarle ad andare in bicicletta, oppure controllarle un tema di scuola? Quando? Se diventerà una delinquente, come tu la dipingi, sarà solo colpa tua!
  • Allora, visto che nessuno di noi sa assumere questo ruolo, abbiamo sbagliato a fare una figlia! Ci saremo risparmiati mille litigi! Avremmo potuto lavorare finché volevamo e far carriera liberamente, senza lo stress di una neonata in giro per casa!
  • Pensi davvero che la bambina sia stata un errore?

Silenzio. Ci fu solo il silenzio a quella domanda e un suono di passi, tacchi che si allontanavano.

Passarono uno, due, tre, secondi, o forse cinque minuti, ma il mio corpo era immobile, la mia mente non voleva accettare ciò che mio padre, il mio papà, l’uomo che mi aveva messa al mondo, aveva urlato a quella donna che, invece di difendermi, si era limitata a chiedergli conferma di quelle cattiverie.

Un tonfo, credo quello stupido vocabolario caduto a terra, un altro, Renzo e Lucia, ed uno ancora più forte: io.

E poi la disperazione, ho pianto, ho provato a gridare, ma la voce non usciva, intrappolata com’era tra le corde vocali, il groppo che avevo in gola diventava sempre più grande, ingombrante, soffocante ed era insopportabile anche la sola aria che respiravo.

Grosse lacrime salate mi solcarono il viso ed io non feci nemmeno lo sforzo di asciugarmele, lasciandole libere di rovinarmi il mascara e il trucco, e depositarsi sulle mie labbra rosse che ormai sanguinavano per il troppo morderle.

Avrei voluto morire, quel giorno, tanta era la voglia di lasciarmi andare al dolore che mi avevano inflitto quei pochi minuti di conversazione, durante i quali la mia più profonda paura, quella di essere la causa di tutti i disastri della nostra vita, si era rivelata giusta e, nello stesso momento, il peso di come ero, lentamente mi schiacciava, come a voler prolungare quel tormento, per far si che non me lo sarei più dimenticato.

Colta da un raptus d’ira presi la macchinetta fotografica e la scagliai contro il muro, ma questa, come a voler farsi beffe di me, si accese e si focalizzò proprio su quella foto, scattata più di un anno fa, dove la mia famiglia per una volta era riunita.

E fu proprio allora che capii di esser stata sempre la figlia invisibile, perennemente chiusa in camera da sola, mentre loro non si erano mai interessati di quello che avevo, che provavo. E sarei voluta andare via da quel luogo, sparire perché non ne potevo più. Non ce la facevo a sopportare genitori costantemente pronti a darti addosso, a farti cadere, a vedere in te il problema di qualsiasi fallimento. Genitori che continuano a sostenere di conoscerti fin troppo bene, ma in realtà sanno a malapena quando sei nata. 

Ero stufa di quanto fosse facile per loro puntare il dito quando non avevano mai avuto il tempo di sedersi accanto a me e capire cosa mie rendeva felice e cosa no, bravi come erano a straparlare, ma non a comprendermi.

Loro non sapevano quante volte mi ero lasciata andare, da sola, quante volte mi ero sentita fuori posto, quante volte di notte, non ho dormito.
Non sapevano quante volte ho fatto finta di sorridere, quando in realtà stavo morendo dentro. 

Perciò mi dissi che mamma e papà avevano fallito il loro ruolo di genitori. Una famiglia dovrebbe essere un riparo dal mondo esterno, composto da persone pronte ad accettarti e volerti bene per quello che sei, ad aiutarti e a non lasciarti mai solo. La nostra non era una famiglia, quella foto era solo menzogna. 

Avevano paura che diventassi una poco di buono? Bene, lo sarei diventata.

Mi sarei trasformata in una di quelle figlie incontrollabili, che stanno fuori fino al mattino, che a scuola vengono bocciate tutti gli anni, che spendono tutti i soldi per capricci, questo e molto peggio; così almeno avrebbero capito che non ero così orribile come credevano.

Quella notte, guardando la luna piansi per l’ultima volta e, mentre le palpebre si abbassavano, mi ripromisi che d’ora in poi le cose sarebbero cambiate e che nulla sarebbe tornato come prima; i miei cari genitori avrebbero avuto quel che si meritavano.

E questa, caro diario, è la mia storia, la storia di Susanna Martini, di come sono nata, cresciuta e un giorno d’estate, rinata. 

Con il passare dei giorni ti racconterò molte più cose di me, ti parlerò di quel manicomio dove sono costretta a studiare, degli amici, della quotidianità che mi sono ricostruita, mattone per mattone, tutta da sola e ti prego di non giudicarmi in base alle mie scelte.

Non ho chiesto io di nascere, né tantomeno di essere difettosa rispetto agli altri e sono cambiata perchè m’hanno cambiato, sappilo.

……. anche il Diavolo prima era un angelo.

Perchè è così che va la vita.

   
 
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