Ohilà! Prima di lasciarvi leggere il
nuovo capitolo, ci tengo a dire prima di ogni altra cosa che dedico
questo
capitolo a Elena (olivia_106), che segue silenziosamente la storia fin
dall’inizio: questo capitolo è ben poca cosa, ma
è tutto per te! Buon
compleanno!
Nut
Annie
Sto
finendo
di piegare l’ultima maglietta per riporla nel borsone, e poi
potrò finalmente
uscire dall’ospedale e tornare a casa.
Ho passato un
intero giorno ancora qui dentro, per via di tac e risonanze magnetiche
che la
dottoressa mi aveva prescritto per controllare che non avessi
complicazioni,
oltre al gran mal di testa e ai punti in fronte. Harry,
vestito con un morbido maglione blu
scuro e, incredibilmente, scarpe da ginnastica, è
appollaiato sulla sedia
accanto a me e sta scorrendo le immagini nella sua Reflex. Da quando ho
recuperato la memoria e abbiamo fatto pace non ci siamo separati un
secondo.
Non ci si può di biasimare, no?
L’ho
perdonato davvero? Oh, sì. Quando non ricordavo chi fosse,
il dolore sul suo
viso era la prima cosa che mi colpiva quando lo guardavo: non il suo
bel volto,
non i suoi occhi smeraldo, ma un profondo e angoscioso rimorso. Non
credevo che
potessi essere davvero io la ragazza che ama così tanto, ma
è così. Per questo
l’ho perdonato.
- Fatto! –
Chiudo di fretta le cerniera del borsone e me lo metto in spalla.
– Andiamo?
Harry balza
in piedi buttandosi la macchina al collo. – Pronti!
– Esclama subito prima di
prendermi il borsone. – Allora ti accompagno da Liam a
prendere le ultime cose
e a casa? Manca poco alla consegna ufficiale delle chiavi.
- Certo!
- Odierò
separarmi di nuovo da te! – Esclama platealmente.
- Non fare lo
stupido, mi aspetterai in macchina! Ci metterò un secondo!
Ride e mi
mette un braccio attorno alle spalle.
Devo dire che
quando i ricordi sono tornati sono rimasta sorpresa dal fatto che KK
non si sia
fatto vedere mentre ero in ospedale. Però Liam, che in
questi giorni si è
tenuto in contatto con lui in vece di Harry, mi ha spiegato tutto: KK
ha
lottato strenuamente per due giorni per mettere a tacere la stampa sui
fatti di
Harrods, e ha fatto sì che nessuno ci speculasse sopra.
È proprio uno squalo!
Non ho il
coraggio di guardare le riprese delle telecamere, non adesso. Voglio
godermi i
momenti con Harry.
Nonostante
tutti gli sforzi di KK, però, all’uscita
dall’ospedale un gruppo di giornalisti
ululanti ci salta addosso accecandoci con i flash delle macchine
fotografiche. Io
e Harry li vediamo dall’atrio, ma non possiamo fare altro che
uscire e
ritrovarci nella mischia.
- Annie!
Annie, che cos’è successo realmente da Harrods?
Puoi spiegarci?
La luce
abbagliante dei flash mi impedisce di vedere dove sto mettendo i piedi,
e il
mal di testa esplode di nuovo come una granata, come se volesse far
saltare i
punti da un momento all’altro.
- C’è stata
una rapina e ne ho ricavato un gran mal di testa, niente di
più!
- È vero che
hai affrontato uno dei rapinatori?
- Ho fatto ciò
che andava fatto!
Stringo il
braccio di Harry in una morsa, e lui si interpone. – Non
siate maleducati, per
l’amor di Dio! Lasciatela respirare! Capisco che vogliate la
prima notizia, ma
così non è possibile!
I giornalisti
ignorano Harry e continuano a fare domande uno sopra l’altro,
creando una
confusione incredibile, e noi cerchiamo di arrivare alla macchina il
più in
fretta possibile. Per fortuna in nostro aiuto arriva la guardia del
corpo di
Harry, un ragazzone nero simile a un armadio a quattro ante, che
tuonando
“Signor Harry!” comincia a spingere via i
giornalisti come foglie facendoci
largo fino alla macchina.
Saliamo quasi
di corsa, buttando borsone e macchina fotografica sui sedili
posteriori, e dopo
un cenno di saluto e ringraziamento alla guardia del corpo Harry parte
sgommando
lasciando il gruppo di cronisti soli con le loro domande.
- Ciao,
piccola! – Mi abbraccia.
- Ciao, Liam.
Sono venuta a prendere le mie ultime cose.
- Certo, le
ho preparate qui. Vuoi accomodarti?
- Solo cinque
minuti, Harry mi sta aspettando in strada.
- Certo.
Certo, ehm… entra pure – si sposta da un lato e io
entro. Casa sua è rimasta
esattamente come due giorni fa, come mi ricordo
che fosse due giorni fa. Avere memoria è una cosa
straordinaria.
- Allora…
come va la testa? – Mi chiede passandomi accanto sfiorandomi
un braccio.
- A meraviglia!
Solo qualche mal di testa ogni tanto… a volte ho ancora dei
flash e ricordo
cose nuove.
Liam si apre
in un sorriso. – Oh, bene! Scusami, vado a tirare
giù il caffè. Ne vuoi un po’?
- Ok!
Sparisce un
secondo in cucina, e lo sguardo mi capita per caso sul suo telefono. Mi
avvicino ben consapevole di star facendo una cosa inopportuna, e apro
la
schermata. Liam… unico essere umano che si fida abbastanza
da non mettere una
password al telefono.
La casella
dei messaggi è aperta, mostrando la cronologia delle
conversazioni: la prima è
di una certa Cheryl di cui Liam mi ha parlato solo una volta, tanto
tempo fa;
la seconda è di Harry: leggo l’ultimo messaggio,
rimanendo alquanto sorpresa.
Recita:
“Trovatene
un’altra, perché lei è mia”.
Non faccio in
tempo a riflettere che Liam riemerge dalla cucina con due tazze di
caffè in
mano. Mi metto davanti al suo telefono per non fargli vedere che lo
schermo è
acceso, imbarazzata da morire. Ricordo la sua dichiarazione, fatta
quando
pensavo di essere nel 2010. Non l’ho dimenticata, ma finora
ho fatto finta di
niente per evitare di spezzargli il cuore. Ora però sono
costretta a
parlargliene…
- Grazie –
accetto di buon cuore la tazza che Liam mi sta porgendo e la svuoto
tutta in un
sorso. Il liquido caldo mi scorre giù per la gola,
regalandomi una piacevole
sensazione. Mi sento i suoi occhi addosso.
- Liam,
senti… - rigiro la tazza fra le mani, tentando di trovare le
parole giuste. –
Preferirei buttarmi sotto a un treno piuttosto che dirti questo, ma non
posso
continuare a ignorare quello che mi hai detto in ospedale.
Ascoltami… vorrei
davvero essere la ragazza che ti renderà felice e ti
riempirà il cuore, ma non
posso esserlo. Ti voglio bene più di quanto tu possa
immaginare e ti sono grata
per avermi ospitata senza nemmeno pensarci, e per essere stato per me
di
conforto e aver dormito con me per difendermi dagli incubi. Ma
io… per quanto
possa volerti bene, io non sono innamorata di te. Il mio cuore
è di Harry,
nonostante quello che ha fatto.
- Annie, lo
so. – Liam mi rivolge un mesto sorriso, e posando la sua
tazza su un tavolo mi
posa una mano sulla guancia, accarezzandomela. – Ho capito
che non saresti mai
stata mia quando ti ho vista arrivare al braccio di Harry, quella sera
a Roma.
Dal modo fiero in cui lui ti teneva stretta, ho compreso che non ti
avrei mai
avuta e mi sono fatto da parte. Preferisco non averti ed essere tuo
amico che
non parlarti mai più. Non posso dire che ne sono felice, ma
mi sta bene.
Davvero. Non c’è problema, ok?
- Ok –
ricambio il suo sorriso. – Grazie, Liam. Grazie di tutto.
Mi bacia la
fronte e io lo stringo forte.
- Spero
davvero che troverai la ragazza dei tuoi sogni, che ti renda felice.
– Mormoro.
- Lo spero
anch’io.
- Ti voglio
bene.
Un altro
abbraccio, poi sono costretta a prendere le mie cose e uscire dalla
porta per
evitare di scoppiare in lacrime di gioia e tristezza assieme. Mi viene
in mente
un pezzo della canzone “Teorema” di Marco
Ferradini, e come una preghiera la
rivolgo a Liam:
Non esistono leggi in amore, basta
essere quello che sei
Lascia aperta la porta del cuore,
vedrai che una donna è già in cerca di te.
- Ehi, love!
Ci hai messo un’eternità!
- Ho fatto
prima che potevo – sistemo lo scatolone che Liam mi ha
preparato e mi siedo sul
sedile accanto a lui. Sospiro. – Senti, Harry… ti
andrebbe di andare a Jawbelly
Ville? Ci serve un periodo per noi, per staccare.
- Ma certo,
my love! – Mi scompiglia teneramente i capelli. –
Quando vuoi partire?
- Domani? –
Propongo.
- Prenderò i
biglietti dopo Brick Lane – promette. Sorrido.
Harry avvia
il motore e parte, mentre l’emozione per
l’imminente consegna delle chiavi mi
travolge come un’onda. Chissà che cosa ha
combinato mamma…
Mi sbatto una
mano sulla fronte. – Oh Cristo!
- Che c’è?
Hai ricordato qualcos’altro? – Harry si volta
preoccupato verso di me.
- Mia madre!
Non l’avete avvisata di tutto quello che è
successo!
- Louis ci ha
provato più di una volta, ma non siamo riusciti a
rintracciarla. Non mancava
molto al suo viaggio in Madagascar, no? Ascolterà i messaggi
che abbiamo
lasciato in segreteria.
- Ok… spero
non le prenda un colpo!
- Lascia un
messaggio!
- Buona idea
– ammetto tirando il cellulare fuori dalla tasca della
giacca. Fuori cominciano
a cadere le prime gocce di pioggia. Premo il tasto delle chiamate
rapide e
subito risponde la segreteria di Morgana.
“Salve, sono
Morgana Vittorini! Se avete voglia di lasciare un messaggio, sappiate
che a
Papua non prende! Buona serata!”
- Mamma, sono
io. Annie. – Parlo in italiano - Senti, ehm… non
preoccuparti. Ho ricordato
tutto. Tutti i maledetti sei anni. Quindi, no problema! Goditi i Loris
Lento.
Ti voglio bene. Sto andando a Brick Lane. Ciao!
Chiudo la
telefonata e metto il telefono in tasca.
Anche
sotto
la pioggia Brick Lane è piena di bancarelle coperte da
grandi teloni bianchi, e
i venditori accolgono con un sorriso coloro che si avvicinano a
comprare i
souvenir etnici disposti sui tavoli. I ristoranti indiani sono
già aperti e i
clienti stanno mangiando seduti ai tavoli, così come nei
ristoranti pakistani.
Davanti alla
porta della casa, proprio sulla strada, ci stanno aspettando
l’agente
immobiliare e il capo degli operai che mia madre ha assunto, tali
signor Doubt
e Fire. In questi mesi, poveretti, li ho massacrati di battute su
“Mrs.
Doubtfire”, il film con Robin Williams.
Io e Harry ci
avviciniamo e loro ci salutano con una calorosa stretta di mano.
- Signorina
Everdeen, ho visto i notiziari: quello che ha fatto è stato
incredibilmente
coraggioso. La ammiro moltissimo – dice l’agente
immobiliare, il signor Doubt.
- Grazie –
sorrido nervosamente ricambiando la stretta.
- Perfetto. È
il momento.
Stringo la
mano di Harry mentre l’agente tira fuori un mazzettino di
chiavi dalla tasca
dei pantaloni, me lo mostra e me la posa nel palmo della mano.
- Sono tutte
sue! Se le serve qualsiasi cosa, trova i nostri numeri vicino
all’entrata. –
Spiega il signor Fire, capo del cantiere. Poi i due salutano e se ne
vanno
sotto la pioggia lasciandoci soli davanti alla grande porta blindata
blu.
Io e Harry ci
scambiamo un’occhiata tesa, poi infilo le chiavi nella
serratura e con uno
scatto apro la porta. Pensavo di trovarmi di fronte alle scale ma,
sorprendentemente, subito dietro c’è
un’altra porta con agganciato vicino un
apparecchio per l’allarme. Attaccato allo stipite
c’è un post-it con scritto il
codice dell’allarme di sicurezza.
-
L’inquietante idea della doppia porta l’hai avuta
tu, neh? – Chiedo premendo i
tasti nell’ordine giusto. Con uno scatto la serratura si apre.
- Ah-ah. –
Annuisce Harry.
- Sciocco
iperprotettivo.
- Ho il
diritto di stare tranquillo una volta nella vita quando si parla di te,
sì o
no?
Sospiro e gli
lancio un’occhiata di semi rimprovero, poi spingo la porta.
Le scale sono
state completamente riparate con del legno chiaro, i muri intonacati
senza
nemmeno una crepa. Saliamo le scale e mi manca il fiato.
L’open space
è stato completamente trasformato: doveva essere un
monolocale e comprendere
cucina, bagno, salotto e camera da letto in una stanza, per come
l’avevo
pensato io. Ora invece, salite le scale, si arriva in un grande salotto
con pavimento
in parquet scuro anticato e le pareti intonacate di bianco. A destra,
poco
lontano dalle scale, sopra a un divano a L di legno chiaro imbottito di
grandi
cuscini blu sta appesa una riproduzione a dimensioni originali del
“Lo stagno
delle ninfee, armonia verde” di Monet.* Il divano si trova
davanti a un
tavolino basso e a un caminetto di mattoni, che si trova sotto a una tv
a
schermo piatto. I toni chiari delle pareti fanno sembrare tutto
più grande. La cosa
più bella è che ovunque ci siano le mie cose,
quelle che erano a casa di Harry
fino a non so quanto tempo fa.
Poco oltre il
divano c’è una chiara e stretta scala a chiocciola
che porta al piano superiore,
e dietro di essa una nicchia con una cucina a vista completa di isola e
mobili
di legno chiaro. Accanto alla cucina, che rispetto al salotto
è di dimensioni
leggermente ridotte, sta una stanza con una porta bianca e un
gigantesco smile
“;)” dipinto in nero. In un attimo mi torna in
mente il bigliettino che Harry
mi ha dato la sera della vigilia di Natale, e ho paura di scoprire che
cosa si
è inventato.
Attraverso
velocemente la stanza senza smettere di stupirmi del mobilio scelto con
estrema
cura, e apro la porta con lo smile.
- OH, PORCA
PUTTANA! – Grido in italiano.
Dentro, il
paradiso.
Harry
(indiscutibilmente Harry) ha riempito la stanza con ogni tipo di tela
bianca,
pennelli intonsi, carboncini, matite colorate, acquerelli in tubetti di
stagno.
Il tutto è illuminato da una grande finestra che
dà sulla strada.
Una stanza
dei dipinti. La mia. Fottuta.
Stanza.
Dei dipinti.
- Buon
Natale, love – ridacchia Harry vedendo la mia faccia.
– Un po’ in ritardo.
- Adesso
muoio, qui e ora. – Dico sedendomi per terra.
- Non sali di
sopra? – Chiede appoggiandosi allo stipite della porta.
- Dopo. Prima
mi riprendo da questo colpo incredibile.
Scommetto che
è per questo che gli operai hanno voluto cinque giorni in
più per darmi le
chiavi!
Il
piano
superiore è anche meglio: c’è una
grande camera da letto con un soffice
matrimoniale e sempre il parquet scuro, una cabina armadio, una grande
libreria
in un secondo piccolo e raccolto salotto e, udite udite, un bagno con
una vasca
idromassaggio! Il Nirvana, quello vero e proprio. Non metto piede in
questo
appartamento da mesi, da prima che venisse ristrutturato, eppure lo
sento già
come il mio rifugio, la mia tana.
Grazie nonni
materni, in qualsiasi paradiso karmico siate.
Così eccoci
qui, seduti sul divano del loro salotto. Anne, Gemma e Robin non
riescono a
smettere di abbracciarmi e controllarmi i punti in fronte e riempirmi
di
domande sui fatti di Harrods. Io mi sento abbastanza a mio agio da
riuscire a
raccontare almeno a loro ciò che è veramente
successo, e per fortuna a nessuno
degli Styles-Cox viene in mente di farmi vedere i video le
registrazione delle
telecamere.
Mi sorprendo
moltissimo quando scopro che alla fine del mio racconto, Gemma ha le
lacrime
agli occhi. L’espressione triste del suo viso fa riemergere
dalla nebbia dei
miei ricordi le persone che ho visto morire per mano dei rapinatori, il
cranio
in frantumi, il sangue dappertutto, le vite spezzate. Mi sento
coinvolta in un
dovere morale di ricordare quelle vite, fare qualcosa per render loro
onore.
Il poliziotto
e l’uomo comune. Persone che avevano progetti, idee, sogni,
desideri. Persone che
sono morte per difenderne altre, in un giorno normale in cui nessuno
doveva
farsi male.
Non ci avevo
ancora ripensato, e questi pensieri mi appesantiscono il cuore. Piango
anch’io.
La
prima sera
alla Tana di Brick Lane si rivela molto piacevole. Io e Harry ci siamo
concessi
un idromassaggio e abbiamo ordinato una pizza, mangiandola davanti al
caminetto
acceso.
- Adoro
questo posto – commenta Harry guardandosi intorno.
– Ti rispecchia.
- Aspetta che
abbia finito di riempirlo di disegni – ammicco. Lui
sogghigna. Dalla strada
arrivano lontani i suoni allegri di musica e ristoranti.
- Il volo
domani è domattina presto. Forse dovremmo andare a dormire
– suggerisce.
- Mmm – poso il
cartone della pizza per terra e mi avvicino a lui. Quando sono a un
millimetro
dalle sue labbra sussurro:
- Prima
dovrai farti perdonare come Dio comanda.
Lo bacio. Prima
leggermente, poi sempre più pressante. Le lingue giocano e i
corpi scivolano
uno sull’altro, mentre si accende una scintilla che non si
era mai
completamente estinta. Gli salgo a cavalcioni senza staccare la bocca
dalla sua
e lui mi avvolge con le braccia attirandomi a sé. Il
crepitio del fuoco è l’unico
rumore in casa, oltre ai nostri gemiti.
Mi sfila la
maglia a maniche lunghe che indosso e io il maglioncino, restiamo a
petto nudo
e in reggiseno.
- Sono
contento di non averlo concesso a Kendall – mormora, la voce
roca.
- Taci. Non voglio
più sentir nominare Kendall.
Lo spingo a
terra senza concedergli di condurre il gioco, stavolta. Accarezzo la
pelle
sulla clavicola e la bacio, disegnando un arco sul suo collo. Il
desiderio si
sta facendo irresistibile per entrambi. Harry respira pesantemente, la
gola
arida.
- Mi sei
mancata. – Mi guarda, gli occhi ardenti di libido.
- Anche tu. –
Gli abbasso la cerniera dei pantaloni e lascio che lui giochi con la
mia.
Ci abbandoniamo
uno all’altro lì, proprio davanti al fuoco.
Il calore non
ci dà fastidio, stiamo bruciando entrambi.
Sono le
quattro del pomeriggio del 21 gennaio, cosa può essere
successo di così grave? Lo
richiamo preoccupata, vagliando ogni possibilità alla
massima velocità che il
criceto nel mio cervello possa concedersi, mentre Harry si prodiga per
chiamare
un taxi posando il borsone a terra.
- Annie!
Grazie a Dio! – La sua voce dall’altra parte della
cornetta rasenta l’isteria.
- Louis! Cosa…
- Briana è in
travaglio! Vuole te!
- Che
significa che vuole me?
- In sala
parto! Vuole te a tutti i costi, dice che senza di te non
può partorire! Per
favore, vieni subito!
- Sto
arrivando. In quale ospedale siete?
- Los Robles
Hospital. Per favore, sbrigati!
Chiudo di
scatto la telefonata e raggiungo Harry di corsa. Gli spiego la
situazione in
poche, brevi parole, e impongo al taxista di premere
sull’acceleratore con
tutta la fretta di questo mondo se non si vuole ritrovare con un
orecchio
staccato a morsi. Harry intanto si è attaccato al telefono
con Louis e sta
cercando di tranquillizzarlo, spiegandogli che non manca molto.
Un quarto d’ora
dopo il taxi ci deposita di fronte all’ospedale e noi
entriamo correndo verso
il reparto maternità. Alle infermiere basta darci
un’occhiata per capire che
siamo qui per Louis e Briana e ci indicano la strada senza troppe
cerimonie.
Io ho bidoni
di adrenalina nel sangue. Anzi, ho il sangue diluito
nell’adrenalina.
Louis sta
scavando un solco nel corridoio delle sale parto, un corridoio pieno di
panchette e con le pareti dipinte un lato di rosa e l’altro
d’azzurro. Da dietro
a una spessa porta blu arrivano le urla acute di Briana.
- Annie! Eccoti,
per fortuna! – Mi abbraccia convulsamente, e poi passa a
Harry. Io entro, ho
troppo fiatone per poter anche solo rispondergli.
Un’infermiera
imbragata in un largo camice e cuffietta per i capelli mi chiede se
sono Annie
Everdeen e non appena annuisco mi avvolge in un camice identico al suo
e mi
spinge verso Briana. È sdraiata su un letto da parto, con le
gambe appoggiate a
uno di quei cosi per le puerpere, e sta strizzando le lenzuola fra i
pugni come
non ci fosse un domani. L’ostetrica, con la faccia affondata
fra le sue gambe,
continua a incitarla dicendo che manca poco per vedere la testa. La
madre di
Briana sta in un angolino, terrorizzata.
Com’è che mi
ritrovo di continuo in queste situazioni piene di pazzi? Come?
Mi avvicino a
Briana e le metto una mano sulla spalla, lei non smette di urlare.
- Briana,
sono qui.
- Oh, Annie! –
Realizza che sono entrata solo quando sono a due centimetri da lei.
– Annie,
non ce la faccio! – Singhiozza.
- Sì che ce
la fai. – Cerco di tranquillizzarla, il cuore che batte a
mille all’ora.
- No, non
posso! Non uscirà mai!
- Briana, non
uscirà mai se continui ad avere quest’ansia
– la sgrida l’ostetrica. – Devi RESPIRARE.
Capisco perché
Louis mi abbia chiamato con così tanta urgenza. Qui
rischiamo grosso: se il
bambino non riceve abbastanza ossigeno al momento del parto rischia
gravi danni
cerebrali. Lo so dai tempi di Grey’s Anatomy.
Oso sbirciare
da sopra la spalla dell’ostetrica: Briana è quasi
completamente dilatata, e
strilla come un’aquila.
Deglutisco. Non
farò mai figli.
Urla ancora,
singhiozzando: - Non ce la faccio!
Anche la
madre scoppia in singhiozzi e corre fuori dalla sala parto. Che madre
matura,
anche lei!
Non ho la
minima idea di quello che devo fare, e il criceto scende dalla ruota,
si apre
una rivista e mi augura buona fortuna.
Qualcosa nel
mio cervello scatta: forse istinto di sopravvivenza.
Briana è
completamente piegata in avanti sul letto, e lascia abbastanza spazio
dietro la
sua schiena per un’altra persona. In un attimo mi inginocchio
dietro di lei sul
letto, la faccio sdraiare su di me e la afferro per una mano,
contrastando la
sua morsa meccanica.
- Ce la fai. So
che puoi farcela, Briana. Forza. Respira, ok? Spingeremo insieme. Ok?
Briana tira
su col naso e annuisce, poi si sforza di respirare con
regolarità. L’ostetrica
mi lancia uno sguardo di approvazione.
- Sei
completamente dilatata, Briana: alla prossima contrazione, spingi
più forte che
puoi. Intesi?
- S-sì…
Un secondo di
silenzio, poi la stretta sulla mia mano aumenta ancora: la contrazione
è
arrivata.
- Pronta? –
Sto quasi gridando. – Pronta? SPINGI!
-
Ma ciao,
piccoletto! Chi è il piccolo Freddie? Sì, esatto!
Sei proprio tu!
Dio, è
proprio vero che i neonati ti rincoglioniscono.
Freddie Reign
Tomlinson, figlio riconosciuto di Briana Jungwirth e Louis Tomlinson,
è nato
alle 18.23 del 21 gennaio 2016 al Los Robles Hospital di Los Angeles.
Sono state
due ore di fatica immensa per Briana e di “non mi sento
più la mano” da parte
mia. Ma quando questo esserino infagottato è venuto
finalmente al mondo e l’ostetrica
ha annunciato “è un maschietto”,
è stato amore a prima vista e il mondo ha
smesso di girare. Briana l’ha stretto e l’ha
abbracciato, completamente sudata,
e l’ha chiamato Freddie. Louis e Harry sono entrati di corsa:
Louis è andato da
Briana con le lacrime agli occhi, e lei gliel’ha passato fra
le braccia.
- Sono papà –
ha detto Louis, ed è scoppiato in lacrime di commozione.
- Mi sento un
po’ malino in questo momento – Harry si stringe gli
occhi in una pinza, secondo
me per non far vedere che anche lui era commosso. Briana mi ha lanciato
uno
sguardo di fiera vittoria e un sorriso di ringraziamento, e io ho
annuito come
per dire “prego”. Non c’era bisogno delle
parole.
Sono le
undici di sera adesso, e il piccolo Freddie ha appena finito di fare la
pappa. Mi
stringe il mignolo con la forza di un operaio, proprio come la mamma, e
io sto
facendo versi stupidi da mezz’ora come una cretina ma a bassa
voce, perché
Briana si sta addormentando.
Harry si è seduto
su una sedia e si è addormentato con la nuca contro il muro,
attività che sta
diventando la sua specialità in questi ultimi tempi. Non mi
è neanche venuto in
mente che io e Harry non abbiamo visto Jawbelly Ville nemmeno di
striscio, da
quando siamo scesi dall’aereo, né abbiamo mangiato
o bevuto qualcosa. Avevamo cose
più importanti e urgenti a cui pensare.
- Annie – la voce
di Briana è assonnata, ma continua a guardare Freddie con un
orgoglio che ho
visto solo negli occhi di un’altra madre. – Io e
Louis abbiamo discusso di una
cosa, e vorrei dirtela. Mi sembra il momento adatto, ora. Louis, che ne
pensi?
Lui, in piedi
accanto a Briana, si limita ad emettere un grugnito senza smettere di
fissare
suo figlio con sguardo adorante.
- Dimmi pure.
- Ecco… noi
vorremmo che tu fossi la madrina, e Harry il padrino. Ci piacerebbe
moltissimo
che, nel caso ci succedesse qualcosa, foste voi a prendervi cura di
nostro
figlio. Che ne pensi? Accetti?
Rimango
ammutolita, paralizzata dall’immenso onore che mi stanno
facendo.
- Lo sarò con
piacere. – Mi apro in un largo sorriso.
Briana ricambia
il sorriso, si china sull’incubatrice e prende Freddie in
braccio per poi porgermelo.
- Prendilo,
non avere paura! – Mi incita.
Allungo le
mani e lo prendo in braccio, facendo la massima attenzione a tenergli
sollevata
la testa. Guardo il suo visetto bitorzoluto e addormentato, e vengo
travolta da
un’ondata di amore per lui. Il mio figlioccio.
*
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