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Autore: Lady Stark    13/03/2016    1 recensioni
«Per lei, tutto è possibile, ufficiale.» con un gesto delle braccia, il taverniere l'invitò a seguirlo.
Len sapeva che quello che stava per fare era sconsiderato, irrazionale e pericoloso.
Era perfettamente a conoscenza del fatto che quel comportamento l'avrebbe potuto distruggere.
Avrebbe potuto demolire tutto ciò che per anni aveva così faticosamente costruito...
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Len Kagamine, Rin Kagamine | Coppie: Len/Rin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter X 

Rin spalancò con foga la porta e, senza attendere le indicazioni del veterano, si precipitò alla ricerca del suo compagno. Le gambe pesavano come due pezzi di marmo; il sangue rombava nelle sue arterie, offuscandole l'udito. Lo sguardo si spostava freneticamente da una porta all'altra, nel tentativo di comprendere dietro quale di esse si celasse l'ufficiale.

Un giramento di testa la fece ondeggiare ma, malgrado ciò, la ballerina non desistette.

Alzarsi così rapidamente dopo tante ore di sonno non era di certo stato un colpo di genio però, in quella situazione, tutto ciò che non riguardava Len aveva perso importanza.

Quel pensiero le martellava le tempie, tramutando le altre riflessioni in fantasmi dai cerei contorni. Il corridoio appariva senza fine in quell'identica successione di usci.

Era sicura che, se si fosse messa a contarli tutti, il numero avrebbe ampiamente superato la centinaia. A quel punto, la ragazza si impose di fermarsi e, inspirando con lentezza, cercò di ragionare. Il cuore sbatacchiava ancora contro la sua cassa toracica, deciso a sfuggire ad ogni sua razionale imposizione. Louis aveva detto che l'ufficiale stava ancora dormendo; di conseguenza, dalla sua stanza non sarebbe dovuto provenire nessun rumore forte.

Ora che Rin vi prestava attenzione, si rese conto che l'aria era gravida di suoni smorzati, attutiti dal legno con cui erano state costruite le porte.

Lamenti, gemiti e grida soffocate l'attorniavano, quasi come se si trovasse in un lazzaretto. In lontananza, lì dove il corridoio curvava verso sinistra, spalancandosi su un'altra ala del castello, il pianto infelice di un neonato ruppe il silenzio ieratico.

Un paio di stanze erano silenziose. Esasperata dalla sua indecisione, la ragazza afferrò la maniglia della prima, spalancandola con veemenza verso l'interno.

Un medico dalla canizie accentuata stava visitando una signora anziana, rannicchiata timorosamente in quel nido di coperte di raso. L'uomo le stava tastando con gentilezza il polso scheletrico, immobilizzato da due stecche di legno e strette fasciature. Una garza più corta le cingeva il capo e, a differenza di quelle sul braccio, era appena macchiata di rosso.

«Come si sente oggi, signora?»

«Il braccio mi fa molto male.» la voce, arrochita dal tempo, assunse una cadenza infantile, simile a quella dei ragazzini che si lamentano perché non vogliono mangiare gli spinaci.

«Posso ben crederlo, signora. Ma le prometto che ben presto non le darà più alcun fastidio.» Alzandosi in piedi, il medico allungò le mani verso la bendatura che le coronava la fronte e, con abile gesto, la sciolse. A quel punto, senza farsi notare, Rin chiuse il battente ed aguzzò l'udito per cogliere il canto del silenzio. Rin vagò nel corridoio, spalancando ancora due porte. Sfortunatamente i suoi tentativi andarono a vuoto in modo alquanto imbarazzante. La prima volta, la ballerina si ritrovò di fronte ad un uomo totalmente nudo che, girando su sé stesso, stava mostrando all'infermiere le ferite riportate sul corpo.

La seconda intrusione le mostrò uno spettacolo tanto toccante da risultare doloroso.

In fondo alla stanza, distesa su un baldacchino matrimoniale, c'era una giovane madre con un sorriso dipinto sul viso. Al suo fianco, una ragazzina di appena otto anni dormiva acciambellata come un cucciolo.

Il visino, ripiegato contro il cuscino, era coronato da una cascata di riccioli color rame.

La scena sarebbe risultata gradevole se la ballerina non si fosse accorta che a quella creatura mancava una mano.

La madre carezzava le crine disordinate della bambina. Rin studiò quel movimento ipnotico e regolare, notando che anche lei era stata lesionata dalla perdita di tre dita: il medio, l'anulare e il mignolo.

La signora si accorse della sua presenza e, sollevando spaventata la testa, le rivolse un'occhiata enigmatica, a metà tra un sorridente invito ad entrare e un ammonimento.

Rin chiuse l'uscio, lasciandole alla loro sofferente intimità.

Il desiderio di trovare l'ufficiale si era fatto tanto impellente da risultare molesto.

Ti prego, fa che sia questa.” pensò tra sé e sé mentre la mano correva a cingere la maniglia dorata. Se lì dentro non ci fosse stato Len, la ragazza si sarebbe messa ad urlare per l'isterico nervosismo che le comprimeva il petto.

Chiudendo le palpebre, spinse il battente con la spalla ed irruppe nella terza camera da letto.

«Le ferite riportate non sono gravi quanto una prima analisi aveva rivelato ma, malgrado ciò, lei..» le parole del dottore si interruppero di colpo, mozzate dall'inaspettata invasione della ballerina. Una fitta di sgomento le inacidì lo stomaco quando l'uomo, strisciando per terra le zampe della sedia, le si indirizzò in modo sgarbato.

«Lei chi sarebbe? Non ha il diritto di..»

«Rin?»

Fu appena un sussurro ma la giovane avrebbe riconosciuto ovunque quella voce.

Il suo cuore si arrestò ed il fiato le venne a mancare.

Era lui.

«Ufficiale, conosce questa ragazza?»

Rin socchiuse lentamente le palpebre, incollando il proprio sguardo a quel viso che mai, prima di allora, fu tanto felice di rivedere. Il medico la stava squadrando in cagnesco, evidentemente infastidito dal fatto che la ragazzina avesse interrotto il suo lavoro.

«Sì. Ora ti prego di uscire.»

«Come, scusi?»

«Esci.» il suo fu un solo, semplice ordine.

Il medico si voltò verso l'ufficiale quasi pensando d'aver sentito male ma, nel farlo, si scontrò con un paio di fornaci di ghiaccio.

Il signore raccattò stizzito le proprie cose ed uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle. Len non disse una parola ma lasciò che fossero i suoi occhi a parlare.

Le differenti tonalità blu delle loro iridi si mescolarono, come affluenti di un fiume che, per troppo tempo, erano rimasti divisi.

«Rin. Mia cara, amatissima, Rin.» Il militare assaporò quel nome sulle labbra, pronunciandolo sillaba per sillaba. La ballerina non riusciva a muoversi; i suoi arti si erano tramutati in pezzi di argilla, insensibili a qualsiasi suo richiamo o stimolo.

L'ufficiale era seduto sul materasso, appoggiato con la schiena a quattro gonfi cuscini ripieni di piume. A giudicare dal velo di sudore che gli imperlava la fronte, la sofferenza gli stava masticando le ossa.

«Sei qui.» mormorò in un sospiro, sfuggendo per miracolo al desiderio di piangere come un marmocchio. La ballerina si portò le mani al viso e piano scivolò a terra, raccogliendo le gambe contro il petto.

«Dove altro potrei essere, Len?»

«Ovunque, a chilometri di distanza da me.» pronunciare quelle parole gli fece male.

«Se fossi scappata, non ti avrei biasimato. Hai rischiato di morire per colpa mia.»

Rin scosse la testa, ridacchiando istericamente di fronte a quell'affermazione così innocente.

La sua vita, ormai, non poteva esistere lontano da lui.

Molto spesso, si era ritrovata a pensare che se fosse stata costretta ad abbandonarlo, qualcosa sarebbe irrimediabilmente cambiato nel suo modo di essere.

Rin non era mai stata romantica; la vita non gliel'aveva permesso.

Squadrando i fatti con il suo spietato realismo, la giovane aveva compreso che la routine, procedendo con il suo monotono passo, l'avrebbe trascinata con sé.

Avrebbe certamente vissuto ancora a lungo ma in mondo privo di colore e brio.

Len cercò di sistemarsi meglio ma, nel farlo, un pugno di dolore gli mozzò il fiato in gola. Ansimando ad occhi serrati, cercò di non mettersi ad urlare.

«Len! Che ti prende? Devo chiamare il medico?» la ragazza era balzata di colpo in piedi e, con il terrore negli occhi, si stava avvicinando frettolosamente al bordo del letto.

L'ufficiale digrignò i denti in un'espressione grottesca, a metà tra il riso e lo strazio.

Le sue dita, agganciate al copriletto, si rilassarono con lentezza, man mano che l'agonia svaniva.

«No, sto bene.»

L'uomo voltò il capo, facendo frusciare i capelli sudati contro la federa.

«Finalmente ti sei avvicinata.. lasciati toccare.» le dita del giovane si sollevarono, bramose di annullare la distanza che li separava. La ballerina fece istintivamente un passo indietro, sfuggendo così alla sua portata. L'uomo rimase chiaramente ferito da quel silenzioso rifiuto e, con titubanza, abbassò la mano senza sapere cosa dire.

«Rin.. io..capirò se..» la mente dell'ufficiale si accartocciò, vinta da un terrore mostruosamente intenso. Quel rifiuto l'aveva d'improvviso catapultato in un mondo di paura, contornato da tentacoli appiccicosi come la pece.

Lo stava abbandonando?

Quell'incubo aveva perseguitato il giovane, insidiandogli il sonno e i momenti di veglia ma, puntualmente, si era rifiutato di credervi.

Dopotutto, vivere senza di lei non avrebbe avuto alcun senso.

La ballerina aprì e serrò i pugni, tenendo le braccia cementate lungo i fianchi, malgrado stesse scalpitando all'idea di toccare quel viso ammaccato.

«Shh, non parlare.» mormorò, accostandosi ancora d'un passo alla sponda del letto. Con gli occhi baciò il profilo del suo mento, solcato da un taglio che sarebbe ben presto svanito.

La verità era che aveva paura di toccarlo.

Rin era sicura che l'uomo si sarebbe smaterializzato sotto i suoi polpastrelli, non appena avesse osato toccarlo. Quello poteva essere un sogno; un mondo fittizio, creato dalla sua mente traumatizzata per proteggersi.

Se nella realtà Len era morto, la ballerina non voleva risvegliarsi.

Il calore del sole filtrava dalle ampissime finestre alle sue spalle, sfiorandole la spina dorsale, vertebra per vertebra. La morbidezza della vestaglia da notte le lambiva la pelle in maniera così verosimile da farle credere d'essere sveglia.

Ma, malgrado ciò, decise di non fidarsi dei propri sensi.

«Che cosa succede, Rin?»

«Dimmi la verità. Questo è un sogno, vero?»

Len sbatté le palpebre un paio di volte, sbalordito da quella domanda così inconsueta.

Lui, un sogno?

Impiegò qualche minuto prima di comprendere cosa stesse insinuando la fanciulla, ferma lì accanto. Un lampo di serietà e timore pulsò nelle sue orbite, permettendo all'ufficiale di comprendere l'autenticità del suo dubbio.

Le dita dell'uomo scivolarono sul copriletto, tentando d'afferrare e stringere quelle della ragazza ma lei si scostò di nuovo.

«Rin, io non sono un sogno.»

«Ho paura, Len. Se tutto questo fosse finzione..» la sua voce si ruppe, cadendo in frammenti minuscoli ai suoi piedi. L'ufficiale, scoraggiato dalla sua testardaggine, strinse i denti ed avvertì una fitta di dolore arrampicarsi lungo la curva della sua mascella.

«Io sono qui, per te. Lo sarò sempre.»

Le barriere protettive che la ballerina aveva eretto attorno a sé vacillarono, sgretolandosi ai colpi delle parole di Len.

«Ora, vieni qui. Altrimenti mi costringi ad alzarmi.»

Non ci fu bisogno di altre parole.

Prima ancora che il ragazzo potesse terminare la frase, la danzatrice si era già precipitata a stringergli il collo. Senza rendersene conto, una pioggerella di lacrime tempestò i suoi zigomi rosei, arrossandole la pelle.

Rin singhiozzò senza pudore, affondando il viso nell'incavo della spalla dell'ufficiale che, accarezzandole dolcemente la nuca, lottò contro il nodo che gli stringeva la gola.

«Non sei un sogno.» bisbigliò, scostandosi di qualche centimetro per guardarlo in faccia.

I suoi polpastrelli esplorarono con cautela il viso del compagno che, chiudendo gli occhi, si abbandonò al quel tocco così gentile.

«Neanche tu lo sei.»

Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce ma, quando Rin era improvvisamente entrata con la maniglia ancorata tra le dita, l'ufficiale aveva pensato d'aver avuto un'allucinazione.

Dopo tutto quello che aveva passato per colpa sua, la fanciulla aveva davvero trovato il coraggio per perdonarlo.

«Ti amo.»

Quelle parole sfuggirono incontrollate dalle labbra di Rin che, rendendosi conto di ciò che aveva appena detto, si premette ambedue le mani sulla bocca.

Un acceso, luminoso rossore le infiammò il viso, come se un'onda di calore si fosse sprigionata dai più bui recessi del suo corpo.

Len sgranò gli occhi, assaporando nel silenzio l'eco di quelle due paroline tanto agognate.

«Len, scusami. Io non volevo..»

La mano del militare scivolò sulla guancia umida, intrecciandosi a quei ricci ribelli.

Le sue iridi, così simili a due oceani gemelli, la scrutavano con un'intensità tale da farle venire la pelle d'oca. L'anima dell'ufficiale era incendiata; bruciava di un sentimento che né il tempo, né la delusione avrebbero potuto mitigare.

«Dillo ancora..»

Rin arrossì, convertendosi in una ciliegia matura.

Appoggiando le mani sul copriletto, la giovane si avvicinò e, a fior di labbra, in un sussurro appena percepibile, pronunciò quel segreto inconfessabile che per mesi aveva custodito nel cuore.

«Ti amo, ufficiale.»

A quel punto, di fronte all'anima nuda della fanciulla, Len non riuscì più a controllarsi.

Avvolgendo il suo viso tra le mani, si sollevò a sedere per baciarla, dimentico del dolore causatogli dalle ossa fratturate.

I petali del loro amore sbocciato fuori stagione si schiusero, emanando un aroma squisito, soave come l'ambrosia degli dei.

I tralci spinosi di quella rosa crebbero ancora, attorcigliandosi intorno alle costole, ai polmoni, al fegato, per poi coinvolgere ogni loro cellula.

Rin si perse in quel bacio, cingendo con passione il collo dell'uomo. Forse avrebbe dovuto fare attenzione, ma il sapore salato delle labbra di lui aveva demolito ogni capacità razionale della ballerina. Non c'era nulla all'infuori del tocco virile delle mani dell'uomo sulla schiena o del suo respiro caldo sulle guance accaldate.

Len le mordicchiò il labbro, stringendo tra le dita i ricci biondi.

Per qualche minuto, entrambi abbandonarono le proprie preoccupazioni che, sibilando, si rannicchiarono in un angolo buio della stanza, pronte ad affondare le zanne in quel germoglio di ritrovata felicità. 

   
 
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