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Autore: keska    29/03/2009    26 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Pian piano mi stavo svegliando copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Pian piano mi stavo svegliando. Nell’aria c’era l’aroma di caffé, misto con uno strano odore di qualcosa di ben noto, ma che ora proprio non mi tornava alla mente. Sentivo su di me delle coperte ruvide e, oltre a quel fastidioso dolore al petto, avevo la schiena massacrata. Stavo per compiere un gesto abituale, che facevo ogni mattina: stiracchiarmi e girarmi stesa a pancia in giù prima di riaddormentarmi ancora un po’. ‘Stavo’ perché, non appena mi mossi, mi sentii bloccare da due macigni freddi.

Aprii gli occhi, infastidita.

Il viso di Edward mi fissò, un sorriso accennato «Buongiorno».

Sospirai, osservando le sue braccia che mi impedivano di muovermi. «Buongiorno» biascicai, la voce ancora impastata dal sonno.

Erano passati cinque giorni dall’intervento e mi trovavo ancora nella stanza d’ospedale. Passavo il tempo a dormire. Mangiavo poco e niente, perché a causa dei sedativi avevo una forte nausea; quindi mi avevano dovuto, con mi enorme rammarico, nutrire endovena. Per di più, non mi potevo muovere da quella posizione.

Feci una smorfia, stanca e dolorante.

Edward mi accarezzò gentilmente i capelli. «Vuoi che ti sistemi i cuscini?».

Annuii. «Sì, per favore…». In quei giorni era stato una presenza costante e indispensabile. Nonostante non potesse sopportare di vedermi stanca, ferita e dolorante, non perdeva mai occasione di pensare a me, di distrarmi, farmi svagare e non pensare alla mia triste condizione.

Quando si allontanò appena per sollevare la spalliera del letto, notai la presenza di mio padre in camera, intento a sorseggiare il suo caffé.

Edward fece scivolare una mano appena dietro la mia scapola, accompagnandomi gentilmente il busto verso l’alto. Mi strinsi al suo corpo, una piccola smorfia di dolore sul viso, aspettando che sistemasse i cuscini alle mie spalle.

Malgrado fosse sempre stato accanto a me, e mi avesse costantemente aiutata, avevo notato qualcosa di diverso in lui. Il tocco. Il tocco delle sue mani aveva perso qualcosa. Era sempre dolce, gentile, e delicato. Ma in quel tocco non c’era più il palpito e la scossa che ci attraversava ad ogni contatto.

Quando mi adagiò sul letto, sentii un po’ di sollievo. «Grazie…» mormorai, intontita e pensierosa.

Si sedette accanto a me, sorridendomi. Con lo sguardo mi osservava, cautamente, come se tenesse sottocontrollo ogni mio gesto.

Avrei voluto prendergli le mani e stringerle forte, tanto da farglielo sentire. Chiedergli “cos’hai?”. Perché qualcosa di strano l’aveva. Era per quello che gli avevo detto? Era per la mia ferita? Era per tutta la questione che si era venuta a creare?

Ma c’era mio padre in camera. Le mie sarebbero potute essere semplici speculazioni prive di fondamento. E avevo davvero troppa paura che la motivazione sarebbe potuta essere proprio una di quelle che immaginavo.

«Come ti senti Bells?» chiese mio padre, districandosi malamente fra il cappotto che teneva piegato sul braccio e il caffé.

Annuii appena, schiarendomi la gola. «Sto bene».

Mio padre mi osservò senza dire nulla che non fosse un «Bene» borbottato. Poi aggiunse «Alice si sta davvero impegnando per il matrimonio. Siete sicuri di riuscire a fare tutto in tempo? Non vorrei che quella ragazza si stancasse troppo, si può sempre posticipare…».

«Penso che mi sorella lo adori, signore» intervenne prontamente Edward «è stata una sua idea quella di organizzare tutto, e ne è entusiasta. Finché le condizioni di salute di Bella lo permetteranno, preferirei che la data del matrimonio non fosse spostata. Cosa ne pensi?» chiese poi, rivolgendosi a me.

Arrossii. In quei giorni non ero stata in grado di aiutare in alcun modo Alice, anzi. Avevo dovuto lasciare che fosse lei ad aiutare me, più di quanto non stesse facendo con il matrimonio. Nonostante tutto fosse una sua idea, mi sentivo in colpa al pensiero di non contribuire alla mia festa, ma stanca e dolorante com’ero avrei comunque potuto fare poco. «Certo, papà. Non c’è nessuno motivo per spostare… per spostarlo. Va bene. Aiuterò Alice appena potrò, mi impegnerò».

Edward mi accarezzò i capelli, facendo trasferire il mio sguardo sul suo viso. «Tesoro, non ce n’è bisogno, lo sai. Non ti devi stancare. Carlisle dice che devi stare a riposo, sarà tutto perfetto lo stesso, vedrai».

Mio padre strinse le labbra. «Perché ancora non avete spedito le partecipazioni?».

Sussultai, abbassando il viso. Colpa mia. Ancora troppo vergognosa all’idea del matrimonio, avevo chiesto a Edward di procrastinare il tutto fino a quando non fossi uscita dall’ospedale. Fino a quando non avessi avuto un posto in cui nascondermi. «Papà» protestai, addolorata del fatto che il suo unico pensiero sembrava quello di volerlo far andare a monte, il matrimonio. «Ti prego… me l’avevi promesso» cincischiai.

Sospirò, borbottando. «Certo, certo. Non ti agitare. Lo dicevo per voi ragazzi. Non ti agitare» ripeté, infilandosi il giaccone «io vado via. Torno stasera Bells. E… ciao».

«Ciao» lo salutai, lasciandomi sprofondare fra i cuscini. «Mi dispiace» dissi, non appena fu uscito dalla stanza.

Edward scosse il capo, sereno. «É solo preoccupato per te, vuole che tu sia sicura e che non commetta i suoi stessi errori. Va bene. Io ti amo, e tu mi ami. Non commetteremo gli stessi errori».

Lo fissai, rattristata. «Vorrei che si fidasse di te».

Mi sorrise, facendo passare la mano che mi stava accarezzando i capelli sulla nuca. «Non mi importa, va bene. Va tutto bene» mormorò dolcemente, cullandomi con le sue parole.

Stregata mi lasciai trasportare nella sua direzione, e chiusi gli occhi. Troppo, passò troppo tempo perché mi baciasse. Le sue labbra si incollarono alle mie. Fredde fattezze lambivano le mie piccole e rosee labbra. Calme, dolci, tenere. Senza passione, o amore. Quasi con paura.

Ansimai, e mi tesi nella sua direzione, avventurandomi con le dita fra le morbide ciocche dei suoi capelli. Volevo sentirlo più vicino, più mio, più passionale. Più coinvolto. Era tenero, dolce. Ma distante. Gemetti, e feci ancora per avvicinarmi, perché il suo corpo sembrava essere troppo lontano dal mio.

Mi lamentai, dolorante, ritraendomi di scatto.

«Ehi» fece Edward, accompagnandomi nuovamente sul cuscino, «stai giù, attenta».

Annuii velocemente, stringendogli una mano. «Sì, sì, certo» biasciai fra i denti, scontenta a frustrata. Un dolore acuto mi tagliava il petto all’altezza della ferita. Mi accarezzò la guancia, gentilmente, aspettando che riprendessi il controllo del mio corpo. Man mano il dolore andò scemando.

Me lo leggeva in faccia quanto fossi insofferente per quella situazione, e ogni volta inventava qualcosa per distrarmi. Ma ormai i giorni che avevo passato confinata in quel letto e fra quelle mura erano troppi, troppi per poterli sopportare.

Per l’ennesima volta mi fu accanto, se non passionalmente come lo desideravo, quantomeno con tenerezza.

«Tieni, è per te» disse, porgendomi un pacchetto di medie dimensioni, impaccato in carta gialla e lucida.

Arrossii, facendo per protestare. Lo sapeva quanto odiassi i regali, mi metteva a disagio che fosse proprio lui a farmene. «Edward…».

«Niente. Aprilo e basta, è una sciocchezza» m’incitò con un sorriso.

Riluttante, strappai malamente la carta lucidata, sapendo che sarebbe stato inutile e ancor più imbarazzante rifiutare il suo regalo. Fortunatamente, non era provvisto di fiocchi che si dovessero slacciare, sono una piccola coccarda su un lato.

«Liquirizia?» chiesi stupita. Ce ne erano di tutti i tipi, divisi da piccoli scompartimenti nella scatolina colorata. Sassolini neri, pezzetti di radice naturale, all’aroma di anice, lavanda, gommosa, trasparente…

«Liquirizia» ripeté, un sorriso sulle labbra.

Sollevai lo sguardo sul suo volto, sorpresa. «Posso mangiarla? Davvero?».

Annuì. «Certo che puoi. Spero che ti piaccia».

Arrossii, non potendo fare a meno di osservarla ancora. «Grazie» mormorai, imbarazzata «mi piace davvero molto».

«Assaggiala» m’incitò, avvicinandosi con la sedia al letto, ma senza sdraiarsi accanto a me, nonostante le mie proteste.

«É davvero buona» commentai, passandogli il pacchetto perché lo sistemasse sul comodino. Mi osservava mentre mangiavo, con un’espressione quasi beata sul viso. «Non ti dà fastidio? L’odore… non ti disturba?».

Scosse il capo. «No, a dire il vero. E’ l’unico alimento umano di cui mi piace l’odore: è dolce, aspro, saporito, salato, unico e non paragonabile a nulla. Inoltre, antichi popoli credevano avesse proprietà curative. É… potente. Irretisce quasi tutti i miei sensi».

Strinsi le labbra, assaporando il pezzetto che avevo messo in bocca. «Quindi non è stata una scelta casuale».

«No, non lo è stata».

Mi morsi un labbro, osservandolo attentamente. Dei pensieri stavano cominciando ad affollare la mia mente. Se aveva comprato la liquirizia, era andato via. Se era andato via… Deglutii, improvvisamente in ansia. Non potevo pretendere che stesse sempre con me, ma la paura mi sopraffaceva spesso appena pensavo alla minaccia malcelata nella parole di Jacob. Sarebbe tornato. E io non avrei mai più voluto farmi trovare sola, senza Edward.

«Va tutto bene?» mi chiese pensieroso, notando l’espressione sul mio viso.

Annuii, provando a dissimulare il mio stato.

Avvicinò una mano alla mia guancia, accarezzandomi. «Ehi… Cosa c’è che non va?».

Scossi il capo. «Non posso stare senza te, capisci? Non posso. Lui…» deglutii, «lui non deve tornare. Per favore. Non… non…» ansimai, stringendo affannosamente le sue mani.

Strinse i miei polsi con una mano, stringendomi il viso con l’altra. «Calma» mi ordinò, con voce pacata, «lui non ti farà del male. Te l’ho promesso. Non te ne farà».

Chiusi gli occhi, concentrandomi sul suono del suo respiro per far rallentare il mio. «Stenditi accanto a me».

«Bella-».

«Stenditi accanto a me, per favore» ripetei, implorandolo, gli occhi ancora chiusi.

Scivolò sul materasso, avvolgendomi con le braccia e facendomi adagiare per metà sul suo corpo. Mormorava piano qualcosa al mio orecchio, baciandomi la tempia di tanto in tanto. Non mi stava consolando per l’assenza di Jacob, come era avvenuto solo qualche settimana fa. Mi stava rassicurando sul fatto che non sarebbe più tornato, che gli avrebbe impedito di farmi del male. Io, ero stata io a chiedergli di lottare per me.

«Grazie» sussurrai, lasciando che i nostri corpi si rasserenassero assieme.

Non passò molto, che Carlisle entrò in camera con la mia cartella clinica per la consueta visita giornaliera. Temporeggiò per un secondo trovandoci abbracciati sul letto.

Arrossii, vergognosa, lasciando immediatamente cadere la presa sul corpo di Edward.

Lui non era imbarazzato, osservava il padre con uno di quegli sguardi carichi di serietà, che sapevo nascondevano qualcosa che non potevo capire, o sentire. Ad ogni modo si sollevò, ritornando dove voleva essere, sulla sedia accanto al mio letto.

«Come va stamattina, Bella?» mi chiese cortesemente Carlisle, avvicinandosi.

«Sto bene».

Mi sorrise, controllando i dati che le infermiere avevano aggiornato sulla mia cartella. «Va bene, cambiamo il bendaggio allora».

Edward si sollevò dalla sedia e mi baciò la fronte. «Vi lascio per un attimo insieme, torno subito».

Feci per protestare, scontenta. «Perché devi andare via?» chiesi preoccupata, tentando inutilmente di dissimulare la mia morbosa dipendenza da lui.

«Non ti preoccupare, torno presto» fece, anziché darmi una risposta esauriente, e scappò via in un attimo.

Sospirai, lasciandomi andare fra i cuscini e umettando inutilmente le labbra secche, gli occhi chiusi. Carlisle sistemò lo schienale in modo che fosse agevolato nel suo compito. Odiavo il fatto che Edward avesse deciso di andare via proprio adesso, mentre sapeva che detestavo più di tutti proprio quel momento della giornata. Non era da lui, questo. No, affatto.

«Ce la fai a sollevarti?».

Annuii, facendo leva sulle braccia con un po’ di sforzo e dolore. «Tu sai cos’ha Edward?» chiesi velocemente, preoccupata.

Carlisle rimase concentrato sul bendaggio, in modo da non farmi stancare troppo in quella posizione. «Perché, ha qualcosa?».

Strinsi le labbra, sentendomi stupida per la domanda appena fatta. «Niente, scusa» mormorai, stendendomi nuovamente non appena me ne diede la possibilità.

«Stai guarendo bene. Ti do degli altri antibiotici, non possiamo rischiare che la ferita s’infetti. Vorrei che questa febbre scomparisse definitivamente» disse, districandosi con il tubicino che avevo perennemente collegato a un vaso all’interno del gomito.

Rimasi ferma, silenziosa. Non sopportavo più niente di tutto ciò. Aghi, tubicini, bendaggi. Niente.

«Credo che se tutto andrà bene fra cinque giorni potremmo dimetterti. A condizione che tu prosegua con il riposo anche a casa».

«Cinque giorni?» chiesi, improvvisamente angosciata, aprendo gli occhi.

Un’espressione di scusa comparve sul suo volto. «Mi dispiace, vorrei che le fratture si stabilizzassero».

«Cinque giorni» esalai, depressa, scuotendo il capo.

Mi accarezzò gentilmente i capelli. «Appena starai meglio. Vedrai, passeranno in fretta, non te ne accorgerai neppure».

Mi imposi di non aprire bocca. Non sarebbero uscite parole carine dalle mie labbra. Quello che più mi frustrava era che non avevo proprio nessuno con cui prendermela, men che con me stessa.

Il rumore della porta che scorreva preannunciò l’entrata nella stanza di Edward. «Avete finito» constatò.

«Come se non lo sapessi» borbottai, esasperata.

Rivolse un fugace sguardo al padre prima di avvicinarsi il mio capezzale. Mi accarezzò i capelli, ma non disse nulla, perché sapeva che ero insofferente, e sapeva di non poter dire nulla per aiutarmi.

Carlisle recuperò la mia cartella e mi salutò cordialmente, lasciandomi nelle mani di suo figlio.

Provò a parlarmi, a scherzare, anche a leggere un libro. L’aveva fatto spesso in questi giorni, leggere finché non mi addormentavo, per paura - come già era successo - che io stessa, troppo stanca, non riuscissi a portare avanti la lettura. Ma ora non funzionava più. Ora ero stanca, oppressa, e insofferente, e inspiegabilmente preoccupata che qualcosa non andasse in lui.

«Hai visto? Puoi mangiare. Non sei contenta?» fece, scoperchiando il vassoio con il mio pranzo.

«É pastina» protestai, delusa. Pastina. Pastina. Non sapevo neppure se potesse essere classificata come cibo.

«Devi riabituarti a mangiare» provò a farmi ragionare, gentilmente, «e la pastina ti è sempre piaciuta. É buona».

«Perché non la mangi tu allora?» sbottai stizzita.

«Bella» sospirò pazientemente, «non la vuoi? Posso sempre mandarla indietro e chiedere qualche altra sorta di cremina, ma non credo tu possa ottenere un vero cibo solido» fece, alzandosi e prendendo fra le mani il vassoio con il mio cibo.

Lo trattenni, stringendo la sua camicia. «No, no, rimani qui» ansimai, angosciata che volesse lasciarmi sola. Deglutii, provando a nascondere il mio terrore «Dai, rimani qui. Dammi la mia pastina».

Sospirò, lasciando andare il mio vassoio. Provai uno o due cucchiai di quella mistura, ma ero nauseata e disgustata. Perlopiù ci giocavo con il cucchiaio, disinteressata.

Mi tolse il cucchiaio dalle mani, rimestando quella che avevo sparpagliato sul bordo e prendendone una cucchiaiata. L’accompagnò con la mano, per evitare di gocciolare sul mio pigiama. «Apri la bocca» m’incitò.

Sospirai, imbronciata, provando a riprendermi il cucchiaio.

Non me lo permise. «Apri la bocca» ripeté.

Mi umettai le labbra, lasciando che si avvicinasse con il cucchiaio alla mia bocca semi-aperta. Strinsi il lenzuolo fra le dita, prendendo i bocconi che mi offriva.

«Mi ricorda qualcosa. Quando mia madre lo faceva con me. É strano, vero? Ero un po’ grande, ma quell’estate mi ero ammalato, perché volevo sempre giocare fuori all’aperto. Così mia madre si sedeva accanto a me, sul letto, e m’imboccava».

Lo osservai, prendendo un altro boccone. Era forse quello il motivo della sua tristezza? Antichi ricordi che affioravano?

«Va tutto bene?» mi chiese con un sorriso, vedendomi mansueta e silenziosa.

Annuii. «Basta» protestai, tirandomi indietro con la schiena. «Non ne voglio più».

«E la frutta?» chiese speranzoso.

«No».

Dovetti addormentarmi presto, perché quando mi svegliai la luce che illuminava la stanza era più bassa e intensa del consueto. Mi stropicciai gli occhi.

«Ti sei svegliata» mormorò Edward, carezzandomi il viso.

Improvvisamente arrossii, colta da un impellente bisogno fisiologico. «Potresti… umh» mi schiarii la voce, imbarazzata «ho bisogno del bagno».

Rispose gentilmente, sollevandosi in piedi. «Certo. Ti chiamo un’infermiera, un attimo».

Annuii, silenziosa. Era strano che non fosse lui stesso a volermi aiutare, considerato che, anche quando ero stata ricoverata a Phoenix, l’aveva sempre fatto. Sicuramente, però, non gliel’avrei mai chiesto.

Quando rientrò in camera assieme a lui c’era anche Carlisle.

«Bella, cosa ne pensi di camminare un po’?» mi propose con un sorriso.

«Camminare?» chiesi, speranzosa, rianimandomi improvvisamente.

Edward parve entusiasmarsi della mia contentezza. «Esatto. Vuoi provare?».

Annuii, velocemente, cancellando ogni pensiero triste e problema. «Posso? Posso farlo adesso?».

«Certo» mi assicurò Carlisle, «vorrei solo che non stessi in piedi per più di mezz’ora. É importante, capisci? La posizione verticale e la forza di gravità sono contro le tue fratture, non vorrei doverti tenere qui per più tempo».

«Mezz’ora?» domandò Edward a mezza voce, preoccupato.

«Mezz’ora andrà bene» lo rassicurò il padre.

«Grazie» mormorai, gli occhi pieni di gratitudine e felicità. Anche se gli costava parecchia fatica farmi fare qualcosa che lui riteneva così pericoloso, era felice di vedermi felice.

Scostò le coperte e mi fece sedere sul bordo del letto. Mi infilò le pantofole e mi prese fra le braccia, per poi sistemarmi in posizione eretta di fronte a lui, sempre tenendomi ben ferma. Sentii i muscoli indolenziti delle gambe tendersi.

Mi strinsi al suo corpo, annusando il suo odore. Era fermo e estremamente delicato. Tanto che quasi gli sfuggii dalle braccia. «Puoi stringermi di più, non mi fai male» scherzai, stringendo fra i pugni la stoffa della sua camicia.

«Sì» mormorò appena, ma la presa s’intensificò di pochissimo, come se davvero avesse paura di farmi del male. «Ti fa male il petto?» chiese gentilmente, strofinando una mano sulla schiena.

«No, non tanto».

«Abituati a stare in piedi per un po’» intervenne Carlisle, «e poi prova a fare qualche passo. Torno stasera a controllarti, a dopo».

Lo salutai, borbottando sulla maglietta di Edward. «Possiamo provare?» chiesi speranzosa.

«Proviamo» acconsentì allentando la presa sul busto per rinsaldarla sugli avambracci. All’inizio mi sentii un po’ cedere, infatti la presa di Edward si fece più forte. Poi, ritrovai l’equilibrio. Feci, con lentezza, il primo passo. Riappoggiai il piede per terra e ritrovai una rinnovata stabilità. Edward mi sorrise, incoraggiante. Mossi l’alto piede e feci un altro passo. Non era come se stessi imparando a camminare. Era solo il dolore alle costole a frenarmi.

Sorrisi, e non poté fare a meno di farlo anche lui. «Possiamo uscire in corridoio?» lo supplicai «per favore».

Sospirò, incapace di dirmi di no. «Va bene. Per mezz’ora».

Prima di farmi uscire dalla mia camera mi fece mettere un giacchetta, coordinata al pigiama che mi aveva regalato Alice. Uno dei pigiami che mi aveva regalato Alice, e che ogni giorno passava a cambiarmi. Quest’ultimo era una vestaglia giallina di cotone fresco, con i bordini di merletto blu. Invece la giacchetta era di cotone, blu, con i fiocchetti gialli.

Mi guidò, tenendomi sempre stretta al sua fianco e accompagnandomi pian piano fino alla porta della camera.

Nel corridoio l’aria era piacevolmente fresca. Il mio reparto era quello di “malattie respiratorie” quindi in giro c’erano più che altro anziani e signori panciuti. Edward mi camminava accanto, a venti centimetri di distanza, sorreggendomi di passo in passo. Ero euforica per quella mia libertà e felice di vedere facce nuove, e - perché no - muri nuovi, invece che starmene chiusa in camera.

Rivolsi un sorriso a Edward, che mi rispose con lo stesso affetto.

«Andiamo un po’ alla finestra?» gli proposi.

«Certo». Fece scivolare un braccio intorno alla mia vita e mi condusse al balcone. L’aria fresca e ventosa mi avvolse con i suoi profumi. Era una giornata chiara, forse un po’ annuvolata, ma piacevole per gli standard di Forks.

Edward mi stringeva da dietro, lasciandomi libera di ammirare il paesaggio. Si scorgevano le colline verdi, le strade sterrate, e si poteva vedere anche la casa di Edward, che presto sarebbe stata anche mia.

Mi voltai ad osservarlo. Il panorama stupendo non poteva minimamente competere con lui. Il suo volto, ora sereno e rilassato, mi fissava con amore. I suoi lineamenti distesi, formavano sinuose linee continue, e i suoi capelli bronzei spettinati creavano un piacevole contrasto con la sua pelle pallida.

Gli sfiorai una guancia con il palmo della mia mano. Chiuse gli occhi, inebriato da quel contatto, e reclinò la testa di lato, per posarla sulla mia guancia.

Come potevo immaginare che qualcosa non andasse in un essere così perfetto come lui?

«Ti amo» sussurrò, portando con  quelle parole il suo profumo meraviglioso.

«Anch’io». Mi sporsi sulle punte dei piedi solo per baciarlo, aspettandomi che mi venisse incontro con le sue labbra.

Delle voci ben familiari ci interruppero prima che potessimo farlo.

«Bella!» mi chiamò Angela, correndomi incontro.

«Angela! Jessica! Mike!» esclamai sorpresa.

Mi abbracciò forte, facendomi gemere di dolore. La presa di Edward sul mio fianco s’intensificò.

Subito si ritirò, mortificata. «Oh, scusa».

Scossi il capo. «Non ti preoccupare» ansimai, riprendendo velocemente fiato.

«Abbiamo saputo la notizia, sulle prime pagine del Forks Time, potrai capire. “Isabella Swan, la figlia dello sceriffo, in ospedale. Ma che ti è capitato?» chiese velocemente Mike, saettando con lo sguardo da me a Edward. Fu lui a rispondere, bando la versione ufficiale dei fatti.

«Mi fa piacere vedervi» aggiunsi poi, sinceramente contenta.

Jessica ridacchiò, osservando Edward. «É stato lui a chiamarci, ringrazialo, no?» fece, maliziosa.

Mi voltai verso Edward, arrossendo e vergognandomi un po’ per il cattivo umore che avevo tenuto per tutto il giorno. Aveva sempre troppa pazienza con me, ed ero convinta che tutto, a partire dal permesso di camminare fino all’incontro con i miei amici, fossero una sua idea.

«Grazie» dissi commossa.

Mi baciò la punta del naso. Perfetto. Niente andava male. Era perfetto.

Ci fermammo a lungo a parlare, su una panchina nel corridoio. Discorremmo sul più e sul meno, sul futuro, sul passato e sulla vivacissima cittadina di Forks.

Scoprii che Jessica e Mike si erano rimessi insieme, e Angela mi disse che sarebbe voluto venire anche Ben, ma era a casa con la febbre. Avevano tutti trovato un’università dove andare. Mike e Jessica andavano a Seattle, Jessica aveva preso “Lettere Moderne” e Mike “Economia Finanziaria”. Invece Angela andava insieme a Ben a “Medicina”.

Io sapevo che il mio posto sarebbe stato in eterno accanto a Edward e… il matrimonio. E vedevo quel mio futuro il migliore che mi sarei mai potuta aspettare.

«Io e Edward ci sposiamo». Quell’affermazione, unita al tono determinato con cui lo dissi, stupì anche Edward. Si riprese in pochi istanti, restituendomi un sorriso. Non immaginava che riuscissi a dirglielo di persona, prima di quanto gli avessi chiesto.

D’altro canto i miei amici mi fissavano scioccati.

«Ci sposiamo ad Agosto, il 13. Ovviamente voi siete invitati» spiegò il mio fidanzato con naturalezza, stringendomi la vita e lasciando che le mie guance s’imporporassero.

La prima a riprendersi e congratularsi fu Angela. Anche Mike e Jessica, seppur spiazzati e disorientati, non mancarono di farci i loro complimenti.

Quando i suoi occhi si posarono sul mio ventre strinsi la mano a Edward, rivolgendogli un’occhiata. «Sono un po’ stanca» mormorai impacciata.

«Hai passato troppo tempo in piedi. Vieni, ti accompagno a letto» fece, aiutandomi a rialzarmi dalla panchina e traendomi al suo corpo. Sentivo tutti i muscoli del mio protestare all’unisono. «Scusateci, ha bisogno di riposo. Non è abituata a stare in piedi. Però ci farebbe molto piacere vedervi tornare domani» si congedò cordialmente, strappando una promessa dalla bocca dei miei amici.

Quando fui fra le coperte, Edward si chinò a baciarmi la fronte. Sapevo di aver fatto la scelta giusta, nessun futuro poteva essere paragonato all’eternità con lui.

«Grazie» ripetei, accarezzandogli il viso, immersa con lo sguardo nei suoi occhi.

Mi sorrise, sereno. Perfetto. «Dormi».

Eppure, non mi diede il bacio della buonanotte.

   
 
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