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Autore: Charles and Paul    18/03/2016    2 recensioni
Febe Parker non sapeva di essere una semidivinità. Credeva che mostri, serpenti piumati e dei con piccoli problemi di altezza fossero solo leggende. Ma la sua vita verrà stravolta quando scoprirà che gli dei aztechi esistono ancora. Un’ardua impresa l’aspetta: recuperare lo specchio di Tezcatlipoca per salvare il Campo Aztlán ed i suoi amici. Ma temibili mostri si nascondono nell’ombra, e forze oscure stanno per risorgere.
Se credevate che esistessero solo divinità greche e romane, questa storia vi farà cambiare idea.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Faccio crescere accidentalmente delle piante di mais
 
Se il vostro migliore amico decide di portarvi in un campo scout in mezzo al nulla, accettate questo consiglio: scappate il più lontano possibile.
Probabilmente non crederete alla storia che sto per raccontare. Insomma, non ci crederei nemmeno io se fossi nei vostri panni. Ma vi assicuro che questa è la pura verità.
Mi chiamo Febe Parker, e ho tredici anni. Potrei benissimo partire da qualsiasi punto della mia storia, ma tanto finirei di parlarvi sempre e comunque di questa cosa.
Era l’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola della Mondelez Academy. Probabilmente la scuola più brutta di tutta l’Alabama. E non sto parlando solo dell’aspetto fisico dell’edificio, ma anche dei suoi componenti.
Vi ricostruisco la scena.
Io ero seduta dietro al mio migliore amico, Ignacio Garcia. Ignacio era un ragazzino messicano continuamente bersagliato dalle angherie dei bulli. O meglio, della bulla. Ma di questo ve ne parlerò più tardi.
Sembrava che per lui lo scoppio di maturità non giungesse mai. Aveva lunghi capelli scuri che gli arrivavano alle costole - erano persino più lunghi dei miei -, e sul labbro superiore si intravedevano i primi peletti e qualche brufolo. Come se tutto questo non bastasse, aveva cominciato a portare già da due anni un eccentrico orecchino che culminava con una piuma rosa.
Ignacio faceva schifo in tutto. Ma proprio in tutto.
Era negato per la matematica, per la letteratura inglese, per la chimica, per educazione fisica… ma non lasciatevi ingannare, quando ogni settimana si presentava il giorno dei nachos alla mensa, lui correva come se fosse stato figlio di Usain Bolt. Da qui, nacque il suo soprannome: “Nacho”, che era anche un diminutivo del suo nome.
L’orologio appeso alle spalle del mio professore di matematica percorse il quadrante e si spostò sulle 14:55. Dal lato opposto della classe, Ping-Mei colpì in piena faccia il mio migliore amico con una pallina di carta e saliva sputata fuori da una cerbottana-fai-da-te, improvvisata con il corpo di una penna.
– Signorina McCarthy, cosa vogliamo fare? Anche oggi vogliamo fare visita al preside? – Tuonò il professor Morrison.
La ragazza asiatica grugnì qualcosa di incomprensibile. Ping-Mei era una ragazza davvero adorabi… cioè, carin… cioè, era una ragazza. Credo. Intorno a lei aleggiava un’aura di morte e distruzione. Il suo banco era pieno di scritte ed incisioni.
– Solo perché – Continuò il professore, – i tuoi genitori non sono una coppia eterosessuale, non significa che devi colpire i ragazzi gracili e poveri per attirare l’attenzione. – Ping-Mei scattò in piedi grugnendo, ma la campanella suonò e non ebbe tempo di aprire bocca. – La lezione è conclusa. Ci rivediamo il prossimo anno, e mi raccomando, Parker, questa volta cerca di non far mangiare i compiti delle vacanze a… che cos’era? Il tuo struzzo domestico? Arrivederci, ragazzi. – E se ne andò.
Inficcai tutte le cose che erano rimaste sul mio banco nel mio zaino ed uscii da scuola.

Nacho si avvicinò a me mentre aspettavo il bus. – Struzzo domestico? Non potevi, che so, inventarti la storia del cane come tutti i ragazzi normali? –
Io sbuffai. – Sarebbe stato meno d’effetto. – Nacho rise, e mi diede un buffetto sul naso.
Lo scuolabus passò, e si fermò di fronte alla fermata, proprio davanti a noi. Feci un passo in avanti, ma Ignacio mi fermò. – No, aspetta. Non è questo il nostro autobus. –
Io lo guardai confusa. – Ignacio, ma che stai dicendo? Questo è il nostro autobus. Ci porta sempre a casa. –
Il mio migliore amico sembrò innervosirsi. – Sì, beh… ma ecco, io… – In quel momento, Ping-Mei spintonò Nacho giù dal marciapiede.
– Ehi! – Protestai. Lei mi guardò altezzosa dall’alto del suo metro e settanta. Intanto, lo scuolabus era già partito.
– Mi è sembrato di sentire un moscerino ronzare al mio orecchio, ma forse mi sono sbagliata. Infondo, io i moscerini… proprio non li sopporto. E lo sai cosa succede se mi infastidiscono? Che io li schiaccio.
– Beh, se cerchi guai, McCarthy, li hai trovati – Ringhiai.
– Come ti permetti, moscerino dalla tinta sbiadita? – Mi portai una mano ai capelli.
Okay, okay, ora vi spiego.
Mio nonno aveva un pollaio.
Mia madre doveva ridipingere il suo pollaio.
Ed ora mi chiederete, “Ma Febe, che c’entrano i polli con i moscerini e le tinte sbiadite?”
Beh, in realtà… non molto. Soltanto che quel giorno, mentre mia madre riverniciava di celeste confetto il pollaio, io, dolce bambina di cinque anni, tirai la gonna di mia madre. Mia madre perse l’equilibrio, fece volare in aria il barattolo di vernice che mi finì dritto dritto in testa. E sapete la cosa divertente? Che gli agenti chimici della vernice hanno impedito a qualsiasi prodotto per capelli di coprire quell’osceno azzurro confetto. E non crediate che non abbia provato a cambiare tinta: grosso, grossissimo errore. L’unica volta che c’ho provato, mi sono ritrovata con i capelli di un color grigio topo. Così adesso mi ritrovavo ad avere tredici anni ed i capelli di un colore azzurro sbiadito.
Nacho si intromise. – Smettila di infastidire Febe!
– Uh-uh, il piccolo Ignacio è innamorato del moscerino. Quanto sei patetico. Sei uno sfigato, Garcia, e sempre uno sfigato rimarrai. Tua madre lavora come domestica. Il tuo patrigno è un insegnante di yoga squattrinato… e gira voce che siate anche in bolletta. Sei così patetico. – Gli occhi di Nacho si riempirono di lacrime, e strinse i pugni fremendo dalla rabbia con il viso in fiamme.
Gne-gne, il bambino piang… – Ero piena di collera, e non ce la feci proprio a trattenermi, così mi gettai su di lei ed incominciai a tirarle i capelli ed a menare calci e pugni a vanvera. Mossa sciocca da parte mia, dato che lei era molto più alta di me ed era anche il capo della squadra di rugby della scuola.
Lei mi tirò un pugno sulla gola, ed io persi per qualche secondo il fiato. Poi mi tirò i capelli, persi l’equilibrio ma caddi sopra di lei, picchiando col gomito il suo stomaco. Ping-Mei grugnì di dolore.
Intanto, intorno a noi si era formato un cerchio di ragazzi che gridavano cose tipo, “Tirale un pugno in faccia”, “A sinistra! Mira a sinistra!”, o altre del tipo, “Ehi, lo sapevi che in centro hanno aperto un nuovo locale di Frozen Yogurt chiamato MuuMilk? Sembra interessante!”.
L’asiatica si riprese in poco tempo, mi scansò con una spinta, si rialzò, e torreggiò sopra di me. Un fiotto di sangue fuoriusciva dal suo naso. Probabilmente uno dei miei pugni l’aveva presa in pieno.
Lei ringhiò: – Sei finita, Parker. –
Alzò in aria il suo enorme pugno, e stava per centrarmi dritto dritto in un occhio, quando un autobus completamente celeste si fermò davanti a noi.
Sul fianco, era appeso uno striscione bianco con su scritto Blue Bee, scritto del medesimo colore dell’autobus. Ping-Mei si fermò di colpo. Anche i ragazzi che si erano riuniti intorno a noi e che fino a poco tempo fa ci stavano incitando alla rissa, si erano ammutoliti tutt’ad un tratto.
Le porte dell’autobus si aprirono cigolando. Dall’interno fuoriuscì una nube di vapore turchese.
Gli occhi dei nostri compagni divennero vitrei, e si guardarono storditi l’un con l’altro. Poi, mormorarono parole incomprensibili e se ne andarono via come zombie in trance.
– Ma che diavolo… – Ping-Mei approfittò della mia distrazione per tornare all’attacco. Mi prese per il colletto della maglia e mi sbatté ad un albero, staccò un braccio dalla presa e con il dorso della mano si pulì il sangue dal naso.
– Come hai osato, Parker? Non sai neanche chi è tuo padre! –
Sentivo la rabbia ribollire nel mio stomaco. Non riuscii a trattenermi.
Le sputai in faccia.
Ping-Mei divenne viola di rabbia. – Stupido moscerino! – E mi tirò una testata così potente che la vista mi si annebbiò. Barcollai. Sentii le mie orecchie ronzare, il sangue che mi colava da un orecchio. Vidi Nacho che arrancava verso di me.
– Febe? Febe! – Ma la sua immagine era sfocata. Mi appoggiai con una mano al tronco dell’albero. Ping-Mei mi sferrò un pugno, ed io per evitarlo scivolai a terra.
– Ciao ciao, moscerino! Saluta Xolotl da parte mia! –
Xolotl?
Sentii il sangue pulsarmi nelle vene. Una morsa gelata mi attanagliò lo stomaco. Le falangi delle dita incominciarono a formicolarmi. Sentii un soffio leggero al mio orecchio, come se qualcuno stesse sussurrando parole antiche. “Fallo, Febe, fallo”.
Anteposi le mani in avanti e strinsi gli occhi. Sentii i palmi delle mani bruciarmi.
Riaprii gli occhi soltanto dopo che Ping-Mei cacciò fuori un urlo.
Ignacio mi sorreggeva per le ascelle e la ragazza asiatica stava strappando ferocemente delle piante di mais nel tentativo di liberarsi dalla feroce presa dei vegetali.
Le porte dello strano autobus blu si chiusero di botto, con un suono metallico ed assordante, e ripartì con un rombo di motore, lasciandosi alle spalle una folata di gas. Nacho impallidì. – Oh, questo non va bene. Non va affatto bene. – La temperatura intorno a noi scese di dieci gradi. Ignacio si torse le lunghe dita. – Questo non va decisamente bene. –
Mi rialzai. Nel frattempo Ping-Mei era riuscita a liberarsi da quel groviglio di piante, ma la sua espressione non era infuriata, bensì, sul suo volto era comparso un cipiglio di preoccupazione. – Dobbiamo andarcene di qui – Disse Nacho. – E… e anche alla svelta.
– Fai silenzio, Garcia! Io non ho paura di uno stupido Ahuizotl! –
Da lontano, si sentì un ululato. – Forse… però… sarebbe il caso di…
DARCELA A GAMBE! – Completò la frase Nacho. Corse via con le braccia alzate ed urlando di terrore con noi al seguito.

Ping-Mei era scomparsa su una limousine, che l’aveva afferrata al volo mentre stavamo correndo. Nacho era corso in casa sua urlando, “Ahuizotl ci mangerà, ci mangerà tutti!”. Io rallentai il passo, e continuai a camminare. Camminai per ore ed ore, fino a che non mi ritrovai in un vicolo cieco. Mi guardai intorno e borbottai fra me e me: “Questa non è casa mia”. Tirai fuori dalla tasca dei jeans il cellulare ed impostai il GPS. Odiavo soffrire di dromomania. Avevo l’abitudine di girovagare senza una meta fissa, camminando in continuazione. Alcune leggende dicevano che chi soffriva di questa sindrome, era perché, infondo, stava cercando di trovare la sua vera casa. Ma io non ci credevo. Erano tutte stupide dicerie dette da qualche sciamano con un osso come piercing al naso decenni di milioni di anni fa.

Quando tornai a casa vidi mia madre che stava pulendo la gabbia dagli escrementi di Bobo, il nostro macaco giapponese domestico. Perché sì, beh, le madri normali quando andavano in viaggio in Giappone, portavano come souvenir alle loro figlie al massimo un kimono. La mia mi ha portato una scimmia. – Ciao, mà – Dissi indifferente.
– Ciao, tesoro! –
GAH! FEBE! GAH! CRAIG VUOLE CRACKER! GAH!
Quello era Craig, il mio vecchio ed irascibile pappagallo. Ce l’avevo da quando avevo quattro anni. Presi un cracker dalla credenza, e glielo misi nel becco. Poi gli accarezzai il petto. Craig era un pappagallo un po’ burbero, come un vecchio e rugoso nonno a cui non hanno consegnato il giornale della domenica. Il suo piumaggio era principalmente rosso, con qualche piuma di rilievo gialla, blu e verde. Tranne sul suo sedere: lì non c’era alcuna piuma. Solo chiappette rosa, per il povero Craig.
Sentii che qualcosa mi stava leccando la caviglia. Alcuni di voi penseranno che forse era il mio cane, ma io non avevo un cane. Abbassai lo sguardo, e vidi… nessuno. Ulisse. – Mamma, Ulisse mi ha scambiato di nuovo per un camaleonte femmina! – Strillai.
– Suvvia, Ulissino! – Disse in tono smielato mia madre.
Riuscii a prendere Ulisse, che fra le mie mani si tornò di nuovo visibile, e lo misi nel suo solarium. Craig mi volò sulla spalla ed urlò qualche parolaccia. Non guardate me, è stata mia madre ad insegnargliele. – Craig! – Disse mia madre, spostandosi una ciocca bionda dietro le orecchie ed appoggiando gli occhiali da vista sulla testa. Presi un cartone di latte dal frigo ed incominciai a berlo. – Non ti ci metterai anche tu, Febe! Lo sai che non sopporto quando bevi il latte direttamente dal cartone! – Sbuffò, mentre mi tracannavo il latte come se non ci fosse un domani. Solo in quel momento, notai che accatastate accanto alla porta, c’erano due valigie in pelle, una borsa di juta ed un pratico zainetto da viaggio.
– Mà, dove andiamo? – Mia madre si irrigidì, e fece cadere la palettina con cui sorreggeva gli escrementi di Bobo. Notai solo in quel momento che il volto di mia madre era pallido e teso. Le sue mani tremavano e continuava a tamburellare il piede sul pavimento, frenetica. Aprì la bocca per dire qualcosa ma fu interrotta dall’arrivo di Ignacio.
– Salve, signora Parker!
– Buongiorno anche a te, Ignacio. Se cerchi Febe… –
Io alzai la mano. Nacho venne verso di me, mentre Craig strillava: “STUUUPIDO RAGAZZO, GAH!”.
– Senti, Febe, – Disse Nacho, – ti sarai chiesta come siano spuntate all’improvviso quelle piante, non è vero? – Il mio migliore amico stava sudando freddo. Io feci spallucce.
– Nah. –
Strabuzzò gli occhi. – Ma ti sarai pur fatta delle domande.
– …Nah.
– Ma… Febe! Come puoi non fartene? E cosa mi dici di quel freddo improvviso? –
Tirai su rumorosamente un sorso di latte. – Buco nell’ozono?
– Bu… buco nell’ozono?! Oh, andiamo, Febe! – Sbuffò. – Comunque sia… che ne dici di…
– No – Risposi.
– Ma non mi hai fatto nemmeno finire di parlare!
– Qualunque cosa essa sia, ti dirò di no. –
Dovevo dare un freno a Nacho: sapevo benissimo che stava per propormi qualcosa di veramente stupido e moralmente imbarazzante. Come quella volta che gli venne la brillante idea di passare l’estate a New York. Un’estate veramente tragica. Vi basta solo sapere che avevo visto un ragazzo che avrà avuto sì e no la mia stessa età che stava brandendo una spada contro… contro… Dio, non saprei neanche descriverlo. Probabilmente avevo preso un colpo di sole il giorno prima.
– Non puoi passare tutta l’estate senza far niente!
– Sì che posso. Non vedi? Lo sto già facendo.
– Se tu venissi a… a quel… a... ti ricordi di quel campo scout in cui… – Sussultai. Campo scout? Valigie accanto alla porta? Mi avevano incastrata!
– Non puoi dire sul serio, Nacho! Sai che odio i campi scout! Con quelle stupide divise, quelle stupide canzoncine davanti al falò… –
Mia madre sbuffò. – Ignacio, non si è fatto un po’ tardi? Non dovresti tornare a casa?
– Ma sono soltanto le… oh. Oh, sì, certo. Devo andare. A domani, Febe. – E se ne andò.

Ero molto arrabbiata con mia madre. Odiavo quando prendeva decisioni per conto mio.
– Come hai potuto incastrarmi?! Sai che io odio questo genere di cose, Cinnamon!
– Febe, siediti. Devo parlarti. –
Questo era un brutto segno. L’ultima volta che mia madre mi aveva chiesto di sedermi per parlarmi, era stato uno di quei discorsi tipo: “Quando una mamma e un papà si vogliono molto bene…”, oppure del tipo: “Ti ricordi tua zia Edna, quella che non hai mai conosciuto, ma che ti giuro era una persona tanto buona? Beh, è morta,” tutte cose che non erano affatto divertenti.  – È giunto il momento di dirti la verità, – Proseguì mia madre, – Ti ricordi quando dissi che tuo padre era un cialtrone buono a nulla e che mi aveva lasciata prima che tu nascessi? Beh, sì, in effetti in parte è così, ma non ti ho raccontato tutta la storia. –
A dirla tutta non mi interessava, ma feci finta di niente ed ascoltai. – Vedi, Febe, un uccellino mi ha informata di cosa è successo dopo la scuola.
– Non è colpa mia, è stata quella ragazza a provocarmi…
– Questo non ha importanza. Non è questo che mi interessa. A dispetto di ciò che hai detto a Nacho, sei abbastanza intelligente per sapere anche da sola che le piante che sono spuntate dal nulla non sono cose di tutti i giorni. Quando io abitavo ancora a casa dei tuoi nonni in Kentucky, conobbi tuo padre. Non era né particolarmente bello né particolarmente forte, ma era molto carismatico e gentile. La sua risata era come il vento che sferzava sui campi di granturco. Ma tuo padre, Febe, non era un comune mortale. Tuo padre era un dio. Gli dei esistono ancora, e sono dappertutto. Non hanno una dimora fissa. Si manifestano ovunque loro vogliano. Quindi questo fa di te una semidea. –
Trattenni una risata. – Di tutte le bugie che mi hai detto, questa è sicuramente la più spassosa. Vi state veramente impegnando, tu e Ignacio, per costringermi ad andare a quel campo, vero, mà? – Mia madre mi scrollò per le spalle.
– Non ti sto mentendo, Febe, tu sei veramente una semidea. Sei una semidea azteca! Non hai sentito una voce che ti sussurrava all’orecchio? Parole quasi arcaiche? –
Come faceva a saperlo? Beh, in effetti era così, ma… che mia madre stesse dicendo il vero? Che io fossi veramente una semidea? Sentivo che la testa mi stava scoppiando. – Febe, io capisco che per te sia difficile accettare tutto questo, ma non ti preoccupare, lo affronteremo insieme, io e te, come abbiamo sempre fatto. –
“Ssscappa, Febe, ssscappa!” Mi sussurrò una voce nella mia testa, che assomigliava ad un sibilo.
La temperatura divenne di nuovo gelida. Mia madre impallidì, prese le valigie e me le diede. – Sbrigati, non c’è più tempo!
– Tempo? Tempo per cosa?
Ahuitzotl ti ha trovato!
– Chi è Ahuitzotl? – Mia madre mi afferrò la mano, e mi trascinò per l’uscita posteriore.
– Ahuitzotl è un mostro che si ciba di carne umana. Probabilmente ha sentito il tuo odore, ed ora vuole la tua carne. –

Nota a fine capitolo
Salve a tutti! Questa è la nostra prima storia sul server. ...forse, hehe. 
Un tempo eravamo tre, ma in questa storia saremo solo due anime in pena: Charlie e Poly, il duo dei perdenti. 
Se la storia vi è piaciuta, lasciate una recensione. Se non vi è piaciuta... chissene, a noi è piaciuta!
-Charles&Paul. 
   
 
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