Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Hotaru_Tomoe    19/03/2016    3 recensioni
Sebastian Moran, deciso a vendicare la morte di Moriarty, entra in possesso di un dispositivo sperimentale che permette di entrare nei sogni altrui ed è deciso ad usarlo su Sherlock per distruggerlo, ma Arthur ed Eames cercheranno di impedirglielo.
[Crossover con il film Inception]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Mary, Morstan, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 7

“John mi dice sempre che adularti è una pessima idea, ma devo dirtelo: ti trovo proprio bene.”
La signora Hudson appoggiò lo spazzolone al muro del corridoio, si asciugò i guanti di gomma sul grembiule a fiori e guardò Sherlock con un sorriso.
Il detective, che stava salendo i gradini, si fermò e ricambiò il sorriso, pur mantenendo un’aria indifferente.
“Io non mi vedo diverso dal solito.”
“Oh, fidati: lo sei. È proprio vero che l’amore rende più luminosi.”
“Se lo dice lei…” Sherlock alzò gli occhi al cielo e scrollò le spalle con apparente fastidio davanti all’osservazione sdolcinata, ma non negò di essere felice, o di essere innamorato.
E, d’altronde, che motivo avrebbe avuto di farlo?
In fondo era la verità.
“Le cose con John vanno bene, quindi?” domandò l’anziana mentre puliva la cornice di un piccolo quadro con uno straccio umido.
“Mh.”
“Lo prendo per un sì - commentò la padrona di casa con un sorriso benevolo - allora ti lascio andare da lui.”
Sherlock salì altri tre gradini, ma all’improvviso si bloccò, colpito da un pensiero, e tornò indietro, stando attento a non posare i piedi sul pavimento del corridoio, ancora bagnato: la loro padrona di casa odiava quando lo faceva.
“Nei giorni scorsi lei non c’era.”
Il sorriso della signora Hudson sembrò incrinarsi per un istante, prima che il suo viso si ricomponesse in un’espressione esasperata.
“Certo: ero da mia sorella, ma l’avevo detto a te e John poco prima di partire.”
“Davvero?”
“Sì - ripeté l’anziana, e la sua voce assunse di nuovo una cadenza strana, lenta e quasi ipnotica - Te l’avevo detto, ma come sempre tu non mi ascolti.”
Sì, era possibile che non avesse registrato l’informazione, così banale, o che l’avesse cancellata non appena glielo aveva riferito, come faceva con molte altre cose che gli venivano dette.
“Come sai mia sorella è più anziana di me - proseguì la signora Hudson - e ultimamente ha qualche acciacco in più, quindi capiterà altre volte che io non ci sia, perché sarò da lei ad aiutarla.”
“Capisco.”
“Dillo anche a John, perché sono sicura che tu finirai per scordartelo di nuovo.”
“Va bene.”
Sherlock spinse la porta d’ingresso dell’appartamento e restò un istante incantato a guardare il profilo di John, seduto al tavolino della sala, che scriveva sul portatile: l’uomo muoveva lentamente gli indici sulla tastiera alla ricerca delle lettere, il suo viso era serio e concentrato e, di tanto in tanto, umettava le labbra con la punta della lingua, quando doveva scrivere una frase lunga e complessa; il sole che entrava dalla finestra colpiva i suoi capelli biondi, mettendone in risalto le mille sfumature di colore, che andavano dal castano all’argento e che Sherlock, potendo, avrebbe passato ore a catalogare, facendosi scorrere sopra le dita (non che non l’avesse fatto in quegli ultimi giorni).
Ancora una volta, davanti a quelle piccole gemme di quotidianità domestica, si ritrovò a pensare che in poco tempo la sua vita aveva preso una piega inaspettata ma assolutamente perfetta, e che avrebbe difeso la sua relazione con John da tutto e da tutti e con ogni mezzo possibile.
L’ex soldato sollevò gli occhi dal computer e si accorse finalmente della sua presenza, offrendogli un silenzioso ma caldo bentornato con i suoi occhi blu.
“È quasi ora di pranzo, hai fame?” domandò John spingendo indietro la sedia e abbassando il coperchio del portatile.
“Cucini tu?”
“E chi altri?”
“Allora sì, ho fame.”
“Povero me! Non avrei dovuto mostrarti la mia abilità ai fornelli.”
“Sei tu a dire che non fa bene alla salute mangiare sempre cibi d’asporto.”
“Vero, vero” tagliò corto il dottore. Nel passargli accanto, John lo baciò con affetto su una guancia, un altro gesto che era diventato una meravigliosa abitudine tra di loro, ma che a volte lasciava ancora incredulo il detective.
“Possibile che John abbia scelto me? Che mi ricambi?”
“Terra a Sherlock! - John lo richiamò con uno schiocco delle dita ed un sorriso indulgente - Ti ho chiesto se vuoi gli gnocchi al pesto o una insalata di noci o farro.”
“Gli gnocchi al pesto sono precotti, non valgono come qualcosa cucinato da te” Sherlock espresse tutto il suo disgusto arricciando il naso.
“Va bene, però mi dai una mano ad affettare le verdure e, Sherlock, per affettare intendo tagliare a tocchetti, non dissezionarle per metterle sotto al microscopio inventandoti un nuovo esperimento.”
Gli consegnò tagliere e coltello e rise davanti alla sua espressione contrita, baciandolo per cancellare il suo broncio.
Per un po’ affettarono le verdure in silenzio, poi John appoggiò la ciotola sulla tavola e parlò di nuovo: “Ultimamente ti capita più spesso del solito di incantarti a pensare, come prima, quando sei entrato: c’è qualcosa che ti preoccupa?”
Sherlock posò il coltello, ma continuò a fissare il mucchietto di zucchine e verza affettate che aveva davanti: c’era sempre, sul fondo della sua mente, una sottile inquietudine, timori ai quali si vergognava di dar voce apertamente, perché pensava fossero stupidi e privi di fondamento.
John attese pazientemente una sua risposta mentre continuava a preparare gli ingredienti, senza fargli pressioni: probabilmente se Sherlock non gli avesse risposto, John non avrebbe insistito, lasciando cadere l’argomento, però meritava una risposta sincera da parte sua, nonostante le sue paure.
“È che - cominciò Sherlock con esitazione - a volte tutto questo, noi, la nostra relazione, è così perfetto che ho paura che non sia vero, che sia… non so, solo un sogno, e che un giorno mi sveglierò e nulla di tutto questo sarà mai accaduto.”
John non rise delle sue parole come aveva temuto, non gli chiese se fosse ubriaco o drogato, ma smise di armeggiare con ciotole e padelle e, dopo qualche attimo di silenzio teso e denso, le sue braccia forti gli circondarono la vita, e la fronte del dottore si appoggiò tra le sue scapole.
“È perché sei felice, Sherlock, forse per la prima volta in vita tua, ed è normale aver paura che questo finisca, ma ti assicuro che è reale - mormorò - Non c’è niente di più vero nella mia vita di te e di ciò che abbiamo, e se dovrò rassicurarti ogni giorno, non ho nessun problema a farlo.”
Si alzò in punta di piedi e lo baciò appena sotto la nuca; le mani di Sherlock si posarono su quelle di John e i due restarono fermi così alcuni istanti, poi il dottore lo strizzò un po’ più forte e lo lasciò andare, tornando ad occuparsi del pranzo, mentre Sherlock apparecchiava.
“Ecco, è pronto.”
“John?”
“Sì, cosa c’è ancora?”
“Dov’era la signora Hudson settimana scorsa?”
“Dalla sorella. Non ricordi che ce l’ha detto prima di partire?”
Sherlock scosse la testa e John sorrise con indulgenza, arruffandogli i capelli.
“Non mi stupisce, visto che continui a pensare che le persone siano attorno a te anche quando sono andate via, e viceversa.”
“Adesso non lo faccio più, non con te, almeno.”
Era vero: ormai era sempre consapevole degli spostamenti di John, si accorgeva subito quando era presente e quando l’appartamento era vuoto, ancor prima di metterci piede, a volte percepiva la sua presenza anche nel sonno, quando il dottore si alzava prima di lui la mattina per prepararsi per andare al lavoro.
Era come se John fosse diventato una parte di lui.
“Be’ - osservò John pulendosi la bocca con il tovagliolo - con la signora Hudson è diverso perché non provi per lei le stesse cose che provi per me. Per fortuna, aggiungo, altrimenti la cosa sarebbe parecchio inquietante.”
Sherlock rise di gusto e finì di mangiare, poi controllò il cellulare, ma non c’erano chiamate né messaggi.
John gli posò una mano sulla sua e lo strinse in un mezzo abbraccio.
“Tuo fratello cambierà idea alla lunga, vedrai.”
“Non stavo pensando a lui” borbottò Sherlock infastidito dal fatto che John gli avesse letto nel pensiero: in effetti dopo quell’ultima telefonata non si era più fatto sentire, e non era da lui demordere così in fretta. Ma non era solo quello: per quanto ci riflettesse, non riusciva a capire il perché dell’atteggiamento ostile di Mycroft nei confronti della loro relazione, né perché avesse cercato di metterlo in guardia, con parole dure che andavano ben al di là di una preoccupazione fraterna sul fatto che quella relazione potesse farlo soffrire.
Cosa che era impossibile.
“Come vuoi” concluse John, baciandolo tra i capelli, mentre si alzava e sparecchiava.
La signora Hudson li guardò soddisfatta attraverso la porta socchiusa della cucina che dava sulle scale, poi tornò in punta di piedi nel suo appartamento.

“Come procede?” domandò Freddie, misurando i battiti cardiaci del colonnello.
“A meraviglia: la mente di Holmes si è ormai convinta quasi del tutto che il mondo dei sogni sia reale e sta sprofondando sempre più nella sua zuccherosa fantasia, senza bisogno di alcun incentivo da parte mia.”
“Quasi?” Freddie non era contento di quella risposta: ora che le incursioni di Moran nella mente di Holmes si erano fatte meno frequenti, la sua salute ne aveva tratto giovamento, ma non sarebbe stato davvero tranquillo finché quei sopralluoghi non fossero cessati del tutto.
“Permangono dei dubbi nel fondo della sua mente, ma ormai sono poco più che ombre: quel Watson sta facendo un ottimo lavoro. È davvero il punto debole di Holmes, molto più di quanto Jim credesse.”
“Ma il Watson del sogno non è quello reale” fece notare Freddie, leggermente perplesso: avevano deciso di non provare più ad agganciare il medico militare per far sprofondare in coma anche lui perché la connessone non era stabile.
“No, è una proiezione creata dalla mente stessa di Holmes, io gli ho semplicemente fornito qualche input, impiantato il seme di un’idea, quella di poter essere amato da Watson, cosa che è sempre stata il fulcro di tutti i suoi desideri e la sua mente lo ha creato. E sai qual è la cosa più bella, Freddie?”
L’altro uomo scosso la testa e Moran proseguì con un sorriso compiaciuto: “Quel frammento della coscienza di Holmes che ha le sembianze del dottor Watson in qualche modo sa di essere la ragione della sua felicità, e farà di tutto perché lo stato delle cose non cambi. Ora che Holmes pensa di aver ottenuto quello che vuole, non solo sarà impossibile svegliarlo, ma la sua mente combatterà contro ogni tentativo di intrusione dall’esterno volto a infrangere il sogno.”
“E a chi potrebbe venire in mente di entrare nei suoi sogni? Nessuno è a conoscenza del dispositivo wireless di Stan, a parte noi e i suoi due amici, che però non conoscono su chi lo abbiamo usato.”
“Lo so, ma tu mi conosci, Freddie, sono uno stratega e prendo in considerazione qualunque ipotesi, anche la più remota: quando tutte le altre cure falliranno, è possibile che qualcuno prenda in considerazione che si tratti di dream sharing. Sarebbe bene accertarsi di come stanno andando le cose in ospedale - si accese una sigaretta e inspirò il fumo, soffiandolo fuori in tre cerchi perfetti - Come se la cava Seth con i travestimenti?”

*

Quando John rientrò nella stanza di Sherlock con l’ennesimo bicchiere di caffè lungo e scadente della macchinetta dell’ospedale, trovò un robusto infermiere che stava manovrando il corpo del suo amico, girandolo su un fianco: essendo Sherlock in coma da ormai due settimane, girarlo periodicamente era un modo per evitare piaghe da decubito e soprattutto pericolosi ristagni di sangue, assieme alle calze antitrombo e alle periodiche iniezioni di eparina.
“Le serve una mano?”
“No grazie, ho quasi finito, e poi è il mio lavoro.”
Sherlock era leggermente dimagrito, nonostante le flebo di fisiologica, ma aveva ancora una buona massa muscolare, eppure l’infermiere lo aveva voltato senza alcuno sforzo: non era molto alto, ma ben piazzato e dal fisico atletico, probabilmente un ex giocatore di rugby.
Per un attimo un fugace sorriso comparve sul volto di John: Sherlock si compiaceva sempre quando provava a ragionare e sarebbe stato felice di ascoltare la sua deduzione, anche se probabilmente poi avrebbe detto che John si sbagliava e che l’infermiere non era un atleta, ma solo un assiduo frequentatore della palestra, basandosi sul modello del suo orologio o qualcosa del genere.
La mano che reggeva il caffè tremò vistosamente e qualche goccia colò lungo il bicchiere.
“Cristo Sherlock, perché non ti svegli? Perché non torni da noi? - pensò John per l’ennesima volta - Perché non torni da me?”
Erano passati quindici giorni, lenti e inesorabili, e con essi la speranza di un rapido risveglio di Sherlock si era affievolita sempre più: i medici non erano più vicini a scoprire cosa l’avesse colpito di quanto non lo fossero il giorno del ricovero, tutti i loro tentativi di risvegliarlo erano falliti e anche altri specialisti, chiamati dall’estero, non avevano avuto miglior fortuna.
Lui andava lì non appena poteva, anche due volte al giorno, la mattina aiutava le infermiere a lavarlo e sbarbarlo e poi passava tutto il tempo a parlare, così come aveva minacciato di fare, ma nemmeno quello era servito a qualcosa.
“Devi sempre fare tutto a modo tuo, vero Sherlock? Anche il tuo coma deve essere misterioso ed inspiegabile.”
L’infermiere controllò che il sondino naso gastrico fosse in posizione e che la velocità della flebo fosse corretta, lo salutò ed uscì. Appena fuori dalla stanza di Holmes vide una donna bionda in fondo al corridoio che parlava con due dottori, le diede immediatamente le spalle e si allontanò a passo spedito nella direzione opposta. Prese un ascensore di servizio fino al seminterrato dell’ospedale, si liberò del camice gettandolo in un cestone della biancheria sporca lasciato incustodito e uscì sul piazzale esterno, dove Freddie lo stava aspettando in macchina.
“Allora?”
“Dorme come un ghiro - rispose Seth, e porse all’altro uomo il suo cellulare - e queste sono le foto dei referti e della cartella clinica: vedi tu se ci capisci qualcosa.”
Freddie esaminò i file, poi si rilassò visibilmente: “Procede tutto a meraviglia, tempo un’altra settimana, più o meno, e Holmes ci lascerà definitivamente, così la finiremo con questa storia.”
“Non ti va che il colonnello entri ancora nei suoi sogni?”
“Ormai la mente di Holmes si trova in un livello così profondo del sogno che a volte ho paura che il farmaco non basti più per riportare indietro il colonnello, quindi prima Holmes muore, meglio è per tutti - restituì il cellulare a Seth - Qualche problema? Qualcuno ti ha fatto domande sulla tua presenza in quel reparto?”
Il mercenario esitò un istante prima di rispondere e Freddie si tese di nuovo.
“No, ma quando sono uscito dalla stanza di Holmes, A.G.R.A. era lì.”
“Cazzo!”
“Rilassati Freddie: era voltata di spalle e non mi ha visto. E poi sono passati vent’anni dall’ultima volta in cui abbiamo lavorato insieme, dubito mi avrebbe riconosciuto.”
“Non devi sottovalutare quella donna, sarebbe un grosso errore: è stata Moran ad addestrarla. Sicuro che non ti abbia visto?”
“Sì, sì, ne sono certo, piantala di rompermi le palle!”
“Va bene, però andiamocene in fretta.”

“John?” Mary bussò adagio alla porta e John, che stava portando avanti un monologo sui suoi pazienti davanti a Sherlock, si fermò e alzò la testa verso di lei.
“Cosa c’è, Edith sta bene?”
“Sì, tranquillo, l’ho lasciata con la baby sitter.”
“Perché?”
Mary lo guardò con aria esasperata: “Perché sei esausto, John: vieni qui ogni giorno subito dopo il lavoro e ci resti per ore. Vai a casa e riposati.”
“No, non sono stanco, resto qui seduto a far niente, se non a parlare.”
“Mentalmente lo sei: vai a casa, resto io un po’ con Sherlock.”
A quelle parole una paura improvvisa e irrazionale si impadronì di John e la sua mente tornò inevitabilmente a quello che era successo l’ultima volta che Mary era stata da sola in una stanza d’ospedale con Sherlock: l’aveva minacciato di ucciderlo, nonostante la sua vita fosse ancora appesa a un filo. Il corpo del soldato reagì d’istinto e piantò saldamente i piedi a terra, come un mulo che si impunta per non muoversi, e l’intera sua postura si irrigidì. Passarono svariato secondi prima che si ricordasse che aveva deciso di fidarsi di Mary, ma non fu abbastanza rapido a rilassarsi e a mascherare il suo disagio, tant’è che l’espressione di Mary, fino a quel momento amichevole, si incupì all’istante.
“Non ho intenzione di soffocarlo con un cuscino” proclamò con voce gelida.
“Mary, ti prego…”
“È quello che pensi, no? Si capisce dalla tua faccia.”
“Puoi darmi torto?” ringhiò John con voce bassissima e la donna distolse lo sguardo, schioccando le labbra con disappunto.
Giusto, giusto: di quello non dovevano parlare mai.
John si stropicciò la faccia e poi si alzò.
“Hai ragione tu, sai? Sono solo stanco: vado a casa da Edith e congedo la baby sitter.”
L’abbracciò brevemente prima di uscire dalla stanza, ma senza mai incrociare il suo sguardo, e si diresse verso gli ascensori a passo lento, quasi il suo corpo fosse ancora restio a lasciare sua moglie da sola con Sherlock.
Realizzò una cosa, mentre si specchiava sulla lucida porta metallica: lui non si era mai fidato direttamente di Mary, in realtà si era fidato delle parole di Sherlock, che disse che sua moglie non voleva ucciderlo.
“Appunto, ti stai comportando in modo ridicolo: Sherlock ha anche salvato il futuro di Mary, uccidendo Magnussen per evitarle il carcere, lei gli è grata e non gli farebbe mai del male.”
Tuttavia, mentre le porte dell’ascensore si chiudevano, intrappolandolo momentaneamente in quello stretto cubicolo, si rese conto che Mary non aveva mai espresso una parola di riconoscenza ad alta voce nei confronti di Sherlock, nemmeno un semplice ‘grazie’, evitando sempre con cura l’argomento.
Ma aveva avuto una seconda possibilità di avere la vita che voleva e doveva essere grata a Sherlock, per forza… e lui doveva convincersene, perché in caso contrario il disgusto che avrebbe provato nei suoi confronti sarebbe stato così forte che nemmeno la sua ferrea volontà di soldato sarebbe bastata per restare con lei.
Mary non si trattenne molto nella stanza di Sherlock, non si tolse il cappotto né si sedette, restò in piedi di fianco al letto, spalle alla porta e alla telecamera di sicurezza che Mycroft aveva fatto installare nella stanza (John le raccontava tutto di Sherlock, quando tornava a casa, benedetta la sua ingenuità), il viso freddo e indifferente che aveva sempre quando sapeva di non essere osservata; si chinò su di lui e gli sussurrò all’orecchio con voce tranquilla, quasi stesse discorrendo del tempo: “Muori, tanto ormai ti manca poco. Muori e libera John dal peso che sei diventato per lui. Se sei davvero suo amico come dici, allora muori e restituisci mio marito alla vita che lui ha scelto.”
Detto questo si raddrizzò, uscì dalla stanza e chiamò un’amica per andare a prendere un tè insieme.

Il caso li aveva tenuti impegnati quasi due settimane, ma l’aveva risolto brillantemente: ora però dovevano riferire alla donna che li aveva ingaggiati che il marito non era la povera vittima di una truffa bancaria, bensì la mente criminale che l’aveva ideata e ora, con tutta probabilità, si trovava in Costa Rica con la baby sitter.
Era la parte del lavoro che più odiava, perché la gente scoppiava a piangere, strepitava, aveva crisi isteriche e continuava a negare l’evidenza anche davanti alle prove, quindi lasciava fosse John a consolarli, mormorare qualche frase di circostanza, distribuire pacche sulle spalle e prendere l’assegno: lui avrebbe finito per insultarli tutti e il suo blogger gli aveva più volte sottolineato come questo non giovasse agli affari.
Tuttavia questa volta si stava pentendo di non essere lui a parlare con la donna: si era aggrappata alle braccia di John e non dava segno di volerlo lasciar andare.
In verità non era nemmeno così sconvolta, perché sospettava già da tempo che il marito la tradisse, ma adesso aveva messo gli occhi su John e la cosa non gli piaceva affatto. Serrò la mascella di colpo, si mosse dalla porta deciso a intervenire, ma non ce ne fu bisogno.
“Sono così turbata - stava dicendo la donna - non dovrei restare sola stanotte. John, se lei potesse…”
“Chiamare una vicina di casa? Sicuro - rispose il blogger nel tono di voce che usava per rassicurare un paziente ansioso, mentre si alzava sottraendosi alla presa della cliente - Oppure, se si sente così male, posso chiamare un’ambulanza e farla ricoverare per la notte. Posso anche prescriverle un blando sedativo, credo che della valeriana dovrebbe bastare.”
Le dita di John erano già sulla tastiera del telefono e a quel punto la donna capì di essere stata respinta senza troppi complimenti e scosse la testa.
“Ah, no… posso chiamare io un’amica più tardi.”
“Benissimo, allora se non c’è altro, io e Sherlock dobbiamo andare.”
John lo raggiunse e gli passò un braccio attorno alla vita in un gesto inequivocabile, tenendolo stretto a sé.
“Ci stava provando con te” disse Sherlock mentre camminavano lentamente lungo il Tamigi, godendosi la bella vista notturna della città.
“Lo so. E so anche che stavi per dire qualcosa di molto sgradevole che ci avrebbe impedito di incassare i nostro soldi” ridacchiò il blogger.
“Se lo sarebbe meritato.”
“Ti ho mai detto che ti adoro quando fai il geloso?” domandò John alzandosi in punta di piedi per baciarlo su una tempia.
Qualche ora più tardi giacevano nudi sul letto, supini, con le dita della mano che si sfioravano appena.
John si stava stiracchiando con aria soddisfatta, mentre Sherlock fissava il soffitto.
“A cosa pensi?” mormorò John girandosi sul fianco verso di lui e depositando un bacio sulla sua spalla.
“Vedi quella crepa sul soffitto? Un mese fa era di due centimetri più corta.”
John spalancò gli occhi: “Oddio, dobbiamo preoccuparci che ci cada il soffitto in testa?”
“No, è solo l’intonaco, non un problema strutturale.”
“E allora perché ti affascina così tanto?”
“Non mi affascina.”
“Be’, stai guardando quella crepa invece del tuo uomo… mi sento quasi offeso!”
Sherlock sorrise e si voltò verso di lui. “Idiota! Stavo solo riflettendo.”
“Su cosa?”
“Sul tempo che passa e le cose che cambiano e che cadono in rovina.”
John gli accarezzò il torace con le nocche delle dita.
“Sono pensieri profondi, ma se lo domandi a me, io preferisco concentrarmi sul presente. Su questo istante, a essere precisi - fece scorrere lo sguardo sul corpo nudo dell’altro - perché è decisamente meglio delle cose in rovina.”
Sherlock gli prese la mano e la portò alle labbra per baciarla.
“A volte mi sembra che il tempo insieme sia volato via nello spazio di un respiro.”
Una frase così poetica non era affatto tipica di lui, nondimeno a volte aveva esattamente questa impressione: che i giorni scorressero a una velocità anormale, e in men che non si dica si ritrovavano dall’inverno pieno agli inizi dell’estate.
“Tu dici? Sarà - replicò John in tono dubbioso - per me i turni in clinica sembrano non finire mai.”
“Però lo sai anche tu che questo stato di cose non durerà per sempre: verrà un giorno in cui non saremo più in grado di correre dietro ai criminali, un giorno in cui i danni strutturali di questa casa saranno così gravi che dovrà essere abbattuta.”
“Allora troveremo un altro stato di cose per noi” rispose John con tranquillità sollevando un braccio, e subito Sherlock strisciò verso di lui, lasciandosi avvolgere dal suo abbraccio.
“Ci sarai anche allora?” chiese adagio sul suo collo.
“Sempre Sherlock, io ci sarò sempre. Sentiamo, quale sarà il nostro futuro?”
“Cosa ti fa credere che ci abbia già pensato?”
John gli picchiettò l’indice della mano sinistra sulla fronte: “Perché ti conosco, e scommetto che nel tuo immenso Mind Palace c’è una stanza dedicata anche a questo.”
“Un’ala, a dire il vero.”
“Vedi? Lo sapevo.”
“Sussex - disse adagio Sherlock dopo qualche attimo di silenzio - supponendo che il paesaggio e l’ambiente restino immutati, credo che sarebbe un bel posto.”
“Mmh - John chiuse gli occhi e rifletté - la campagna, un bel portico assolato con le sedie a dondolo… perché no, penso mi piacerebbe.”
“Il giardinaggio, un orto - incalzò Sherlock - alcune arnie per le api. Diverse arnie, a qualche chilometro di distanza le une dalle altre, con specie di api diverse, per poter studiare le abitudini di ciascuno sciame, sia quelle alimentari che quelle sociali e-”
Il suo sproloquio venne interrotto dalla risatina esasperata di John.
“Ho detto qualcosa di buffo?”
“Quando hai accennato al pensionamento, pensavo ci saremmo riposati, finalmente, ma quello di cui tu parli è un lavoro vero e proprio, non relax.”
“Non essere sciocco, John, ci annoieremmo a morte senza qualcosa da fare.”
“Probabilmente è vero - il dottore lo baciò su una tempia - Ehi, mi è venuta un’idea: il mese prossimo potremmo trascorrere un week end nel Sussex, per vedere com’è effettivamente e se ci piace, che ne dici?”
“Il mese prossimo?” Sherlock gli rivolse un sorriso raggiante: sarebbe stato il secondo anniversario della loro prima volta.
“Credevi me ne sarei dimenticato?”
Invece di rispondere, Sherlock lo rovesciò sotto di sé: “Solo due giorni per festeggiare due anni insieme? Sono profondamente offeso.”
John fece scivolare le mani lungo la sua schiena fino ad afferrargli le natiche: “Questo perché ancora non conosci il programma del week end.”

Kitty Riley non era ossessionata da Sherlock Holmes.
No, sul serio, non lo era, ma essendo sempre alla ricerca di scandali e gossip, non le era difficile imbattersi in quel nome, specie su forum e blog amatoriali, dal momento che il consulente investigativo aveva molti fans.
E così un pomeriggio, subito dopo aver terminato un articolo per il Sun, nel quale si metteva in dubbio l’orientamento sessuale di un noto dj londinese, navigando in rete si imbatté in un messaggio sul principale forum dedicato a Holmes che la incuriosì.
“Sherlock Holmes è scomparso di nuovo?” recitava il titolo del thread.
Incuriosita, si fermò a leggere: il detective mancava da Baker Street da ormai due settimane, non rispondeva né al campanello, né al telefono, né alle mail e il suo blog non era più stato aggiornato.
“Nemmeno quello di John Watson lo è” faceva notare un utente.
“Uh, non è un grosso indizio e ormai su quel blog non c’è più nulla di utile: da quando il dottor Watson è sposato, il suo blog parla solo di sé o della figlia, come se gliene fregasse qualcosa a qualcuno.”
Subito sotto questo messaggio, un moderatore avvisava: “Ricordo a tutti gli utenti che l’off topic è vietato: c’è una apposita sezione del forum dedicata al blog del dottor Watson, siete pregati di discutere lì di tutto ciò che lo riguarda.”
“Tornando in topic: Holmes non potrebbe essere all’estero?”
“Non credo, in quel caso risponderebbe comunque alle mail del sito, come ha già fatto in passato.”

Kitty Riley tamburellò con le dita sulla scrivania: la prima volta che si era occupata di Holmes ci aveva guadagnato una discreta notorietà, non c’era ragione che non funzionasse ancora, e in quel momento era a corto di scoop, quindi decise di approfondire la vicenda.
Il giorno dopo si recò a Baker Street: le tende dell’appartamento al primo piano erano chiuse e nessuno rispondeva al citofono. Secondo gli utenti del forum che aveva consultato, la padrona di casa, la signora Hudson, diceva di non sapere nulla, ma Kitty non ci credeva: tale reticenza nascondeva sicuramente qualcosa, tuttavia probabilmente sarebbe stato inutile parlare con lei, non le avrebbe dato una risposta diversa da quella data ad altri, perché o non poteva o non voleva parlare.
Meglio concentrarsi su qualche altro vicino di casa: per esperienza sapeva che tra loro ci sarebbe stato sicuramente qualcuno con la lingua sciolta.
Mentre esaminava le sue opzioni, una donna anziana le passò a fianco per raggiungere il civico successivo, poi tornò indietro.
“Cerca Sherlock Holmes, signora?”
“Sì - improvvisò la giornalista - sono una sua cliente: circa un mese fa l’ho contattato per un caso assai delicato e ora ho bisogno di sapere qualcosa.” Guardò la donna con quella che sperava essere la buona imitazione di uno sguardo preoccupato e bisognoso d’aiuto.
“Oh, povera cara, in questo caso credo che farebbe meglio a contattare un altro detective.”
“Come mai? È accaduto qualcosa al signor Holmes?”
“La mia amica Martha si è raccomandata di non raccontare nulla in giro, ma visto che lei è una cliente, immagino che non ci sia nulla di male, e ha diritto ad una risposta.”
“Oh sì, la prego! Mi trovo in una situazione estremamente delicata…”
“Tutto quello che so è che due settimane fa il signor Holmes è stato portato via in ambulanza e non ha più fatto ritorno qui: immagino quindi che abbia dei problemi di salute piuttosto gravi.”
“Oh, mi dispiace! Però a questo punto credo che farò come mi suggerisce lei e mi rivolgerò a un altro professionista: purtroppo non posso fare altrimenti. La ringrazio molto, signora…”
“Turner, cara. E non c’è davvero bisogno che mi ringrazi.”
“Oh, invece sì” pensò la giornalista, allontanandosi con un sorriso di trionfo.

“Ciao Tommy!” esclamò Kitty, entrando nella piccola stazione di polizia locale.
Thomas Devenport, agente della stradale ed ex compagno di liceo di Kitty, le rivolse un’occhiata scettica: “Cosa ti serve questa volta?”
“Non posso passare a salutare un vecchio amico?”
“Ti conosco troppo bene.”
“È vero - ammise lei - mi serve un piccolo favore.”
“Sai bene che per la privacy-”
“Il fatto è che la mia macchina ha subito un piccolo incidente” lo interruppe lei.
“Oh?”
“Nulla di serio in realtà: circa due settimane fa ho lasciato l’auto parcheggiata sotto casa di una mia amica, in Baker Street, perché dove abito io stavano facendo dei lavori e c’era il divieto di sosta; stamattina sono tornata a riprenderla e ho trovato un fanalino rotto. Il proprietario di un negozio lì di fronte mi ha detto che è stata una ambulanza che faceva manovra. Insomma, sarebbe stato carino se avesse lasciato almeno un biglietto di scuse sotto al tergicristallo, non credi?”
Il poliziotto annuì e iniziò a cercare sul computer: “Baker Street, hai detto?”
“Sì, all’altezza del civico 221.”
“Ecco qua: sì, diciassette giorni fa è stata chiamata un’ambulanza proprio a quell’indirizzo: è una vettura dell’ospedale St Bartholomew's.”
Il poliziotto copiò il numero di targa su un foglietto e glielo porse.
“Grazie davvero.”
“Vuoi sporgere denuncia?”
La giornalista scosse la testa: “No, probabilmente dovevano fare un intervento urgente e hanno urtato la mia macchina nella fretta, quindi non voglio piantare grane: andrò all’ospedale, parlerò con l’autista e ci metteremo d’accordo.
“Come vuoi.”

Kitty stazionò al pronto soccorso, mescolata tra gli altri pazienti del triage in attesa di essere visitati e, quando l’infermiera al banco dell’accettazione fu chiamata da una collega e si allontanò dalla postazione, ne approfittò immediatamente per cercare sul computer in quale stanza fosse ricoverato Holmes.
Chissà perché, si era aspettata che la malattia del detective fosse qualcosa di eclatante o drammatico o particolarmente esotico, ripugnante persino, invece le fece uno strano effetto vedere l’uomo steso immobile a letto, alimentato artificialmente con flebo e sondino, mentre l’unico rumore che si udiva nella stanza era quello dei macchinari che monitoravano le sue funzioni vitali.v Quell’immagine contrastava fortemente con l’essenza stessa di Sherlock Holmes: dinamico, logorroico, sempre in movimento, con la mente che non si fermava mai un attimo e analizzava e deduceva ogni singola cosa.
Comunque si riscosse in fretta e si mise al lavoro: scattò alcune foto dell’uomo addormentato e della cartella clinica, ma fu interrotta da un’infermiera che entrò nella stanza e le chiese immediatamente spiegazioni sulla sua presenza lì.
“Ho sbagliato piano” rispose la Riley senza scomporsi, mentre si allontanava velocemente verso le scale.
“No, si fermi!” protestò l’infermiera, indecisa se seguirla o andare a chiamare qualcuno della sicurezza, ma intanto che decideva cosa fare, la giornalista si era già dileguata.

Sherlock spense il televisore e guardò John con una punta di apprensione; il dottore, seduto sul divano a leggere un libro, gli sorrise con una leggera aria interrogativa, all’oscuro del motivo della sua ansia, ma allargò un braccio e lo invitò a raggiungerlo. Sherlock si alzò dalla sua poltrona e si rannicchiò sul divano, appoggiando la testa sulle sue ginocchia, e le mani di John furono subito tra i suoi capelli.
“Cosa c’è?”
“Nulla” Sherlock cercò di scrollare le spalle nonostante la posizione scomoda.
John smise di accarezzargli la testa, ma lasciò le mani dov’erano: “Sherlock Holmes, dimentichi che ti conosco meglio di chiunque altro, lo capisco quando qualcosa ti turba.”
“Hai sentito il telegiornale? È scoppiata un’altra guerra.”
“Sì, be’, è una cosa terribile, ma il Medio Oriente è un’area molto instabile, e purtroppo non mi sorprende che ci siano così tanti conflitti.”
“Quante sono le guerre attive al momento nel mondo?”
“Non lo so. Più di quante dovrebbero essercene, comunque.”
“E in quante di queste è coinvolto il Regno Unito?”
“Non so nemmeno questo - borbottò John - Non ho più contatti con l’esercito. Perché vuoi saperlo?”
“E se… e se ti richiamassero in servizio?” sussurrò Sherlock afferrando l’orlo del suo maglione.
John rise adagio e si chinò per baciarlo su una tempia, poi riprese ad accarezzargli i capelli.
“Questo è impossibile: sono stato congedato per via della mia spalla malandata, non potrebbero mai farlo, quindi stai tranquillo, amore.”
Sherlock chiuse gli occhi, rassicurato dalle sue parole.
“Dillo di nuovo.”
“Cosa?”
“Lo sai benissimo cosa?”
“Non ti stufi mai di sentirmelo ripetere?”
“No.”
“Nemmeno dopo tutto questo tempo?”
“Mai.”
“Amore. Va meglio, ora?”
“Sì.”
“Allora perché non ci occupiamo di qualcosa di più vicino a noi? Del cliente che è passato stamattina, ad esempio: pensi di prendere il suo caso?”
“Potrei, sembra discretamente interessante.”

*****

Note: nel film “Inception” il tempo all’interno dei sogni scorre in modo differente rispetto al tempo reale, ossia molto più veloce: ore del nostro tempo corrispondono a settimane nel contesto onirico. Ecco perché per Sherlock sono passati anni, mentre in realtà si tratta di sole due settimane.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Hotaru_Tomoe