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Autore: L0g1c1ta    19/03/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Non fa freddo, ma nemmeno caldo. Non è buio, non c’è luce, non vede nemmeno le proprie dita. Mani ghiacciate, dita invisibili. Si sente senza torso, braccia, gambe, collo e testa. Non sente nulla di sé. Pensa che forse anche la propria testa stia galleggiando in questo mare d’inchiostro, dove lui è finito per sprofondarci, nel fondo, nel nulla. Non riesce a capire dove si trovi, sa solo che deve aspettare. Sa che qualcosa accadrà. Pur tuttavia, ha paura anche solo di aspettare.

“Ragazzo!” sobbalza, ha paura, molta paura. La meraviglia, la luce. Il terrore, la vergogna. Vorrebbe piangere, tanto gli è mancato, tanto ha timore di lui. Non voleva vederlo, non voleva sentire la sua voce, anche se da secoli gli era mancata “Figlio!” alza il capo, si sente un maledetto marmocchio gettato per strada, al freddo. La sensazione di trovarsi in un luogo non suo, che non conosce, per vederlo, è orribile e lo fa piegare su sé stesso. Non lo vede, troppo è il buio. Ma la sua voce è poco lontana, troppo vicina. Rimbomba fin dentro le sue viscere, la voce.

“V-Vecchio…?” mormora, si sente ancor più piccolo ed insignificante. Lui ora è insignificante di fronte a lui. Vorrebbe sprofondare direttamente all’Inferno e lì venire carcerato. Senza sentirlo, senza parlargli. Sente uno sputo trattenuto fra i denti. Riabbassa la testa, terrorizzato dalle sue future parole. Faceva così quando era furioso, le rare volte in cui si arrabbiava. Era una colpa essere in vita, quando era arrabbiato.

“Cosa significa, ragazzo? Che cosa hai fatto!?” rimbomba di nuovo nelle proprie viscere, l’urlo. Lo fa piegare, spaccata la schiena. Trema, ha paura. Non voleva veramente rivederlo. La vergogna gli fa bagnare gli occhi e tremare le spalle. Sa cosa intende dire, entrambi sanno a cosa pensano. Sanno di cosa discutono. Dopotutto, lui si trova in quel buio proprio per questo. E non avrebbe mai voluto trattare dei suoi peccati con lui.

“Io… io… io… credevo di fare la cosa giusta…” prova a spiegarsi, forse si discolpa anche un po’, probabilmente troppo. Questa non è una scusa per ciò che ha fatto. Niente potrebbe essere una scusa per ciò che ha fatto. Anche il Vecchio lo sa, sa e ne è indignato. Sente la sua collera strisciare sulle ossa della spina dorsale, un serpente pronto a morderlo. Le spalle hanno spasmi di vergogna. Il Vecchio è un serpente quand’era iroso con lui. E il suo morso era più doloroso del veleno di terrore.

“Credi che questa sia una risposta!?” il corpo riceve l’esclamazione come un proiettile d’argento, nel cuore. Le ginocchia tremano, ha ancora più paura. La vergogna e il rimpianto lo fanno piegare verso il basso. Tira su il naso, non immaginava nemmeno che gli stesse colando. Nemmeno riusciva a sentire le lacrime bollenti nelle iridi, calderoni di sale liquido. Si sente veramente patetico. Si sente così patetico da voler strisciare. Questo è un duro colpo al suo cuore.

“M-Ma… era per il paese…”

“Bestia ingrata!” sobbalza, non l’ha mai chiamato così, nemmeno quand’era veramente furibondo. La vergogna preme ancora nella sua coscienza “Maledetto ed infame disgraziato! Come hai solo potuto avere il pensiero di creare qualcosa di tanto disgustoso?! Quale maiale ti ha traviato per farti fare ciò?!” urla, queste sono vere urla di ira. Chissà da quanto tempo lo osservava, dall’alto dei Cieli. Chissà da quanto tempo è rimasto seppellito dalle sue bugie e dalle sue chiacchiere, rivolte al popolo come parole del Signore. Chissà da quanto tempo contiene dentro di sé questa collera maledetta. Tanto, si risponde. I fantasmi sanno tutto, dal Cielo si vede ogni cosa, dopotutto. Singhiozza, tutto questo gli fa male. È incorporeo, il suo corpo è sparito, ma sente ugualmente lo stomaco gridare dal dolore e il cuore piangere lacrime rosse.

“Ti prego, Vecchio, smettila… Non ti arrabbiare…” piange, veramente piange. Sono anni che non piange di fronte a qualcuno, mai l’ha fatto di fronte a lui. Si odia, si disgusta. Si sente orribile.

Taci!” fa onde pesanti e nefaste, la sua voce. Si chiude ancor di più in sé stesso. Mai vorrebbe alzare la testa ora, mai vorrebbe scontrarsi coi suoi occhi. Lacrime ancor più salate. Un cavaliere prussiano non dovrebbe mai piangere, nemmeno di fronte al suo re. Anche se quest’uomo è stato più padre che re “Come anche solo ti permetti di rispondermi?! Maledetto animale! Eri il mio sole, il nostro sole. Eri la Nazione più forte ed orgogliosa che io abbia mai visto. Ti ho tenuto con me, ti ho allevato, ti ho cresciuto io. Tante volte ti ho ritenuto il figlio che io non ho mai avuto. Mai avuto la gioia di essere il maestro della mia stessa Nazione. E tu, ora, come mi ripaghi!? Mi disonori, sputi sangue sulla nostra bandiera, sopprimi il cuore di ogni popolo, anche il proprio! Uccidi anche la nostra gente! Se fossimo ancora in vita ti taglierei una ad una le dita, o, almeno, tenterei di farlo, cane. Ti sei macchiato del sangue di milioni di uomini e donne usando come scusa il falso di ciò che ti ho insegnato! Non sei più il mio sole, sei la mia vergogna, sei il mio disonore. Non avrei voluto nemmeno vederti, dannata serpe!”

Pianto disperato. Ginocchia a terra. Singhiozzi inconsolabili. Sobbalzi del corpo. Cuore spezzato. Cervello in fiamme. Vergogna, vergogna, tanta vergogna. Il disonore e il pentimento battono sulle sue spalle. Vuole morire, vuole sparire, vuole strapparsi i capelli per il pianto isterico. Si odia. Si odia ancor di più. Non vuole che lo guardi in faccia, sprofonderebbe nel mare di inchiostro per la troppa vergogna.

“Smettila di compatirti e tirati su!” pare un ululato che squarcia il nero dell’inchiostro intorno a lui, quest’urlo. Con fatica, molta fatica, ubbidisce, l’anima infranta dagli spasmi. Non ha ancora calmato i singhiozzi “Meriteresti la punizione eterna, ragazzo, te ne rendi conto?!” fa male la sua voce. Fa male. Annuisce, molte volte, quasi si taglierebbe il collo per i sussulti della sua gola. Non vuole una punizione. Vorrebbe ricominciare tutto daccapo. Vuole rimediare all’errore che ha fatto. Altre lacrime bagnano le guance. Trema forte, mai fatto in vita sua. Mai pianto così tanto in vita sua, mai di fronte a lui. E’ dolorosa questa consapevolezza.

“Smettila, figliolo. Le lacrime ora non servono a nulla, che il Cielo ha voluto darti una possibilità da non sprecare” smettono i singhiozzi. Smettono di fluire altro miserabile pianto. Qualcosa dentro di lui, forse un frammento di anima, si stacca dalle carni e inizia a fluttuare fuori di sé, sinceramente meravigliata. Ascolta la voce del Vecchio così come ascoltava, ammirato, da bambino, il suono del suo flauto. Il sollievo e l’incredulità brillano nei suoi occhi.

“D-Davvero?” la propria voce sa di bambino, sa di incanto, sa di speranza, di felicità, di piccolo timore. Ha timore di sbagliare, di parlare male. Una sola parola potrebbe distruggere ogni cosa, lo sente da dentro.

“Si, ragazzo. Ma in questa prova ti seguirò e ti starò accanto. Non voglio altri errori. E’ la tua unica possibilità, che il tuo posto non è qui” non ha paura, qualcosa in quel che ha detto lo fa sentire sollevato, lo fa sentire protetto. Vede il buio attorno a sé prendere luce, lentamente, ma non così tanto da non notarlo. La meraviglia e lo stupore s’impossessano della sua anima. Si sente sinceramente sollevato. Batte forte il cuore, vivace nel petto. Le lacrime vorrebbero sporgere e continuare a correre verso la libertà, ma riescono a fermarsi tra le ciglia, al sicuro. Sente una pesante presa che pende ben oltre la sua spalla. D’istinto alza il braccio, accoglie il nuovo e vecchio re. Dai suoi occhi vede serietà, vede un cuore fiero che brucia di rivincita. È incredulo di ciò che vede. Il suo compagno non si risparmia ancora, non cede alla compassione per la sua patria. Ora è un padre inflessibile che vuole salvare il figlio, anche se l’ha deluso fin troppe volte.

“E ricorda: è la tua ultima possibilità di salvezza. Non sputarci sopra, ragazzo”

 

 

 

 

 

Lituania è freddo. Lituania ha la pelle grigiastra. Lituania ha l’anima morta. Il vento ghiacciato e le nuvole cineree lo toccano, eppure si considerano più calde della sua carnagione. La pelle bianca è ghiacciata al tatto, notano i soffi del vento estivo, più freddo del solito, forse contagiato dal cuore fermo del lituano. Non ha più memorie, Lituania. Come se si fosse catapultato nel giardino d’un colpo, uno stravagante ed inutile miracolo. Per un attimo, mente di bambino, crede veramente di essersi gettato lì in un batter d’occhio. Qualcosa in lui, piccolo ed infantile pensiero, immagina che sia veramente così. Perché tutto ciò è ridicolo: Lituania non ricorda quasi nulla del giorno precedente. Non ricorda nemmeno come ci sia finito in quel pezzo di terreno inutilizzato, dietro la casa, gettato all’ombra della villa nera. Non ricorda nemmeno come abbiano fatto i suoi fratelli a trovarsi ai suoi fianchi. Si chiede anche come sia possibile che, in pochi secondi, veda apparire Russia e le sue sorelle, abbracciate al fratello, poco lontano da lui.

Lituania è muto. Giura di non ricordare di aver aperto bocca quel giorno. Giura che non l’ha fatto nemmeno per mangiare.          Non ha mangiato per un intero giorno, eppure la pancia è calma. Forse più muta delle labbra del ragazzo. Non tenta nemmeno di muovere i denti, tanto sono sigillati fra di loro, stretti in un goffo abbraccio. Li lascia abbracciati, compressi, il giovane cavaliere, che lui sa che hanno bisogno di affetto, forse molto più di lui. Ma non ne è del tutto sicuro. Non è certo se voglia un abbraccio o un bacio compassionevole. Non è certo nemmeno se sia un bene che la sua bocca sia ancora completamente sigillata. Eppure resta ancora così, muto e freddo.

Lituania è sordo. Forse ha dimenticato la lingua di Russia, forse è malato e non riesce a sentire, forse le sue orecchie sono semplicemente molto timide oggi, ma non sente nulla. Il vento, ieri birichino, oggi annoiato, prova a toccare il ragazzo. Sprofonda le sue grandi mani di velluto sulla pelle bianca delle guance. Lascia la sua carezza gentile, desideroso di attenzioni, di qualcosa di interessante. Ma Lituania è ancora morto e non riesce a muoversi. La mano caritatevole del vento è nulla più di un lieve tocco di dama, dato per sbaglio, imbranata e noncurante di lui, piccolo cavaliere. Il vento, incredulo, diventa scocciato. Si fa più provocatorio, più arrogante. Sbatte le mani, più fredde, più crudeli, sul ragazzo di ghiaccio. La sua energia non è molto forte, ma è sufficiente per alzare giusto un po’ la terra e per muovere i capelli scuri. Ondeggiano tra le dita del vento, i capelli mori. S’intrecciano tra le falangi e le unghie gelide dello spirito birichino. Tornano lentamente al loro posto, forse un po’ più vicine agli occhi blu. Ancora nulla. Ancora morto. Il vento se ne va, indignato, più annoiato di qualche ora fa: Lituania è ancora morto, è ancora sordo. Non capisce ancora come sia possibile. Non capisce ancora come faccia a non sentire le parole del prete, le sue benedizioni e la sua preghiera. Non capisce molte cose, il freddo ragazzo. Ma forse è meglio non tentare più di comprenderle.

Lituania è cieco. È anche cieco, oltre che sordo e muto. È incredibile e letale come un solo avvenimento sia riuscito a farlo morire così in fretta. Sarebbe quasi meravigliato da ciò, ma non ne è capace: forse non riesce neppure a pensare. Tuttavia, non desidera avere la consapevolezza di ciò che stia accadendo. I suoi occhi sono ciechi, ma solo per ciò che scorgono attorno al proprio padrone. Vedono, gli occhi, ammaliati, catturati solo dalla pelle grigia di Polonia. Gli occhi sono magneti, il corpicino fragile dell’amico è una forza troppo potente per non prestarle le iridi, anche se scure e tagliate dalle mani del vento. Nella fossa, dentro la bara di marmo bianco, di fronte alla lapide luminosa, il piccolo principe riposa, che morto non può essere. Lituania non riesce a spiegarsi molte cose. Questo problema è molto, troppo difficile da risolvere. Ciononostante, non riesce a fare nulla: le labbra sono mute, gola chiusa, respiro lento e calmo di stasi, i soffi di un morente. Orecchie chiuse, stretti i padiglioni, bloccati e concentrati sul nulla. Occhi freddi, dovrebbero essere blu, ma il tocco del vento e l’anima smossa li fanno grigiastri. Sono attratti dalle rose bianche e rosse dentro al giaciglio del piccolo principe. Sono conquistati dai capelli di grano, forse tornati biondi e vivi, forse un’impressione del passato. Sono stregati dal dolce petto che tenta di spingere i fiori recisi, ammassati su di sé. Malgrado ciò, nonostante lo sforzo, non ci riesce: troppo pesanti, troppo debole è il suo respiro, troppa poca è la sua energia. Ma continua a catturare piccoli batuffoli di aria, nutrimento per i polmoni freddi. Gli occhi di Lituania non riescono ancora a smuoversi, a riacquistare del tutto la vista.

Lituania è un cavaliere di ghiaccio. La schiena è dritta, ferma e composta. Il capo alto, fiero, nonostante gli occhi e la pelle congelata. Le mani cadute, tenute ferme, lunghe contro i fianchi forti. Non riesce a sentire il vento, né le deboli ribellioni dei suoi capelli, più attratte dallo spirito, nemmeno riesce ad avvertire le mani dei suoi fratelli tra le sue dita. Sente la manina coraggiosa di Lettonia stringere più forte, cercando di risanare qualcosa di ancora sano. Non c’è nulla da riparare, da far guarire, ma pare che nessuno l’abbia capito. Ma a Lituania non importa che qualcuno lo comprenda.

Anche Russia ha occhi caldi, angosciati. Vede qualcosa dentro di sé, un ricordo che vorrebbe dimenticare. Ricorda i giorni in cui toccava la schiena e le braccia di Lituania. Non sapeva ancora quanto fosse importante per lui. Ricorda gli occhi straziati, poi lacrimevoli, poi deboli, infine morti. Guarivano dopo pochi giorni, i suoi occhi, ma ora il generale è preoccupato. L’occhio è fermo sulla pelle biancastra del giovane cavaliere. Il vento tenta ancora di graffiarlo, di farlo sobbalzare, invano. Russia non ha ancora paura, vuole ancora sperare che il suo piccolo angelo stia bene e starà bene. Spera che del tempo, pochissimo tempo, possa ricucire la debole ferita che ha voluto aprire, per cicatrizzarla per sempre. Non sa niente Russia. Per una volta non sa niente. Non sa nemmeno dello sguardo amaro ma tenace di Katja, forse un po’ più coraggioso. Non sa nemmeno della stretta più salda al suo braccio di Natalya, presa dalla gelosia. Vede gli occhi di suo fratello su quel cavaliere morto. Non dovrebbe guardarlo per così tanto tempo. Non capisce nemmeno lei perché gli rivolga uno sguardo così teso. La ragazza vorrebbe essere abbastanza ignorante da non domandarsi tutto ciò. Le basterebbe solo l’attenzione di suo fratello, nulla di più. Ma un piccolo lato di sé, poco più calmo, crede che debba sapere il perché di tutte queste attenzioni per un giovane freddo d’animo e di cuore. Stringe ancora il braccio del fratello, tenta di ignorare quel che sta accadendo, tutto quel che sta accadendo. Eppure non ci riesce, troppo gelosa, troppo toccata dal volto irriconoscibile di Polonia. Chiude gli occhi e sospira. Vuole solo tornare dentro casa, nella sua stanza, forse a leggere un libro. Lontana da tutto ciò che la turba. Non solo suo fratello. Ricorda Polonia, molti secoli prima. Vederlo in questo stato la fa sentire male. Non l’ammetterà mai, ma sente una piccola pressione sul cuore.

L’uomo anziano chiude la Bibbia. Inclina il capo verso tutti, smette di parlare. Ha finito, tutto è finito. Le rose sembrano incominciare a morire già da ora, seppure recise un paio d’ore fa. Abbracciano e scaldano il corpicino del piccolo principe, anch’esse incantate dalla sua pelle, dalla sua veste bianca e soffice, dai capelli lucenti. Sono affascinate troppo da Polonia per staccarsi da lui. Sono accontentate: non saranno gettate via, lontane dal loro amato bambino. Restano lì, dentro il piccolo giaciglio bianco del marmo, coprono con più audacia le braccia magre del loro piccolo amante. Amano le sue guance, forse un po’ più calde ora grazie alle loro cure. Vorrebbero toccargli le labbra di latte, loro tutte, ma non si può: troppo lontane, incastrate tutte. Sconfortate, si coricano al suo fianco, ancor più innamorate. Lituania, quercia forte e fredda, resta a guardare, nel silenzio e tra le mani del vento nei suoi capelli, maledetto ed intestardito.

Russia si china, fa il segno della croce, diverso da quello che Lituania fa di solito. Spinge, dolce, toccato, la porticina di marmo della bara. Il tonfo della chiusura tocca le orecchie di Lituania. Si scaraventa sulle labbra, le trapassa e sblocca i denti. Filtra tra i capelli, più veloce delle unghie del vento, tocca la fronte e dietro al capo. Gli occhi di Lituania si scuotono, vedono il piccolo giaciglio venire inghiottito dalla terra. Una piccola vocina sussurra, speranzosa, nell’orecchio aperto del ragazzo. Gli chiede i suoi pensieri, cosa voglia il suo cuore e la sua anima. Lituania non sa che rispondere. Continua semplicemente a guardare, con le mani strette fra quelle dei suoi fratelli.

Il giaciglio bianco scompare sotto la fredda terra e lì nessun altro ci getta sopra un occhio.

 

 

 

 

 

 

Batte le palpebre, Lituania. La memoria non vuole ancora aiutarlo. Non ricorda nemmeno questo. Non ricorda di essersi mai coricato, nel letto, nel loro letto, tra le lenzuola calde. Non ricorda nemmeno il buio, le stelle, la luna che splende dalla finestra. Né il pendolo, vecchio e brusco, che sbatte la sua lancetta innanzi ed indietro, una danza monotona e malinconicamente familiare. Se alzasse lo sguardo vedrebbe il vetro della finestra coperto di punti bianchi. Le stelle sono spesso state la sua luce nelle vecchie ed anziane notti d’incubi, quando Russia strappava la sua carne come stoffa di bambola, quando piegava la schiena ad un padrone malato. Le stelle si staccano dolcemente dal cielo. Cadono, s’infrangono veloci sul vetro del pendolo, sulla pancia e sul volto delle lancette. Vede l’orario: le undici e mezza. Non ricorda affatto di aver toccato quest’ora. Mai l’avrebbe giurato. Mai avrebbe giurato che il buio l’abbia sopraffatto senza alcun preavviso. È sinceramente incredulo di ciò.

Pensa di chiudere gli occhi, pensa per un attimo di dormire. Ma qualcosa continua a ghiacciare il suo corpo ed a maledirlo. Le palpebre sono ancora ghiacciate, le iridi puntano sulle calme lancette, come nel tentativo di stregarle, per far passare più in fretta l’orario. Odiano talmente tanto le sue iridi, stanotte, il vecchio pendolo. Veramente, Lituania si sente stanco, ma non riesce nemmeno a chiudere gli occhi. E’ innaturale. Non riesce nemmeno a chiedersi cos’abbia il suo corpo. Il motivo della maledizione di ghiaccio gettata su di lui è fin troppo chiaro, è fin troppo ovvio. Il pendolo ignora le frecce fredde e continua il suo lavoro, imperterrito, troppo concentrato per fare un solo errore. Dietro di lui, poco dietro di lui, sente dei respiri delicati e calmi. Estonia e Lettonia si devono essere addormentati già da ore, probabilmente. Sente dietro la schiena il sereno sospiro dell’estone, poco lontano dal proprio collo, stranamente al centro del letto. Non si chiede perché Estonia si sia coricato affianco a lui, non vuole chiederselo. Non vuole chiedersi nemmeno come abbia fatto a non accorgersi della sua mano, chiusa, premuta sulla sua schiena. Un’infantile gesto di pace in un animo spesso travagliato.

Qualcosa si scongela dentro al lituano. Qualcosa decide di non voler essere schiavo di questo maleficio. Il cervello pretende di essere ascoltato, di sfogarsi, di implorare di avere voce. Il ragazzo accetta, desideroso di dare ascolto ad una piccola parte di sé, divenuta bollente per il nervosismo. Anche il cuore si libera, ritorna a fare il suo dovere con molta diligenza, troppa: batte troppo forte, lo fa respirare con affanno e preoccupazione. La carne e le costole protestano per la velocità. Il suo battito è ancora più angosciante, più prepotente e supplichevole. Il suo cuoricino pulsa, quasi malato. Fa quasi male, questa prepotenza. I suoi fremiti sono ricchi di calore che si espande e travolge ogni vena, arteria, muscolo ed organo. Lituania si è velocemente scongelato, morta la dannazione di ghiaccio. Batte le palpebre, ritornate blu, le ciglia tiepide. I capelli, anch’essi liberi, cadono, finita la tensione all’interno del petto del proprio padrone. Lituania ritorna ragazzo, lo sconosciuto non ha più anima. Il gelo muore, cade nel nulla. Si sostituisce l’angoscia, i battiti pressanti nell’anima. Fa un caldo maledetto all’interno del ragazzo.

Si chiede se sia divenuto pazzo, folle e malato. Si chiede se la sua mente abbia deciso di mutare in bastarda e crudele, solo per farlo sperare invano nell’impossibile. Si chiede, invece, se siano stati i suoi occhi ad ammalarsi o ad ingannarsi. Si chiede anche se quel che ha visto sia stato veramente possibile, se tutte le sue ipotesi precedenti siano state veritiere. Ha tantissime domande e le risposte che cerca non le trova, ne è insoddisfatto. Il cuore palpita indignato per tutte queste domande, ritenendo la soluzione più che ovvia e logica: perché avrebbe dovuto mentirsi o darsi false speranze? Perché il suo cervello ha desiderato recargli uno scherzo del genere, per quale motivo? Perché mai non vuole accettare la verità che solamente i suoi occhi hanno catturato, che solo la sua anima desidera accettare? Lituania non risponde, il cervello prende parola: se quel che ha visto è vero, come mai nessuno l’ha notato? Non si reputa incredibilmente attento o particolarmente attratto da particolari così minuti, tanto da essere in grado di intravedere un miracolo del genere. E, soprattutto, controbatte il cervello, sempre sotto ipotesi, come sarebbe possibile una rinascita di questo tipo? Mai è accaduto. Lituania lo sa, si è informato anni fa, nel suo tentativo di avere una speranza. Mai un prodigio del genere ha mai lasciato la meraviglia e lo stupore di altre Nazioni. Perché mai Polonia dovrebbe rinascere e tornare a vivere?

Solo queste ultime domande fanno quietare l’animo irrequieto del lituano. Anche le palpebre, anche le iridi si calmano: non è mai accaduto, non ha mai visto nulla. La sua mente si è semplicemente ingannata da sé. Polonia è morto da anni, non può tornare in vita come se nulla fosse, come se fosse lo stesso Cristo, morto e risorto. È ridicolo. I suoi occhi devono avergli mentito, oppure si sono mentiti da soli. Solo ciò è possibile. Dev’essere accaduto perché ha rivisto il corpo di Polska dopo molto, troppo tempo. La meraviglia e l’orrore di quella vista deve averlo confuso molto. Si, dev’essere assolutamente così. Dopo qualche minuto, dopo qualche altro attimo di pausa, si convince del tutto in quel che crede. È stato tutto falso, tutto un sogno irrealizzabile. Dovrebbe piuttosto smettere di credere nel nulla. Il cervello esulta, pacato, cosciente di aver vinto una battaglia già ottenuta sin dal principio. Il cuore, ancor più incredulo ed esasperato, urla, sbatte, protesta fra le costole del ragazzo. Non riesce a credere che Lituania sia riuscito a rilassare le palpebre solo per un paio di domande, forse anche errate. È sinceramente pieno di disgusto. Lituania, tornato cavaliere, lo fa tacere.

Pensa ad Estonia, con cui a fatto pace, con cui sta cucendo un’amicizia sincera. Pensa a Lettonia, che ha imparato ad avere coraggio, ad imitarlo, in un certo senso. Pensa a Russia, che non lo vede più come un giocattolo, forse nemmeno come un servitore, che non lo ha mai toccato in quegli anni se non per abbracciarlo o per passargli una mano fra i capelli. Pensa a lui stesso, a com’era malato e folle, a come pregava un angelo di portarlo via con sé. A come tremava nel vedere l’ombra di Russia, a come la rabbia bolliva nell’incrociare gli occhiali di Estonia, a come il disgusto e la delusione lo assalivano nel sfiorare con lo sguardo i riccioli di Lettonia. Non vuole ritornare come prima, non vuole perdere tutto questo per qualcosa che forse non è neppure vero. Non vuole ritornare pazzo, non vuole distruggere tutto ciò che ha guadagnato in questi anni. Non vuole perdere quelle poche persone che ama.

Chiude, serra le palpebre, quasi irritato dall’insistenza del cuore che, orripilato, urla il suo disappunto, strepita il suo sdegno. Lituania non vuole ascoltarlo, cerca di concentrarsi, per addormentarsi. Il cuore lacrima sangue, sgonfio e addolorato. Smette di pulsare troppo forte. Ringhia contro il cervello che esulta ancora, ride della sua sconfitta. Piange ancora sangue tiepido, il povero cuore. Il ragazzo è calmo, tranquillizzato completamente. Il respiro è regolare, per nulla frettoloso o traballante. Si è assopito. Ma il cuore è pur sempre il più audace all’interno di un corpo umano. E’ sempre il più sagace, il più coraggioso, il più forte. Il più orgoglioso. Questa sconfitta fa male, molto male. Non vuole perdere contro il cervello, sempre saggio, ma comunque troppo scontato. Il cuore non è questo, il cuore non vuole perdere, per questo cerca ricordi dentro di sé. Ricordi di Polska, per far ragionare Lituania. Il ragazzo, nel frattempo, sospira tranquillo: ha ritrovato la pace. Non ha più pensieri strani, non pensa più a nulla in particolare. Vuole solo dormire, è troppo stanco. Il cuore cerca, cerca. Trova. Trova qualcosa di importante. È orgoglioso di sé stesso per la sua futura vittoria. Osserva un attimo il cervello, calmo e dormiente. Il lituano sta per addormentarsi. Può agire. Lituania non dorme ancora, può ancora tentare. Col suo avversario russante, pone a Lituania una domanda, una domanda difficile: Ricordi, Lituania?

Il cavaliere è scocciato da queste ridicole parole, per questo borbotta e si accuccia ancor di più nelle coperte bianche, irritato. Ma Lituania, sentito il suo nome, interessato a questo nuovo indovinello, curioso per questa domanda inappropriata, apre bocca. È un bambino con occhi di zaffiro, luminosi e desiderosi di sapere. Chiede cosa significhi questa domanda, cosa voglia che lui ricordi. Non ha niente da ricordare lui, niente di veramente bello. Niente che valga la pena di rimpiangere. Niente di sinceramente lieto. Chiede ancora al cuore cosa debba rimembrare e perché debba farlo proprio ora, proprio oggi che sta così bene e così in pace. Il bambino che vive in Lituania è comunque curioso, batte forte il cuoricino, il pollice tocca le labbra sottili. È ancora desideroso di sapere. Il cervello si sveglia, ma non vede pericoli: il cuore sta solo farneticando, niente di imprudente. Per questo ritorna a dormire, più che altro annoiato. Pulsa di felicità, il cuore, per aver avuto attenzioni. Sa che vincerà, sa bene che ha ragione. Sa che può far riflettere il piccolo cavaliere. Non pone domande, porta alla memoria del ragazzo un piccolo ricordo, troppo importante per essere cancellato. Sussurra le memorie di lacrime e sorrisi nelle orecchie del bambino, piccola anima interessata.

 

“Almeno promettimi una cosa…”

“…?”

“Promettimi che tornerai”

“Se tu prometterai di aspettarmi”

“Lo farò”

 

Il bambino, frammento di anima, di ricordi di spade e lance, spalanca, strascica le iridi di zaffiro. Respiro spezzato, cuore irrequieto. Brivido di emozioni lungo le spalle. Lituania si scuote, si sveglia, il corpo fa un sobbalzo potente. Il pugno di Estonia dietro la sua schiena si sposta leggermente, non lo tocca più, spinto all’indietro dallo scatto energico. Le iridi si riaprono e si dimenano tra le ciglia. Il sobbalzo è stato così potente da aver fatto svegliare il povero ed anziano cervello, poco cosciente di ciò che sta accadendo. Si agitano entrambi nello stesso corpo, come se tutto quello spazio sia diventato terribilmente piccolo ed asfissiante. Il ragazzo si sente soffocare nelle proprie carni. Lituania ha il cuore che rimbomba e batte forte nel petto robusto, in cerca di attenzioni sempre più forti. Un altro battito, più pesante, eppure molto più potente e veloce. Il cuore quasi si diverte. Trova il bambino, scioccato per i ricordi, ancora occhi sbarrati, tremuli. Il cuore si accuccia vicino al piccino. Le labbra sussurrano altri ricordi, altra disperazione e commozione.

 

“Per quanto riuscirai ad aspettarmi, Liet?”

“…per sempre…”

 

Niente sobbalzi, nemmeno dell’aria nei polmoni. Il bambino si sgretola, muore, non esiste più. Labbra schiuse, lacrime di meraviglia, lacrime salate inondano le ciglia. Sono più cariche e bollenti del suo mare scuro. Sono pesanti e morbide di sentimento e di una pace del tutto insolita a lui, del tutto inappropriata in questo momento, con questi pensieri, con questo dolore. Le gocce, amanti della libertà, cadono, corrono molto veloci, così tanto da non riuscire nemmeno a fermarle. Carezzano le guance tiepide nel loro tragitto, danno un silenzioso conforto al ragazzo. Sbattono contro il cuscino, contro le lenzuola. Lituania sente i propri occhi roventi e salmastri. La meraviglia continua a crescere, ricordando meglio ogni cosa che aveva sentito quella notte. Battono, bambine, dolci, le ciglia. L’anima si stacca delicatamente dal corpo, vogliosa di una sorsata d’aria fresca, che quel corpo è troppo carico di ansia ed incredulità troppo bollente per lei. Lituania sente il distacco. Le labbra si spalancano, raccolgono aria per i polmoni vuoti, mancato il respiro. Sente il corpo molto più leggero e cauto. Le carni sono deboli, ma leggere e caritatevoli, senza alcun dolore. Anche il cuore si è un po’ svuotato dai battiti. L’anima è bianca, trasparente, donna angelica dalle braccia di velluto. Lituania è ammaliato dalla sua presenza. La figura dell’anima sopra di sé è rilassante, lo calma. Qualcosa nei suoi occhi lo preme ad osservarla, come un cavaliere nel vedere la sua donna per la prima volta. La sua anima è agile e svelta, non può stare troppo tempo fuori dal corpo di Lituania. Madonna di dolcezza, cade come una piuma sopra al ragazzo. Sdraiata, sorella al suo corpo, poggia le labbra sopra quelle del cavaliere. D’istinto, il ragazzo schiude un po’ di più la bocca, accoglie il suo bacio. Lituania ha le palpebre pesanti, il respiro pacifico: l’anima ha labbra di seta, sapore di forza e di miele. Riesce a ritornare dentro al ragazzo, nel suo spazio, nel suo cantuccio. Si accuccia dentro e si scuote, un battito sgraziato tra le braccia di seta. Lituania ritorna in sé, ritorna ragazzo forte e gentile. Ricorda, ora ricorda. Gli occhi vagano per il buio, alla ricerca di un filo piccolo, che può percorrere e seguire. Vuole ricordi, vuole la scia di ciò che ha perso. Il suo sorriso sullo specchio. Il riflesso di Polska, macchiato del suo sangue. La reggia di Vilnius. Il bagno nel lago, le braccia amorevoli dell’amico, coperta di acqua dolce. I campi di grano, la tavola grondante di cibo, mani di bambino, pelle bianca come porcellana, occhi di smeraldo. Il suo vestito nero, elegante, la neve bollente, i campi di trifoglio, il coltello di Estonia. Il tetto della villa, il salto, la decisione, la preghiera di seguirlo. Lui, straiato, mani premurose e morbide, parole dolce e dolorose, un bacio di addio, ali di rubino, sorriso di bambino, sorriso triste. Ricorda la promessa. Ha un’altra scossa pesante, più angosciante. Per un secondo pensa al cadavere, pensa che stia cercando di respirare là sotto, con difficoltà, sotto centimetri e centimetri di terra. Starà soffocando, pensa Lituania. Il terrore e l’angoscia prendono la sua anima, la maltrattano, la violentano dentro di sé. Il terrore e la paura lo stringono fra corde e lacci di ferro.

Poggia il peso, tutto il peso, sul bacino. Fa scendere le gambe, si toglie di dosso la coperta, non più calda. L’aria è fredda, i piedi sentono il ghiaccio sotto di sé. Così, senza scarpe, senza calzini, scende dal letto. Il pugno di Estonia dietro la schiena del ragazzo si apre, indignato per essere stato abbandonato. Cammina veloce. Il cervello, del tutto sveglio, incredulo, non riesce a parlare, non riesce nemmeno ad aprir bocca tanto è sconvolto. Il cuore ride forte, sapeva di essere riuscito a vincere, sapeva che ce l’avrebbe fatta. Era ovvio che avesse ragione. Continua comunque il suo dovere: sbatte contro le costole bianche, prese da una spira incessante di orrore e paura. Lituania non è del tutto certo di quel che ha visto, di quel che sta sperando che abbia intravisto solo lui, ma deve muoversi. Il cuore non sussurra nulla, nemmeno il cervello. Un vecchio istinto lo fa correre per il corridoio, fuori dalla stanza buia, fuori da quel calore opprimente. Quella vecchia sensazione la conosce già, ma credeva di averla dimenticata. L’aveva quando ha salvato Polska da Prussia, in quella vecchia battaglia che non vuole ricordare. L’aveva quando morì Jadwiga, la sovrana di Polska. Lui sapeva di doverlo salvare, lui ha salvato Polska anche quella notte. E Polska ha salvato anche lui, molti anni fa. Non riesce a credere che tutto quel che ha visto sia stato reale. Non vuole crederci e non vuole pensarci, ha altro a cui prestare i propri pensieri.

Ha il terrore di perdere il suo amico. Oltre al cuore, anche lo stomaco si maledice con spasmi potenti. Si attorciglia su sé stesso e non si libera. Fa un male del diavolo, lo stomaco freddo, ma decide di ignorarlo. Deve continuare a correre. L’istinto è più forte del solito, più esigente di rapidità e velocità. Deve muoversi, non c’è tempo da perdere. Il cuore sfonda, spacca le costole, tanto ha battuto prepotentemente. Fanno male anche queste, ma deve ignorarle, deve ingoiare il dolore e il pianto di angoscia. Deve essere forte. Non ha tempo, non ha veramente tempo. Non vuole pensare, non vuole ricordare nulla. Non vuole pensare che la sua sia una semplice follia. Continua a correre, disperazione nelle viscere.

Polska l’ha salvato nella foresta nera. Questa volta sarà lui a salvarlo.

 

 

 

 

 

 

Chiude la porta dietro le spalle, lascia che tocchino il legno scuro, lascia anche che la mano spinga l’intero corpo in avanti, che lo faccia sbattere lievemente contro la scrivania. Piccola esitazione. Tamburella le dita, irrequiete, sui bordi chiari. La tavola è pulita: né una carta la ingombra, né una scartoffia, né dell’inchiostro, né delle penne, nemmeno un libro o un fascicolo di documenti. Solo un giornale di quella mattina è aperto sulla scrivania. Ha smesso di lavorare dalla fine della guerra, non ha più dovuto toccare una carta da quando Germania si è arreso, da quando Prussia è morto. Non ne ha avuto semplicemente bisogno. Il suo popolo deve risanarsi per la resistenza avuta quel lontano inverno, la dura politica e le varie leggi da poco applicate. Niente che lo riguardi: lui è un generale, non un politico.

Smette di far giocare le dita, decide di sedersi. D’istinto poggia il mento sopra il palmo aperto. Le unghie, dopo un attimo di smarrimento, provano a carezzare la pelle nivea. Inutile tentativo: il generale non sente alcun contatto, non sente carezze, né graffi impertinenti. Ha la mente quasi del tutto assente, gli occhi stanchi per niente assonnati, i capelli disfatti, i sospiri che sostituiscono gli sbadigli. Guarda fuori dalla finestra. Non vede nulla e nemmeno vorrebbe farlo, non solo per il buio. Le stelle sono troppo piccole, troppo innocenti, troppo bambine per sostituirsi a dei lumi. Anche lo studio è scuro, nessuna lampada o candela è stata accesa. Quando Russia pensa dimentica anche il proprio nome.

Si chiede se abbia fatto un buon lavoro, se i Baltici stiano bene ora e se stiano passando una buona notte, nonostante il funerale della sera precedente. Un altro sospiro, più esausto e scuro, non per il sonno. Si chiede se Lituania stia bene, se ora riesca a non pensare a Polonia. Se possa dimenticare l’anno della sua malattia. Il corpo di Russia è irrequieto, tanto che si sposta continuamente dalla poltrona. Come un malato che non riesce a trovare una buona posizione per dormire senza sentire l’aggravare del proprio malanno. Infame è la malattia del generale bianco, disprezza e opprime la sua coscienza. Immagina molto, il generale, chiude gli occhi e immagina Lituania. Lo immagina nel letto, irrequieto, pesante, sudato per incubi e maledizioni lanciate da quel cadavere, risvegliato dall’eterno sonno. Perché, per Russia, Polonia è un demone e, toccato nell’eternità del riposo, sdegnato ed iroso, ha gettato sul proprio amico una seconda maledizione, un più leggera della prima, forse un unico avvertimento a non toccarlo più, per non farlo destare in nessun’altra occasione dal sonno eterno. Polonia è un demone, ha maledetto il suo angelo anni fa. La sua maledizione è durata per più di un anno, quell’anno ha pianto e bevuto come un maiale, ha spezzato ossa e massacrato come un mostro. Polonia voleva che Lituania fosse suo, voleva che lo raggiungesse e lo ha preteso nel modo più doloroso possibile. Russia ha toccato il fondo quell’anno e ha giurato di non farlo mai più.

Le dita che lo graffiano si quietano, portano alla memoria qualcosa di importante. Gli occhi pacati, adulti e calmi si spostano, toccano quella stessa mano. Sfiorano e vezzeggiano il taglio lungo il pollice. Quel vecchio taglio marchiato sulla propria carne, tra la pazzia e la felicità più pura. Russia non vuole ricordare quella stanza ammuffita e sporca di terra. Lo disgusta anche solo il ricordo. Gli basta osservare quel filamento color perla, poco più bianco che spacca, taglia di netto la sua mano. Non porta più guanti da quando ha fatto il giuramento. Sono passati anni, ma questa è diventata la sua abitudine per cambiare, per non rischiare un’altra maledizione e così altra collera nella propria mente. Sente il muscolo e l’osso tirare e questo è sempre un avvertimento per lui. Un avvertimento a non sbagliare. Non può afferrare un cucchiaio se non con una lieve scarica di dolce bruciore e il ricordo di una risata folle. Non vuole più vedersi in quel modo. Spera che sia cambiato abbastanza per non poter mai più vedere il sangue dei suoi bambini sulle proprie mani. Sarebbe molto più doloroso ritornare com’era prima che rivedere Polonia. Teme le sue mani più di quanto tema una maledizione del principe polacco. Spera solo che il suo corpo non voglia avere una vendetta un po’ più salata di quella presa anni fa.

Sospira ancora, forse, questa volta, con un po’ di sonnolenza. Pensa che non possa restare sveglio per tutta la notte. Le sue sorelle si preoccuperebbero nel vederlo assonnato, la mattina dopo. Malgrado ciò, non riesce a dormire. Crede che debba leggere qualcosa: leggere ad ore così tarde lo fa addormentare facilmente. Gli occhi balzano, lenti, sulla libreria alla sua sinistra. I pesanti e grossi tomi lo fanno sospirare di rammarico. Se deve leggere qualche centinaio di pagine di letteratura russa deve almeno essere sveglio. Lo disgusta l’idea di leggere un romanzo breve di Dostoevskij solo per avere sonno. Sposta lo sguardo sulla libreria alla propria destra. Sbuffa sconfortato e abbassa lo sguardo: i suoi vecchi documenti della vecchia guerra lo hanno stufato ed irritato a sufficienza anni prima. Non vuole altra collera. Non ha mai accettato il tradimento di Germania, poco importa se fosse stato un burattino fra le mani di Prussia. E’ pur sempre irato per la sua invasione.

Occhi cupi, caduti all’ingiù, quasi nervosi, catturano un giornale lasciato lì, abbandonato. Si meraviglia che non l’abbia notato prima, anche se accartocciato all’angolo della tavola. Si allunga, lo afferra, lo apre, ricorda di non averlo nemmeno toccato. Anche senza luce, lo taglia in due e prova a leggere. Politica interna, scandali economici, vecchie favole che ha già letto ed ascoltato secoli fa. Più che sonno, Russia ha noia. È incredibile come la storia si ripeta sempre, nonostante i secoli e secoli di innovazioni e tecnologie differenti. Gli umani fanno sempre gli stessi errori e non provano mai ad imparare. Lo stesso vale per le guerre. L’ultima che ha combattuto l’ha fatto stare più male di quel che avrebbe mai immaginato. Sarà per il suo nuovo cuore più morbido o per gli avvenimenti in sé per sé, ma ogni battaglia che combatteva pregava affinché smettesse subito. Pregava e sospirava di sollievo per ogni chilometro guadagnato al giorno. Così aveva passato la guerra. E mai ne ha odiata una così tanto.

Chiude il giornale bruscamente, lascia la prima pagina in piena mostra, si è già annoiato. Non riesce a pensare a nulla, non ne ha il tempo. Il corpo si blocca. Perplessità, semplice e pura perplessità. Si aggiungono anche la curiosità e l’interesse al suo spirito. La prima pagina, non ha idea di come non l’abbia notato fino ad ora, presenta una bandiera tagliata in due: bianca in alto, rossa in basso, un’aquila argentata con una coroncina d’oro svetta al centro della metà bianca, antica e urlante di storia medioevale. La perplessità avanza sempre più nella mente del generale alla scritta, stampata a caratteri più che maiuscoli: “Miracolo rivoluzionario: la Polonia rivendica la sua bandiera”. Uno schiocco di labbra, palpebre assottigliate, inizia a leggere:

“Il bianco e il rosso sono tornati a toccare il cielo della vecchia Polonia questa tranquilla estate. Varsavia brucia la svastica e ritorna a dipingere la propria bandiera con l’aquila bianca della libertà. Molti polacchi urlano già la loro indipendenza nelle strade della capitale. Abbandonata, maltrattata, dimenticata, non si arrende e decide di ritornare al vecchio splendore. La richiesta di una nuova Polonia è già possibile per questa estate, fiorente e gioiosa per un popolo ormai desideroso di una nuova casa…”

Le palpebre di Russia, con una lentezza asfissiante, si spalancano del tutto.

“…con la Germania in decadenza, l’Inghilterra e la Francia amichevoli e la restituzione dei vecchi territori, la Polonia ritornerà nelle cartine geografiche delle scuole. Questo luglio sarà festeggiato a Varsavia come l’inizio del grande cambiamento…”

Le mani bianche tremano. Il fiato è corto. Le parole più sfocate.

“…luglio di quest’estate… ritorno meraviglioso… nazione in rinascita… bandiera bianca e rossa, senza vessillo medioevale, troppo antico per… la vittoria è per i sopravvissuti all’orrore della guerra… resuscitati dalle ceneri come fenici…”

Iridi bollenti e piccole, tremanti, terrorizzate. I denti battono fra loro, prese da una forza più forte del freddo del Generale Inverno. Le mani hanno la stessa reazione, collegate alle iridi e ai molari balzanti dentro la mascella. Il cuore fa dei sobbalzi lungo la gola, tentando di saltare fuori e di fuggire via. Il giornale cade, troppi i tremiti di terrore, incapaci di tenerlo fermo. Pochi minuti, pochi secondi e la sua coscienza si è spaccata. Guarda la porta di fronte a sé, preso dal terrore. Teme di vederlo, rinato dal buio. Ha il terrore che percuote l’anima di fremiti e guizzi. Teme di vedere la porta scricchiolante, lenta e gracchiante come una vecchia strega. Teme di vedere una mano piccola, di bambino. Dita sottili e fini. Teme di veder aprire uno spiraglio e di osservarne attraverso occhi verdi, lucenti di vendetta, giocosi. Un naso piccolo, pelle chiara, capelli d’oro. Teme di vedere sul suo volto un sorriso lungo, di gatto, di volpe, di demone. Teme che la porta si apra ancor di più e di sentirlo ridere di vittoria, per avere in mano la sua preda. Russia, d’istinto, accuccia il proprio corpo nella profondità della poltrona. Trema, come un bambino trema nel vedere un mostro uscire fuori dal proprio armadio. Russia si chiede cos’abbia fatto. Perché abbia avuto un’idea così malata e folle. Si chiede perché mai abbia deciso di seppellire Polonia proprio lì, nel suo giardino, ad un passo da casa sua. Un passo più vicino alla vendetta del piccolo demone. Gli ha strappato via il proprio cavaliere e amico, ha maltrattato il piccolo Lituania, non gliel’ha restituito quando vinse contro di lui, ricevuti molti territori, soprattutto lituani. Lui l’ha ucciso.

Sente un tonfo fuori dalla finestra, dietro al suo giardino. Russia sobbalza e trattiene il respiro. Sa che se potesse guardare fuori dalla finestra vedrebbe la lapide e la tomba di Polonia. Sa che lì sta accadendo qualcosa. Un altro tonfo, un’altra lama piantata nel cuore. Brucia la ferita di quella lama, sputa sangue. Eppure il cuore batte ancora, nonostante il dolore e la ferita. Russia ha dolore al cuore, pulsante anche nelle orecchie, quasi oscurando i tonfi e i pugni che sente là fuori. Un altro tonfo, un po’ più forte e aggressivo. La prepotenza di quel boato lo percuote nelle viscere. Ha le orecchie ipersensibili: potrebbe sentire chiaramente i passettini innocenti di un topolino se ne zampettasse uno in questo studio. Qualcosa smette, qualcosa là fuori cade. Quel qualcosa sbatte sul terreno. Una bara aperta. Il cuore sta per scoppiargli in petto, una bomba sul countdown pericolosamente vicino allo zero. Lascia spruzzi di elettricità nelle vene, morde e pietrifica le carni. Il sudore sono perle trasparenti sulla pelle. Gli occhi spilli violacei.

Passetti calmi, piccoli ed innocenti, fuori al buio del giardino. I passi sono quasi disorientati, quasi perplessi. Si fermano, sentono l’aria smorzata, sotto i muri della villa. Un corpo semovente, senza un piede in avanti all’altro. Il fiato gli manca, non riesce a pensare, nemmeno a muoversi. Non oserebbe mai alzarsi e guardare fuori dalla finestra. Ha troppa paura. Il terrore di una nuova maledizione lo prende e lo sbatte contro i ricordi dei giorni malati, anni fa. Non vuole riviverli ancora, non vuole vedere Polonia. I passi, fantasmi, senza direzione, si muovono lenti e distratti. Non riesce a capire dove si dirigano, non riesce a farlo e il non saperlo fare lo terrorizza ancor di più. Svaniscono nel vento, i passettini di bambino.

Silenzio, morte nel cuore. Russia ha una mano sulle labbra e non se n’è nemmeno accorto. Gli occhi ritornano grandi e più controllati, le palpebre sbattono addosso alle iridi fredde, rimaste trattenute per troppo tempo. Ma i tremori e i battiti non passano affatto. Timoroso, tremule le braccia, alza la testa. Non deve alzarsi per guardare fuori. Non vede bene nel buio, ma la terra sopra la bara è diversa, nota. Non è compatta. La bara è scoperta. Ancor più terrorizzato, fa cadere il corpo sopra la poltrona. Se vedesse ancora, morirebbe.

Polonia è rinato, come un angelo, come un demone. Il terrore per una punizione è sempre più vivo in lui. I demoni sono molto vendicativi. Si stringe le braccia attorno al proprio corpo, tenta di calmare i tremiti, invano. Il cuore ha ancora il terrore che lo percuote in lungo e in largo nelle viscere. Fa scorrere nei vasi sanguigni veleno ghiacciato. Una piccola parte di sé, bambina ed infantile, pensa di restare lì, nel suo studio, di rinchiudersi qui dentro e di aspettare che l’ira di Polonia si acquieti e che vada via. Smettono i tremiti. Questi pensieri li aveva quando era bambino ed i Tartari abusavano di lui e delle sue sorelle. Quando Inverno era incontrollabile. Quando gli zar lo obbligavano ad imparare a tagliare una gola nemica. Non può fare questi pensieri proprio ora. Non è più bambino. È russo e i russi sono uomini tenaci. Lo affronterà. Affronterà di persona quel demone e lo caccerà via.

Si alza dalla sedia, le gambe rigide come cemento armato. Apre il cassetto, la mano tremule, insensibile e goffa. Una vecchia pistola, carica di colpi, per le emergenze. Spera che non gli sarà utile, spera che se dovrà usarla potrà essere dannosa per un demone. La infila dentro la giubba, vicina allo spacco, per afferrarla in fretta in caso di bisogno. Ogni cellula del suo corpo implora di non muoversi, di scappare. Parte di sé, terrorizzata, ma orgogliosa, russa e leale, risponde che ha altro a cui pensare. Si chiede se Polonia sia abbastanza vendicativo da non colpirlo direttamente. Pensa che possa fare peggio che un semplice ritorno, iroso e sprezzante. Pensa a Lituania. Non crede che potrebbe mai lanciargli un’altra maledizione. I polacchi non sono così feroci da spezzare la vita dei propri amici solo per una rivincita. Pensa a Lettonia e ad Estonia. Spera che non li consideri nemmeno. Pensa a Katja e a Natalya. Ha paura, ha paura che possa toccarle. Le gambe, a malincuore, guidate da un sentimento di timore, di fratellanza, di orgoglio, camminano lungo il corridoio, fuori dallo studio. La finestra è ancora aperta. Russia scappa da essa, teme di mostrarle le spalle.

Dovesse mettersi contro l’intero Inferno, nessun demone potrà mai entrare a casa sua e maledire una delle sue sorelle. Nemmeno uno dei suoi figli.

 

 

 

 

 

 

Estonia l’ha fatto apposta. Si è coricato al centro del letto di proposito. Si è stretto alla schiena di Lituania apposta. Ha tenuto gli occhi aperti e ha sentito i respiri irregolari del fratello fino, ad ora, di proposito. Il posto di Lituania è già freddo, anche se è andato via solo da pochi minuti. Il cuore inizia già a battere forte, la gola secca. Vuole un bicchiere d’acqua, vuole anche le ossa calde del fratello vicino a lui. Lettonia, anche se non troppo lontano da lui, è freddo come una tavola. È anche troppo piccolo per dargli calore. Deglutisce a fatica, l’estone. Il cuore continua ancora a battere forte. Gli sale un’insana paura del buio. Le stelle sul vetro del pendolo sono troppo piccole per dargli sicurezza. Ha brividi di freddo, sente il corpo scuotersi contro di essi.

Chiude solo per un attimo gli occhi e il pendolo minaccia ancora con le sue lancette: mezzanotte meno un quarto. Non è così tanto miope da non riuscire a vedere l’orario. Estonia si sente piccolo ed indifeso, d’un tratto. Il cuore pretende più sangue ed ossigeno di quanto dovrebbe averne, affaticato eccessivamente per lo sforzo. Pompa ossigeno nel sangue, troppo spossato e stanco. Estonia si sente in trappola, esagerata è la sensazione di star per essere schiacciato da un titano invisibile. Teme quasi che la stanza prenda vita e lo pressi contro il letto, la scrivania, il pendolo e il cassetto. Ha paura di cose impossibili, Estonia. Vorrebbe dormire, ma non ci riesce. Lituania è solo andato a prendere un bicchiere d’acqua, cerca di calmarsi, di ripetere fra sé e sé qualcosa che, spera, sia vero. Crede con tutto il cuore che sia qualcosa di vero. Vorrebbe addormentarsi, prova a chiudere gli occhi. Il cuore gli fa troppo male nel petto. Il dolore può tener sveglio anche un moribondo, per questo Estonia non riesce a dormire. Teme che le ombre della stanza lo accoltellino, tanto si avvicinano, tanto la sua vista sta sfumando.

Un altro oscillamento del pendolo: mezzanotte meno cinque. Lituania non è andato a prendere un bicchiere d’acqua, ringhia il suo subconscio, più razionale e maligno. Il ragazzo lo sopprime, preoccupato. Si chiede perché il fratello non torni, si chiede che cosa stia facendo in tutto questo tempo. La cucina non è molto lontana dalla loro stanza, non serve nemmeno un minuto per arrivarci e tornare indietro, anche con borse o piatti in mano. Estonia ha un treno furioso nel petto, sbuffa e rende liquido il reale cuore, tanto è bollente, tanto sputa calore e fiamme. Deglutisce ancora, senza saliva. Ha una sete del diavolo. Pensa di alzarsi anche lui e di andare in cucina. È un pensiero troppo breve e trascurabile per essere anche solo ascoltato. Il braccio scivola sotto la coperta, il posto dove prima dormiva suo fratello. È ghiacciato. Il cuscino è tornato com’era prima, senza segni di testa, rotondo e pasciuto. Il cuore sta per esplodere. E’ caldo, le vene protestano per il fumo del treno. Non riuscirà a trattenere tutto questo a lungo.

Mezzanotte. Aspetta ancora, preoccupato.

Mezzanotte e cinque. Gli occhi sono fissi sulle lancette. Cercano di costringerle a non muoversi. Non devono muoversi. Non devono nemmeno poter esistere. Un granello di rabbia e frustrazione entra nell’orecchio del ragazzo, cattivo.

Mezzanotte e dieci. Il granello viene sputato fuori dal cervello di Estonia. Niente cibo per lui, niente divertimento. La mente del biondo è accaldata, molliccia, sussultante. Non vuole più essere tremolante. Ha paura. Cuore in fiamme. Lieve presagio di morte. Una lieve paura per suo fratello.

Mezzanotte ed un quarto. Con uno sforzo enorme non permette agli occhi di lacrimare: Lituania non tornerà più. È passato troppo tempo. Estonia non ha rabbia, non ha il coraggio di provarla. Bestemmia una parte del suo cervello a Russia per aver riportato alla luce il corpo di Polonia, piccola carogna. Non avrebbe dovuto. Sapeva che fosse una pessima idea. Sapeva che sarebbe riaccaduto. Lituania era strano per tutto il giorno. Non parlava, non mangiava, i suoi occhi parevano malati. Non riesce nemmeno a dare la piena colpa al generale bianco: lui stesso avrebbe potuto dire di no. Dire che non voleva quel cadavere vicino casa loro, dire che il progetto nella sua mente sarebbe di sicuro andato in fallo. Lituania non avrebbe dovuto vedere mai più Polonia. Non dopo tutto quello che hanno passato. Non dopo che Lituania si è trasformato in qualcun altro. Non dopo che la serenità stava tornando nelle coscienze di ognuno di loro. Il cuore fa troppo male. Maledice Polonia e il suo paese, prova rancore per lui. Poco, ma è comunque rancore.

Mezzanotte e venti, Lituania ancora non c’è. Il cuore e la mano sono veloci: uno pompa più forte il gas del treno nelle vene, l’altro strappa la coperta di dosso al ragazzo. Il calore nella carne è tanto da non riuscire a sentire più freddo. Suda, Estonia, ma non ha il tempo per asciugarsi la fronte. Scende dal letto. Rapidamente, con troppa velocità, si infila le scarpe. Si rifiuta di allacciarle, non ha tempo. Si alza, svelto, le molle del materasso protestano per la fatica compiuta. Una presenza ghiacciata, alle sue spalle, familiare nel vento d’inverno e la neve, gli urla di fare più veloce. Gli occhiali sono già sul suo naso. I piedi dimenticano di essere silenziosi. La porta è già aperta, dev’essere solo oltrepassata.

“Estonia?” non si blocca niente nel corpo del ragazzo. Non si smuove nulla, né ha un colpo al cuore o nell’animo. Anche la presenza alle sue spalle è indifferente alla voce di bambino. Probabilmente si aspettava che Lettonia, anche se immobile, lo vedesse “Lituania non è ancora tornato?” questo lo blocca. Questo è un colpo. Lo spettro dei ghiacci è paralizzato per i ricordi, per gli alberi scuri, per i fiocchi di neve. Il ragazzino è un’ombra scura nel lettone dei tre fratelli. Sa che lo sta guardando, sa che è preoccupato anch’egli. Sa che Estonia è troppo razionale e preciso per dargli una risposta diversa dalla verità. Ma al piccolo non dispiace, in fondo non è più un bambino. Non vuole e non deve vivere in una favola. Con una silenziosa affermazione, Lettonia scende dal letto, scattante, senza tremiti. Strappa dal cassettone due coperte e se le poggia sulle spalle. Ha freddo. Ne passa una ad Estonia. La rifiuta gentilmente: ha troppo caldo, il sudore cola dalla sua tempia. Corrono nel corridoio, sanno già dove andare, sanno già che demoni affrontare.

Il fantasma congelato, alle spalle dell’estone, calmo ma preoccupato, urla di muovere le gambe.

 

 

 

 

 

 

Le rose piangono, protestano, pregano per avere pietà e misericordia.

Lituania non ne ha alcuna. Ne strappa ognuna, nemmeno una di loro deve toccare né baciare il suo principe. Ne afferra una, bianca e candida, la getta iracondo contro la fredda terra. La rosa, piccola e disperata, piange in silenzio. Nemmeno ha abbracciato il suo amato che già glielo strappano dalle mani. Una rosa rossa, stretta alla mano del principe, più tenace e vogliosa del ragazzo, si stringe con più forza, quasi aggressiva, alle dita bianche. Guarda, disgusta, lacrime tra i petali verso lo svelto ed insensibile cavaliere. Usa più forza nella stretta. Anche le sue spine si stringono, selvagge, attorno al fianco del ragazzo biondo. Una dama non tradirebbe mai il suo amore. Lituania, ancora indifferente, l’afferra e la scaraventa lontano. Casualmente, cade vicina alla sua sorella bianca, sconfitta e piangente. Straziata e lacrimosa. Piange anche la rossa: entrambe sconfitte, entrambe morranno. Lo stesso destino è delle loro sorelle e cugine. Tutte strappate, tutte scaraventate, tutte calpestate e distrutte dal cavaliere. Nessuna dama deve toccarlo, nessuna rosa deve stringerlo a sé. È solo suo. È cavaliere, e un cavaliere mai abbandona il suo principe.

Le rose, chi abbandonata nel giaciglio ormai distrutto, chi gettata e sporca di terra, chi calpestata, piangono e si disperano: hanno perso il loro amato. Sanno che mai più il cavaliere di ghiaccio non glielo ridarà più indietro, troppo crudele ed egoista. Lo vedono rialzarsi, rapire e portare via il loro amato, leggero come un angelo. Piangono ancora, affrante.

Lituania, voltato, scappa dietro l’angolo della casa, ancora nel giardino, passetti infantili lontani dalla finestra di Russia. Svolta, vede ciò che cerca. Il seminterrato ha una seconda entrata, sempre aperta e disponibile. Lituania ci si infila dentro, col corpo stretto a sé, tiepido ed ossuto. Entrato, cuore in gola, posa la carcassa bianca sul tavolo, dove ieri lo ha visto per la prima volta dopo tanti anni. Niente luce: meno vede, meglio è. Non vuole vedere le cuciture del ragazzo. Troppo dolore gli farebbero, troppo sale avrebbe negli occhi. La sua mente non riesce a prendere più particolari, troppo svelta e sussultante. Un cavaliere non dovrebbe tremare, anche se il suo principe sta dormendo. Prende fiato, non ne ha avuto alcuno in quella pazza corsa. I piedi sono pietra congelata. Si maledice per non aver indossato delle scarpe. Sente ancora della terra sotto le unghie. Non vede la pelle di Polonia, nemmeno sa se l’ha sporcato con le sue mani sudice di fango. È certo che non l’abbia fatto. Le ha pulite, ne è certo. Il corpo è scosso da brividi, il cuore sbatte forte contro le costole. Distratto, pauroso, timoroso di una menzogna dei suoi occhi, poggia con troppa forza l’orecchio sul petto del suo principe. Si concentrata. Trattiene il fiato corto per farlo. Lo sente. Sente ciò che aveva visto. Il cuoricino debole del polacco batte irregolare, giusto quel che il sangue riesce a portare nelle vene. Sente il respiro del petto sui lobi delle orecchie. Si alza e si abbassa, poco sicuro di ciò che sta facendo, più timoroso di lui stesso. Non sa molte cose il corpicino fragile di Polonia. Non sa perché, dopo tanti anni, debba ritornare a muoversi. Sa solo che glielo è stato imposto da qualcosa di più grande. E, purtroppo, non può mancare ad un ordine del genere.

Lituania stacca, calmo, lento, l’orecchio dal petto. Le stelle non toccano e non riescono a raggiungere le loro figure. Non tentano nemmeno: troppo lontani, troppo sprofondati nell’oscurità della camera. Lituania non vuole ancora della luce. Non vuole che la sua felicità muoia. Ha fatto un buon sacrificio, anche se pesante e pericoloso. Non potrebbe più riportare il corpo nella bara, tra le rose, sotto la terra. Ha fatto troppo, ha bruciato tutti gli anni di fatica e rammendi nel suo cuore strappato. Ogni cicatrice, rattoppata in quegli anni, si riapre. Il sangue e la gioia lo affogano. Non sente più aria nei polmoni. Non vorrebbe mai e poi mai respirare più se debba per forza sentire tutto questo dolore, strazio e felicità nelle sue vene. Griderebbe, piangerebbe e sorriderebbe tutto in una sola volta. Si darebbe in fiamme, verrebbe dannato dal Signore, ma sorriderebbe comunque. Non riesce a ricucire la maschera di cavaliere che ha indossato per tutti quei mesi. Non potrebbe farlo mai più. Non vorrebbe farlo mai più. Non vuole nemmeno chiedersi come sia possibile. È un miracolo. È semplicemente un miracolo. Gli uomini non possono comprendere le scelte di Dio e mai sapranno le sue reali intenzioni o piani. Tanto meglio solo gioire e basta. Gli basterebbe solo questo. Passa le dita fra i capelli del suo principe. Sono un po’ più morbidi, crede. Spera di si, spera che non sia solo un’impressione. Sarebbe al settimo cielo solo per questo.

La luce s’irradia nella stanza. Lituania sobbalza, non ha acceso nessuna luce. Si volta, senza emozioni, morte per la sorpresa. Le scale sono ancora aperte, la botola ancora spalancata. La luce tenue dovrebbe rilassarlo, tenta di rilassarlo. Inutile. Ancora occhi sbarrati e seriosi, gola bloccata. Cerca la maschera di cavaliere. La cerca in ogni angolo del suo subconscio, ma invano. L’ha persa. L’ha lasciata sul petto, sul cuoricino debole di Polonia. Non potrebbe nemmeno voltarsi per indossarla. Non potrebbe fare nulla. Anche il suo corpo non riesce a muoversi, paralizzato in una maledizione, forse quella che l’ha accompagnato per tutto il giorno. Ha freddo, si sente congelato in ogni osso, muscolo e articolazione. Gli occhi sbigottiti di Estonia pesano su di lui. Un macigno maledettamente pesante. La confusione di Lettonia è altrettanto straziante.

“Lituania, che stai facendo?” il sussurro di Estonia gli pare quasi un urlo iracondo. Lituania, d’istinto, si porta le mani, sporche di terra, dietro la schiena. Inutilmente teme che le possano vedere. E’ terrorizzato dagli occhi di Lettonia che, incuriositi e tristi, le notano. Come se, invece che terra, ci sia sangue scarlatto e bollente sulle falangi e sotto le unghie. Come se, invece di un salvataggio, abbia appena commesso un omicidio. Come se il corpo di Polonia, appena riavuto indietro dalla terra, si sia coperto di liquido scarlatto. E lui, piuttosto che essere nuovamente felice per questa scoperta miracolosa, sia incredulo per essere stato scoperto nel suo delitto. Si vergogna, Lituania, come un ladro trovato, disperato, a rubare nella casa di due poveri bambini. La vergogna è così forte che lo fa paralizzare nel silenzio della stanza. Solo il suo cuore sente in questo momento di stasi. Ha paura, Lituania. Ricorda di aver sacrificato i suoi fratelli per il corpo quasi morto di Polonia. Continua a guardarli, ma i loro occhi non fanno abbassare il suo sguardo. Dopotutto, Lituania non è un assassino, né un ladro, né un disperato. Estonia deglutisce, più terrorizzato che furioso. Non sa nemmeno bene cosa provi.

“M-Ma cos’hai fatto?!” la gola dell’estone ha tentato di aprirsi, ma è ancora bloccata, ingabbiata nell’agitazione. Sente troppa energia nel suo corpo. Potrebbe correre fuori, al buio, per tutta la notte senza sentire nemmeno un briciolo di fatica. Dei granelli di terrore ed ira, mischiati insieme, vengono iniettati nella sua carne. Il cervello è troppo scosso per fare o dire qualcosa di sensato. Lettonia, incredulo, non dice nulla. Ha occhi solo su Polonia, quasi dimenticato sopra al tavolo. Per un attimo invidia quella carcassa morta: non c’entra niente nella confusione che avverrà. Perché sa, il piccolo Lettonia, che Estonia e Lituania hanno anime troppo diverse per comprendersi pienamente.

Estonia ha le mani tremanti, non sanno se intrecciarsi nei capelli o scagliare uno schiaffo sul fratello. Lituania ricorda il suo compito. Lituania ricorda di essere cavaliere. Ricorda il miracolo. Sente la carne scongelarsi dalla paralisi, il respiro ritornare calmo e gli occhi riprendere la pace. Non deve aver paura del dovere che gli è stato assegnato secoli e secoli prima. Lo sta semplicemente eseguendo. Lituania, cavaliere, sta proteggendo e salvando il suo principe, Polonia. È tutto normale, è tutto naturale. Non sta facendo niente di male. Ma Estonia non capisce. Vede la tranquillità di Lituania e la interpreta male. Lituania comprende che il fratello stia fraintendendo. Cerca la maschera di cavaliere. Si rende conto di averla distrutta, strappata e forse anche bruciata in parte. Non potrebbe mai indossarla, non ne sarebbe in grado. La getta. Non è più cavaliere. Lituania prende un profondo respiro, la calma lo stringe fin dentro le ossa, il cuore fermo. Sorride, pensa che così possa confortarlo.

“Estonia, sta’ calmo” la sua voce esce fuori dalle labbra, amorevole “Va tutto bene. Tutto bene…” involontariamente allarga di più il sorriso, il cuore ancor più grande e sereno. Alza le palme verso suo fratello. Vorrebbe poggiare le mani, ora pulite, sulle sue spalle. Forse stringerlo a sé per tranquillizzarlo, per non farlo tremare così tanto ed inutilmente. Estonia comprende cosa vuole fare. Indietreggia oltraggiato e ancora tremante negli occhi e nella carne. Guarda le dita di Lituania come se fossero dei coltelli seghettati, avventati su di sé in un falso abbraccio. Il cuore è travagliato da mille emozioni, nessuna benigna. Stringe i pugni, pulsanti e deboli, contro i suoi fianchi. Non vuole arrabbiarsi e picchiarlo, non vuole fare lo stesso errore che fece anni fa. Non vuole che tutto torni com’era prima. Estonia interpreta ancora male il sorriso di Lituania. Lituania è sotto la betulla, grigio e calmo. Estonia ha il sangue di suo fratello sulle nocche. Lituania, sdraiato, ha tagli sulle braccia. Lituania è sereno, senza di loro. Non vuole che ricapiti di nuovo tutto questo. Ma ugualmente non riesce a frenare l’orrore per ciò che sta vedendo. Ha paura di suo fratello e del suo sorriso. È troppo calmo. È troppo familiare e pericoloso.

“M-Ma stai scherzando?! Col diavolo che sto calmo!” trema, balbetta la voce, troppo provata. Non vuole che Lituania si avvicini così tanto a lui. Il moro comprende di star sbagliando approccio. Ferma i passi. Estonia tentenna ancora, anche se fermo. Guarda Lituania come se fosse macchiato di sangue. Lettonia, più triste che offeso, lentamente scivola lontano da loro “Ch-Che cos’hai fatto!?” indica il cadavere sfiorato dalla luce tenue. Anche il suo dito trema, anche il suo braccio traballa per la paura. Gli occhi rilassati e tranquilli del fratello lo rendono più nervoso che mai “R-Rimettilo dov’era prima! Riportalo al suo posto, per Dio!” la voce dell’occhialuto è più forte, meno tentennante. Non è aggressiva, ma è qualcosa di simile. Sia Lettonia che Lituania la odono come un urlo affogato nell’ira. È tremule, è patetica, è terrorizzata e preda dell’incredulità, la voce di Estonia. Ma perché la trattiene. Perché la paura di alzare una mano sul fratello la teme molto più del nuovo sorriso dolce di Lituania. Estonia si sente più in trappola che mai. E la sensazione di aver già visto o solo immaginato nei suoi incubi quel che sta vivendo ora è troppo angosciante.

“Estonia, ascoltami…”

“No, tu ascolti me!” questo era un urlo, senza ira, ma era comunque un urlo “Ma che hai fatto!? Questo…! Oh, Dio mio…” mormora, angosciato nel profondo. Lituania sente il panico, vivo e forte, dentro il fratello. Vede i suoi occhi umidi e vorrebbe spiegarsi. Ma Estonia ha paura ed è anche arrabbiato. Vorrebbe mostrargli il miracolo e farlo gioire così come lui lo è ora. Non riesce assolutamente a smettere di sorridere. Vorrebbe che quel che ha fatto non sia un sacrificio. Pensa e crede che non abbia abbandonato i suoi fratelli per la vita di Polonia. Vorrebbe avere tutti e tre vicini al suo cuore. Sarebbe ancora più felice se fosse possibile. Ma Estonia continua a maledirlo, a tremare, ad urlargli. Lituania apre bocca, escono poche parole, pochi sussurri calmi e sereni. Estonia li interrompe subito e continua a lamentarsi. Vorrebbe, una parte di sé, crudele ed iraconda, che Lituania non sia così sereno e che possa almeno vergognarsi di ciò che ha fatto. Sarebbe una piccola e sana sicurezza. Non vedrebbe suo fratello così come lo sta vedendo ora. Non sentirebbe il suo cuore così maledettamente ansioso e rabbioso fin all’interno delle vene e delle arterie. Vorrebbe che Polonia sia rimasto dentro la casetta e che non sia mai ritornato qui, nella loro nuova casa. Lituania vorrebbe parlare, ma Estonia non glielo concede.

Lettonia, tra urla e i sorrisi tranquilli, ha trascinato i suoi passi dall’altro capo della tavola, dove Polonia è disteso, freddo ed indifferente a ciò che sta accadendo in questa stanza. E’ deluso, confuso e triste per ciò che sta succedendo ora. Si chiede chi abbia sbagliato tra lui, Estonia e Russia. Pensa che il suo padrone sia diventato troppo buono e dolce per aver fatto qualcosa di sbagliato. Non gli dà colpa per la sua idea. Anche lui, al posto di Russia, l’avrebbe applicata, in ogni caso. Estonia non ha errato. Non ha alzato né mani né voce. Non ha mai urlato, commentato o mostrato la sua collera su Lituania. Lettonia sa che il rancore di suo fratello non si è mai spento negli anni. Ha sempre odiato Polonia e l’estone è troppo testardo per cambiare idea sul polacco. Quindi immagina che lui stesso abbia sbagliato qualcosa. Forse ha detto qualcosa di inopportuno com’era suo solito e non si è mai reso conto di quel che hanno pronunciato le sue labbra. Pensa che probabilmente sia così, perché il coraggio l’ha guadagnato ed è certo che ne abbia accumulato molto in questi anni. Dev’essere quindi stato lui la causa. Lui deve aver fatto qualcosa di sbagliato.

Estonia urla, l’angoscia è più forte. Lituania si avvicina, cerca di calmarlo. Il biondo scrolla le mani del fratello dalle spalle. Vorrebbe fare di peggio a Lituania, nota il più piccolo dei Baltici. Ma non ci riesce. L’ira è troppo quietata dal terrore per poter alzare anche solo un dito. Estonia ha ancora panico nel cuore e vorrebbe solo che Lituania sia lontano da lui. Il maggiore non riesce ancora a spiegarsi e non riesce a tranquillizzare il biondo per far chiarire il suo gesto. Lettonia ha occhi bassi e scuri, non riesce a pensare a nient’altro, disgustato di sé stesso, di nuovo. Sospira, lo sguardo basso, sul corpo di Polonia. Tra le urla di suo fratello pensa che sia molto più riconoscibile e guardabile di come ricordava. Estonia e Russia devono aver fatto un buon lavoro. Lui, invece, è rimasto scioccato solo nel vedere il cadavere. Sospira, ancor più deluso. Per un attimo invidia il corpo: non deve sentire il suo cuore, lento, e questo chiasso di voci. Si chiede come potrebbero mai fare pace Lituania ed Estonia dopo questa notte. Si chiede che reazione avrà Russia nel rivedere il cadavere nello scantinato. Nulla ritornerà mai più com’era prima, si risponde.

Lituania pare aver capito di non dover più avvicinarsi ad Estonia. Indietreggia lentamente, fa tirare un sospiro di sollievo al minore, tremiti di terrore hanno le gambe. Appena le labbra del moro si schiudono, l’occhialuto continua ad urlare. Non riesce ancora ad aprire bocca, il maggiore. Il desiderio di spiegare il miracolo è sempre più forte, ma si rende conto che Estonia non voglia conoscerlo. Non ancora, almeno. Lettonia ha ancora occhi bassi su Polonia. Lo osserva da molto, senza rendersene realmente conto. Non sa nemmeno quanto tempo sia passato da quando sono entrati qui, lui ed Estonia. Spera poco tempo, spera che il fratello la smetta di urlare. Le orecchie iniziano a fargli male. Si stringe ancor di più nelle coperte che ha addosso. Fa anche molto freddo. E’ anche molto vicino al cadavere. Ora non lo meraviglia più il suo aspetto, anche se ancora distrutto dalla terra e dalle ferite. Altre urla, Estonia non riesce ancora a calmarsi.

Il petto del cadavere si alza, veloce, un profondo respiro. Il piccolo Lettonia, istintivamente fa un balzo all’indietro, spaventato. Il cuoricino del ragazzino batte forte, sussulta per la sorpresa. Sente le gambe tremare, le spalle congelate, anche se coperte. Questo non se l’è immaginato. Non può averlo immaginato. Le orecchie diventano sorde, anche se gli schiamazzi continuano a far eco nella stanza. Nessuno si è accorto del sobbalzo del piccolo. Gli occhi, troppo tempo spalancati, diventano biglie di vetro per il freddo. Non riesce a chiedersi nemmeno cosa sia successo o come sia accaduto che il corpo, mite, lo rifà. Un secondo sospiro, forse ancor più profondo, riempie i polmoni rotti del corpo di Polonia. Con altrettanta calma, il petto si riabbassa. Lettonia ha paura di avvicinarsi a quel tavolo. Il corpo debole del ragazzino trema ancora. Il cadavere trasporta altra aria nei polmoni, la rilascia ancora.

“Estonia, ti prego, ascoltami! Fammi spiegare!”

“Va bene, fallo!”

“E’ accaduto un miracolo, Estonia. Ti giuro che è così!”

“Ma che diavolo stai dicendo?!”

“Ti dico che Polonia è vivo! Respira ancora! Non guardarmi così, Estonia, credimi! È la verità! Tu mi conosci bene, sai che dico la verità!”

“Tu sei pazzo, Lituania. Sei pazzo! Sei maledettamente pazzo!”

“No, è vero…” quattro paia di occhi, entrambi blu, si voltano verso il più piccolo dei tre Baltici. Lettonia, ancora tremante, ancora infreddolito, ancora pauroso di quel che ha appena visto, annuisce ai due. La luce della lampada, tenue, quasi arancione, fa brillare i capelli del ragazzino di un biondo lucente. Gli occhi del piccolo sussultano, il capo annuisce più volte al fratello incredulo “Guarda…” continua, singhiozza il lettone. Portano tutti lo sguardo sul corpo bianco del polacco. Aspettano, attendono insieme qualcosa. Accade quel che ha visto Lettonia. Polonia respira, il petto si rialza ancora una volta. E un’altra volta. Lituania, eccitato, sorride. Lettonia, anche se ha già visto il respiro del corpo, fa un altro passo all’indietro timoroso e sussultante. Estonia ha occhi piccoli come spilli.

Avanza, coraggioso, fino al tavolo. Il cadavere non ha mutato espressione, tranquillo e sereno. Estonia vede ancora un altro respiro. La stoffa nivea della veste si smuove a questi profondi respiri. Anche la gola sottile e ricucita s’ingrossa leggermente, permette all’aria di fluire all’interno della trachea. Estonia non ha mutato l’espressione ansiosa, gli occhi scossi. Ha comunque un dubbio. Ha comunque desiderio di essere certo di ciò che sta vedendo. D’istinto poggia le mani sul petto, le porta ad ogni angolo della maglia. Ricorda di non avere tasche, ricorda di essere solo in pigiama. Schiocca le labbra, leggermente irritato. Ha un’idea: si sfila gli occhiali, li poggia sotto al naso del corpo. Il cadavere ha fatto un altro respiro profondo, ora caccia via dal naso l’aria. Il respiro bollente tocca le lenti degli occhiali di Estonia. Si poggia sul vetro, lo appanna del tutto. Il corpo respira ancora, caccia altra aria, gli occhiali si velano di nuovo. Respira, quel corpo morto da anni respira. Estonia sente la testa girare, troppe emozioni.

“Visto che non sono pazzo?” i due fratelli più piccoli, guardinghi voltano le teste verso il maggiore. Lituania sorride, felice di essere stato compreso. Chiude le palpebre, riesce a contenere la felicità. Alla fine non ha sacrificato nessuno, ha solo guadagnato una vita in più, un cuore in più, un’altra anima da amare “Estonia, Lettonia, il Cielo finalmente mi ha ascoltato!” esclama, palpebre ancora abbassate, perle bianche e lucenti tra i denti. Lettonia smette di tremare, il cuore si quieta, le iridi si tranquillizzano, anche se ancora scosso. Estonia trema, la pelle pallida, gli occhi agitati sbattono in ogni angolo della stanza, anche se tornato calmo. Non del tutto, ma si sente calmo.

Il sorriso che vedono sul volto di Lituania non è quello che hanno visto nella foresta bianca, vicino alla pozza di sangue bollente.

 

 

  
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