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Autore: Thiliol    19/03/2016    1 recensioni
Galmoth non ha più nulla, nè onore, nè titolo, nè ricchezze, nulla se non la sua piccola nave da contrabbandiere e Laer, la figlia del suo migliore amico morto anni prima. Laer è giovane e ha la testardaggine di una ragazzina, ma non ha mai smesso di sognare i sogni di quando era bambina.
E poi c'è Silevril, il figlio di un amore morboso che vorrebbe solo andare per mare e che invece sconvolgerà le vite di entrambi.
Galmoth osservò con sguardo inquisitore l'elfo che gli stava di fronte:era nato e cresciuto a Dol Amroth e lì non era raro imbattersi nei Priminati e conoscerne anche qualcuno, ma quel Silevril aveva qualcosa di diverso, come un fuoco latente in lui. Non era come i Silvani che sempre più spesso salpavano da lì, diretti alle loro terre al di là del mare, riusciva a percepirlo chiaramente: riconosceva un elfo di alto lignaggio, quando lo vedeva.
< Dici che vuoi metterti al mio servizio? >
< Desidero solo il mare e la compagnia degli uomini, inoltre, la tua nave è meravigliosa. >
Galmoth rise, strofinandosi il mento sporco di barba non rasata.
< Sei un elfo ben strano, Silevril. >
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Narn o Alatariel ar Aeglos'
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I’ve killed a million pity souls

 

 

Non c’era luna quella sera e le strade di Minas Tirith erano buie e silenziose. Finrod Felagund sforzò la vista per poter distinguere i suoi compagni nelle tenebre: l’uomo, Galmoth, appariva nervoso, ma sembrava ben addestrato nel gestire la tensione, mentre Laer, nonostante l’indubbia capacità nel maneggiare i suoi piccoli pugnali affilati, dimostrava tutta la sua inesperienza. I suoi uomini, tre in tutto, erano naturalmente i migliori che Gondor avesse da offrire.

Conosceva bene quella casa, ricordava quando vi abitavano alcuni lontani parenti di Faramir, sovrintendente di Gondor ai tempi di Elessar. Vi si era recato egli stesso alcune volte, anni e anni prima, quando Eldarion era solo un ragazzo innamorato di una delle figlie di quel Signore e supplicava il suo amico e mentore di accompagnarlo. Non era mai riuscito a negare nulla a quel giovane, così simile a Beren da fargli male.

Adesso le luci erano spente, a eccezione di una flebile proveniente da una delle finestre al piano superiore.

La porta si aprì e con un cenno Finrod indicò ai suoi uomini di rimanere silenziosi. Silevril uscì, con le mani in tasca e i capelli spettinati sul viso, ma appena ebbe fatto pochi passi si fermò, all’erta, guardandosi intorno con circospezione, fino a fermare lo sguardo nel punto esatto in cui si trovavano nascosti.

Infine sorrise, leggermente sardonico, spostandosi una ciocca di capelli scuri dalla fronte.

< So che sei tu, mio signore Felagund! > disse con voce chiara, tanto che risuonò nella notte silenziosa.

Finrod ordinò cautamente agli altri di attendere e uscì dall’ombra, mostrandosi alla luce tenue di una lanterna pubblica.

< Ero ansioso di rivederti. >

Sembrava sprezzante, quasi impertinente, ma Finrod riusciva a sentire il nervosismo nella sua voce.

< Buonasera, Silevril. >

Si sentiva a sua volta imbarazzato. Non sapeva cosa dirgli. Voleva abbracciarlo, ma non ne aveva il coraggio.

Silevril lo stava guardando, in attesa, ed era impossibile dire cosa gli stesse passando per la testa, cosa stesse pensando… in quel momento assomigliava a sua madre in modo così vivido che Finrod si sentì pervadere dalla frustrazione. La voce gli uscì dura e forse sgarbata.

< Devi venire con me. >

< Perché? >

Nella sua domanda c’era una paura indefinita. Non riusciva a capire che effetto avesse su di lui, non riusciva a capire nemmeno se fosse effettivamente il ragazzo che aveva conosciuto poco prima. L’immagine del neonato che era stato un tempo, indifeso eppure in un certo senso più consapevole di qualunque altro bambino avesse mai visto, gli affiorò prepotentemente alla memoria.

Ricordava di averlo preso tra le braccia, ancora viscido di sangue, paonazzo e piangente, mentre sua madre si chiudeva in un mutismo spettrale.

Che cosa c’era nella sua mente allora? Che cosa c’era adesso?

Deglutì, anche se non aveva più saliva.

< Se non verrai con me di tua iniziativa, sarò costretto ad arrestarti. >

Sembrò considerare la cosa. Appariva spaventato, giovane e solo, con i capelli sul viso.

< Rùth lo aveva previsto > disse quasi a se stesso.

Finrod tacque, non sapendo cosa dire. Sentiva le tre guardie ancora nascoste dietro quel muro che lo stavano fissando, pronte a scattare al suo minimo cenno. Sentiva i pensieri confusi dell’uomo, Galmoth, come se glie li stesse sussurrando all’orecchio e non facevano che acuire il suo disagio.

Quello che aveva davanti non era Silevril, ma allo stesso tempo sembrava se stesso forse per la prima volta.

Un rumore improvviso lo fece quasi sobbalzare. Si voltò e vide Laer che era avanzata verso di loro.

Aveva ancora l’abito verde che indossava da quella mattina e sembrava quasi una principessa delle fiabe, con la treccia ramata, le lentiggini sul viso e tutto il resto. Ma portava una cintura e due pugnali erano nei foderi legati ad essa.

Silevril la guardava ad occhi spalancati, esterrefatto e affascinato.

< Laer? >

La sua voce appariva ora del tutto diversa, forse più roca, forse più adulta di prima.

< Che ti è successo, eh, elfo? Sembri un maledetto fantasma! >

Laer parlava con noncuranza, facendosi avanti. Finrod avrebbe voluto spingerla via, proteggerla, ma si trattenne perché Silevril reagiva a lei come non aveva reagito a nient’altro.

 < Dai, vieni con noi, parliamo. > La ragazza indicò il ciondolo al collo dell’elfo, che Finrod non aveva notato. < Quello è il motivo di tutta questa storia? Carino, ma non so se vale la tua anima, che ne dici? >

Silevril si voltò verso la casa, improvvisamente inquieto.

< Zitta! > sibilò, abbassando la voce.

< Silevril! > lo chiamò Finrod, con voce imperiosa.

Non poteva più attendere oltre, rimanere lì era troppo pericoloso, almeno finché non avesse capito con chi aveva a che fare.

Percepiva chiaramente un grande potere nascosto in quella casa, e soprattutto sentiva quello contenuto nella gemma attorno al collo di Silevril come un’onda scatenata dall’essere stata indicata.

Gli si avvicinò e lo afferrò per un braccio e lui si fece incredibilmente condurre via, seguito da Galmoth e dalle guardie.

Attraversarono una serie di vicoli poco illuminati e poi andarono su, verso la Cittadella. Alla porta che immetteva al sesto livello si fermarono e Finrod congedò le guardie. Rimasero solo loro quattro e silenziosamente, sempre tenendo fermamente la mano di Silevril, si diressero verso casa sua.

Quando entrarono, lo lasciò e accese tutte le luci del piccolo atrio che gli faceva da ingresso.

Galmoth e Laer stavano guardando Silevril, ma Silevril non guardava  nessuno in particolare, sorrideva appena giocherellando con una ciocca di capelli, arrotolandola attorno a un dito per poi lasciarla andare e ricominciare daccapo.

< Silevril > lo chiamò con fermezza e quello si voltò finalmente a guardarlo, < parlaci di Rùth. >

 

 

Rivedere Silevril era stato piuttosto strano, sembravano passati anni, e invece erano solo pochi giorni. L’elfo sembrava smarrito a tratti, come se non capisse bene cosa Finrod gli stesse dicendo, come se stesse cercando di ritrovare il segno in una conversazione di cui ci si è persi un pezzo.

Ma Laer non riusciva a staccargli gli occhi di dosso e si sentiva una perfetta idiota a pensare a quanto fosse perfetto con i capelli scuri scarmigliati e gli occhi chiari che sembravano liquidi.

Galmoth sicuramente doveva sapere cosa stava pensando, perché la guardava con un’aria un po’ stranita che le fece venire una nostalgia acuta di loro due e del rapporto che avevano perso.

Ma non era il momento ora.

Finrod stava parlando e lei cercò di concentrarsi sulle sue parole.

< C’è grande potere in lei, posso sentirlo anche a distanza, > stava dicendo.

< Perché parli di qualcosa che non conosci?  > scattò Silevril.

< Non capisci? Il suo incantesimo su di te ti rende cieco e sordo! Sei succube della sua magia! >

Silevril sembrava offeso. Si voltò verso Galmoth, con un sorrisetto ironico.

< Sei geloso, Galmoth? Perché lei ha voluto me e non te? Ho visto come la guardavi, sentivo il tuo desiderio. Tu volevi lei, volevi possederla lì al momento e non ti importava che io fossi presente. Sto forse sbagliando? >

Galmoth era a disagio.

< No. No, non sbagli… ma non era reale, nulla di ciò che stai provando lo è. >

< Dici così perché non sei stato con lei, ma io sì, io ho potuto assaggiare le sue labbra, toccare la sua pelle. Lei mi ha donato tutta se stessa e ha preso ogni cosa da me. >

Laer sbiancò e per un attimo la stanza si riempì di macchie nere che vorticavano nel suo campo visivo.

Silevril la guardò sorridendo crudelmente, quel tipo di sorriso che di solito usava per canzonarla e che aveva sempre trovato affascinante, ma che ora era soltanto orribile.

< Povera, piccola Laer! Fa finta di essere una grande guerriera, ma è solo una bambina. >

< Basta! >

Finrod parlò con una voce che non sembrava la sua, tanto era profonda. Silevril si zittì come se lo avesse schiaffeggiato e lo fissò negli occhi, il corpo che tremava come di freddo.

A Laer veniva da piangere, ma si trattenne. Sentì la mano di Galmoth nella sua e la strinse forte, aggrappandovisi come aveva fatto tante volte da bambina, quando quell’uomo forte era stato tutto il suo mondo.

Finrod andò incontro a Silevril e gli afferrò le spalle.

< Io… > Silevril balbettava < Io non lo so, mio signore, cosa mi è successo. Il desiderio di lei è indescrivibile, ma non trovo più me stesso tra le sue pieghe. Anche mia madre è perduta per sempre… >

I due elfi si guardarono in silenzio, intensamente.

Laer non riusciva a capire cosa intendesse dire Silevril, ma ne era ugualmente turbata. Si fidava di Finrod e la preoccupazione nei suoi occhi la metteva profondamente a disagio.

< Che dici del Tesoro di Ulmo?  >Interloquì Galmoth, spezzando quel contatto visivo prolungato.

Silevril sembrò accorgersi solo in quel momento della sua presenza e si portò una mano al collo.

< Non lo so, ma lei non ha potuto toccarlo. Ne era quasi spaventata, ha detto che solo io posso incanalarne il potere, ma non so cosa significhi. >

< Chi controlla il potere della gemma, può governare il Mare, così si dice a Dol Amroth, > disse Galmoth.

< Non il Mare soltanto, > rispose Silevril, < ma tutte le acque. Il Gioiello appartiene ad Uinen e Lei mi si è mostrata quando l’ho toccato. >

Finrod annuì, pensieroso.

<  Uinen è la Signora di tutti i Mari e di tutte le acque ed ama i Teleri più di chiunque altro. Per questo si è mostrata a te e per questo tu puoi usarne il potere. >

Laer non riuscì più a trattenersi.

< Perché stiamo qui a discutere? > sbottò < “Governare le acque” vuol dire tutto e niente, ma comunque non è affatto qualcosa che mi preme scoprire. Galmoth, prendi la Stella e torniamo a Dol Amroth, il Tesoro di Ulmo è proprietà del Principe e tu lo sai! >

< La Stella non è qui. >

< Come sarebbe a dire? >

< Ho ordinato a Forlond di andare verso Rauros e attendermi lì, ma se lo conosco bene a quest’ora se ne sarà tornato a Dol Amroth, o a Umbar, in cerca di merce da trasportare. >

Maledicendo mentalmente Forlond e i suoi metodi, Laer incrociò le braccia e lanciò uno sguardo storto verso Galmoth.

Non lo aveva ancora perdonato, ma era bello averlo lì e l’idea impulsiva di lasciarlo e andarsene le sembrava molto meno piacevole di quando l’aveva formulata.

< In ogni caso non è così semplice. Devo scoprire chi è questa Rùth e quali sono i suoi poteri. Con o senza la Gemma, la sua minaccia verso Gondor è ormai palese, inoltre Silevril è ancora sotto il suo incantesimo, qualsiasi esso sia. Non c’è che una sola soluzione. >

Tornò a rivolgersi a Silevril, lo sguardo improvvisamente triste.

< Amin hiraetha, mellonin, > disse piano, nella sua lingua.

E prima che Laer riuscisse anche solo a formulare un pensiero coerente, Finrod Felagund aveva estratto un pugnale.

 

 

Alatariel trasalì.

Non sapeva perché, ma aveva sentito qualcosa che l’aveva attraversata come un fulmine, facendole rizzare ogni pelo del corpo.

Si strinse maggiormente nel mantello e si calò ancora di più il cappuccio sul capo, tentando di ignorare lo sguardo insistente dell’uomo al timone.

Non le aveva tolto gli occhi di dosso per tutto il giorno e Aeglos si era dimostrato estremamente divertito per questo. Era infuriata, perché Aeglos sembrava avere ancora del buon umore, nonostante tutto, mentre lei non riusciva a trovare dell’ottimismo nel vortice di disperazione in cui era caduta.

Voleva credere a quello che si erano detti, voleva credere che il vuoto che le si era spalancato dentro non significasse nulla, ma dopo duecento anni si sentiva privata violentemente di una parte di sé fondamentale.

Si voltò appena quando Aeglos la raggiunse sul ponte. Sembrava a suo agio su quella nave, circondato da mortali, quando lei invece non riusciva a sopportarne la presenza, come se tutti loro non facessero altro che osservarla continuamente, giudicarla, chiedersi quanto ci avrebbe messo a crollare definitivamente. Tentava di mantenersi ferma, ma era al limite.

< Devi stare tranquilla, > disse Aeglos, con calma serafica.

Guardava Minas Tirith che si faceva sempre più vicina, puntellata di luci ancora accese nonostante l’alba imminente.

< Riesco a sentirlo, Alatariel, lo percepisco come se fosse fisicamente accanto a me, ora. >

< Vorrei davvero poterti credere. >

< Devi. >

< Il nostro legame è spezzato. >

Aeglos le prese il viso tra le mani, costringendola a guardarlo in faccia. Il suo sguardo era serio e intenso, la catturò, facendole dimenticare l’uomo che li stava guardando, il Rohirrim sotto coperta, il ragazzino che dormiva in un angolo del ponte, facendole dimenticare persino se stessa.

< Ascoltami attentamente: devi fidarti di me, fidarti che Silevril è vivo, che ha bisogno di noi. Non so cosa sia successo, ma qualcosa di oscuro è all’opera e solo non perdendo la speranza, noi e lui, questa cosa potrà essere sconfitta. Devi smetterla, Alatariel, smetterla di credere che ogni cosa nella vita sia sofferenza, smetterla di credere di non meritare nient’altro. >

La baciò, a lungo e profondamente, senza lasciarla. Era arrabbiato, lo percepiva chiaramente dall’irruenza del suo tocco, ma in qualche contorto modo la rabbia di Aeglos aveva sempre avuto il potere di calmarla. Era innamorata di quella rabbia, forse, più di qualsiasi altra parte di lui.

Se ne andò via, tornando sotto coperta, lasciandola sola con l’uomo bruno dallo sguardo persistente, intento a fumare la sua lunga pipa.

Minas Tirith era ormai ben visibile nella foschia che precede l’alba.

 

 

 

***

 

Eccomi eccomi eccomi! Con questo capitolo un po’ di transizione ci avviamo verso la parte finale di questa storia, quindi siate fiduciosi che ci arriviamo!

Il titolo è un verso di “Slept so long” dei Korn, canzone veramente meravigliosa, ascoltatela perché merita, noi ci vediamo al prossimo capitolo.

Lunga vita e prosperità,

Thiliol

   
 
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