Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Hermione Weasley    20/03/2016    1 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 26
~

 

 

 

Gli occhi sgranati di Natasha erano puntati dritti nei suoi.

I baluginii delle fiamme tutt'intorno le proiettavano luci bizzarre sul viso, facendolo apparire strano. Diverso dal solito.

Niente a che vedere con la creatura dell'inferno che aveva incontrato per la prima volta nella casa del guardiaboschi inghiottita dalle fiamme.

No, stavolta era un essere umano, una creatura terrestre. Le linee del suo volto significavano apprensione.

Gli sembrava di avere le orecchie piene di un rumore sordo e continuo che non pareva aver intenzione di fermarsi tanto presto, che non sembrava essere generato da niente in particolare. No, il rumore era dentro la sua testa e Natasha lo stava scuotendo.

Gli stava parlando. Ma Clint non riusciva a decifrare un bel niente di quello che stava dicendo. Non una parola le usciva di bocca, e allora perché continuava a muovere le labbra?

La terra tremò sotto di lui e la donna gli si fece maggiormente addosso. Sentì il calore della sue mani sul viso tiepido e umido di una sostanza che non riuscì ad identificare.

Natasha parlava e parlava.

La disperazione di non poter dar forma alle sue richieste gli si avvinghiò al petto in una morsa gelida, in netto contrasto col calore insopportabile che infuriava tutt'intorno.

Doveva capirla. Aveva bisogno di farlo.

Perché era agitata e impaurita e avrebbe fatto di tutto pur di farle capire che era tutto a posto, che sarebbe andato tutto bene.

Si sforzò di dire qualcosa, ma non sentì la sua voce e non fu più neanche sicuro di averla fatta uscire tanto per cominciare.

Gli occhi di Natasha, verdi e limpidi, lo rassicuravano, ma non potevano niente contro il silenzio che gli riempiva la testa. Che lo sprofondava sempre più a fondo in un mondo senza rumore, un inferno in cui l'unica voce che avrebbe sentito sarebbe stata quella dei suoi ricordi.

Il silenzio si tramutò in un sibilo e poi il mondo vacillò pericolosamente...

 

… si svegliò di soprassalto col cuore che gli batteva forte in petto e un fischio nelle orecchie. Il sudore gli impregnava la fronte, il collo, il petto. La consapevolezza di avere la febbre scese su di lui con sconcertante chiarezza, ma più che agitarlo lo tranquillizzò.

Era lucido. Febbricitante, ma lucido.

L'immagine degli occhi di Natasha era ancora nei suoi. Doveva aver sognato, ma non era del tutto certo che si fosse trattato solo di quello: di un evento inventato dal delirio notturno della sua mente.

“Clint?”

Per un attimo pensò che era stato l'uomo dell'affresco a parlare, perché era ancora lì, sopra la sua testa, proprio dove l'aveva lasciato. O almeno la figura pitturata lo era. Lui no. Qualcuno l'aveva sollevato dal tappeto e riadagiato sul letto senza che se ne accorgesse.

“Clint, come ti senti?”

La voce si ripeté e Clint dovette concentrarsi per riconoscerne l'inflessione e il tono. La risposta giusta si affacciò proprio mentre il volto di lord Phillip gli occupava la visuale. Era meno pallido di come lo ricordava e... più alto.

“V-Voi...” si ritrovò a balbettare mentre l'uomo lo aiutava a rimettersi seduto e gli sistemava i cuscini dietro la schiena per farlo stare più comodo.

“Hai la febbre,” disse lord Phillip.

Adesso che il mondo era tornato a reggersi nel verso giusto, Clint capì che il suo protettore non era diventato più alto, che era solo un'illusione ottica dovuta allo scarto di distanza tra il pavimento e il materasso. L'uomo era in piedi di fianco al suo capezzale.

“Lo so,” rispose con un leggero cenno del capo. Si sentiva la testa terribilmente pesante, come se qualcuno l'avesse aperta, riempita di sassi e poi sigillata di nuovo.

L'orecchio sinistro aveva ripreso a funzionare, ma il destro non sembrava volerne sapere. Neanche quello era stato un sogno; ne prese atto con riluttanza. Non voleva – poteva? – ancora farci i conti.

“Al povero Bigsby è preso un colpo quando ti ha visto per terra,” riprese lord Phillip, armeggiando con qualcosa appoggiato sul comodino.

Clint girò un poco il capo, quel tanto che gli bastò per accorgersi che gli aveva versato un bicchier d'acqua che adesso gli porgeva. Allungò una mano e lo strinse tentativamente tra le dita indolenzite; tremò mentre se lo portava alle labbra, ma riuscì comunque a bere senza provocare troppi disastri.

Provò un certo sollievo mentre il liquido fresco scivolava giù per la gola riarsa e impastata dall'incoscienza obbligata. Lord Phillip lo aiutò a rimettere il bicchiere al suo posto con movimenti lenti e calibrati, che Clint non si sognò neanche di velocizzare perché aveva bisogno di tempo per abituarsi alle circostanze. Per lasciare che i fatti riaffiorassero alla coscienza a illuminare gli angoli bui dei suoi pensieri.

“Come state?” Formulò infine, cautamente, come per paura di vederselo sparire davanti agli occhi. Magari stava solo delirando e lord Phillip non era realmente lì con lui – solo un fantasma dei suoi ricordi confusi e disarticolati.

“Credo che i tempi per le formalità siano già passati, Clint,” rispose bonariamente quello. Doveva aver intuito la portata del suo smarrimento; Clint lo capì dal modo in cui manteneva le distanze per lasciargli tutto lo spazio – fisico e mentale – di cui aveva bisogno.

“Non credo che riuscirei a d-darvi del tu neanche se lo volessi,” si sentì di ribattere, condendo il tutto con un pallido sorriso. Riappoggiò la nuca ai cuscini per non sentir la testa girare un'altra volta.

“Tempo al tempo,” recitò l'altro, “ci si abitua a tutto nella vita.”

“Se lo dite voi.”

“Lo dico io,” confermò con aria vagamente divertita. “Sto bene,” riprese poi, riallacciandosi alla sua domanda. “Un po' arrugginito, ma bene.”

“Quando...”

“Le cannonate mi hanno svegliato,” gli rivelò, senza abbandonare il tono di voce leggero e superficiale, anche se l'argomento non lo era affatto. Aveva un modo tutto suo di far apparire anche la peggiore delle disgrazie come un semplice fatto della vita, qualcosa di tutt'altro che straordinario, qualcosa con cui avrebbero potuto fare tranquillamente i conti.

“Non so neanche cos'è successo,” disse a mo' di scusa. Era riuscito a ricordare stralci della notte precedente, della missione che il colonnello aveva assegnato a lui e Natasha, dell'esplosione che l'aveva colto di sorpresa. Da quel punto in poi non c'era modo di riallineare le immagini per dar loro un senso compiuto: c'erano troppe lacune, troppi buchi neri.

“L'Idra è riuscita a riunire più uomini di quanti lo Scudo avesse preventivato,” gli spiegò lord Phillip, l'aria impercettibilmente più greve. “Il principe ha messo a disposizione dell'ordine degli ordigni di sua invenzione, molto più leggeri e maneggevoli delle palle di cannone... e a quanto pare troppo instabili e volatili per poter essere controllati adeguatamente.”

“E Rogers...”

“Il capitano Rogers è sceso in campo quando l'Idra ha abbattuto i cancelli.” Fece una breve pausa, dandogli il tempo di registrare e metabolizzare le informazioni. “Abbiamo avuto la meglio.”

La cosa, realizzò Clint, non lo consolò. Sentiva ancora il sapore amaro della battaglia in fondo alla bocca – forse era così che si sentiva chi andava a fare la guerra. Come se, alla fine, anche i vincitori fossero in parte degli sconfitti. Di perdite, ne era sicuro, ne avevano subite anche loro.

Il pensiero corse di nuovo a Natasha, al fatto che non la vedeva da... quanto tempo era passato? Un giorno intero? Per quanto era rimasto privo di sensi?

“La signorina Romanoff sta bene,” disse lord Phillip, intercettando in qualche modo i suoi pensieri.

“Lord Pierce?” Incalzò, per non lasciarsi dominare dal sollievo.

“Il colonnello Fury e lady Carter si stanno occupando di lui.”

Quindi erano riusciti a riportarlo in ostaggio a palazzo. Gli occhi verdi e impauriti di Natasha tornarono a riempire i suoi con straordinaria nitidezza, quasi la donna avesse smesso di guardarlo solo qualche attimo prima.

“Grant?” Si pentì d'averlo chiesto non appena il nome gli scivolò giù dalle labbra.

L'espressione di lord Phillip si contrasse visibilmente, la bocca assottigliatasi di colpo, lo sguardo che improvvisamente non incrociava più il suo.

“Abbiamo inviato una squadra alla cattedrale questa mattina,” allora era davvero passato un giorno intero, “non è ancora tornato nessuno, ma temiamo che sia troppo tardi.”

L'emergenza dell'assedio al palazzo reale era stata la priorità assoluta, l'atteggiamento difensivo una necessità impellente. Non si erano potuti permettere colpi di testa o manovre d'attacco impreviste perché il tempo era quello che era e i mezzi a malapena sufficienti a garantir loro la sicurezza di uscirne vivi.

“Forse non gli ho dato abbastanza attenzione...” lo sentì mormorare tra sé, “forse ho sbagliato tutto.”

“Stronzate,” si affrettò a puntualizzare, dando voce e forma al fastidio che andava stringendogli lo stomaco.

Si vedeva lontano un miglio che lord Phillip aveva riflettuto a lungo sulla questione, su come il figlio primogenito – l'unico naturale – si fosse ribellato alla sua autorità al punto di accettare di farlo morire per sua mano. Gli riconobbe i segni della colpa su tutto il volto e lo trovò inaccettabile, inconcepibile. Non gli avrebbe permesso di abbandonarsi all'incertezza o all'odio per se stesso, per quello che non era stato in grado di fare – che credeva non essere stato in grado di fare.

“Certe battaglie sono perse in partenza,” aggiunse, nel tentativo di ridimensionare la brusca affermazione precedente. “Non gli siamo mai piaciuti, nessuno di noi. Ma non giustifica niente di ciò che ha fatto.”

“Ho messo in pericolo l'intero ordine,” ribatté lord Phillip, turbato e indeciso tra una colpa che sentiva di meritare e un perdono che non aveva l'ardire di chiedere. “Mi sono accertato d'avere la tua fedeltà, ma non ho messo alla prova la sua.”

“Perché è tuo figlio. Non avresti dovuto averne bisogno.”

“Se lady Carter non avesse avuto la precauzione di spostare il quartier generale dello Scudo, a quest'ora saremmo tutti morti.” Serrò labbra e indurì lo sguardo prima di costringersi a rilassarsi, ad affrontare la questione con un briciolo di serenità in più. “Di solito l'ordine è stazionato altrove, ma dopo la mia cattura lady Carter ha deciso che sarebbe stato saggio spostarci.” E Grant non aveva fatto ritorno allo Scudo da quando era stato formalmente inviato a recuperare lord Phillip per salvarlo dalle grinfie dell'Idra. Grinfie a cui si era piuttosto preoccupato di consegnarlo una volta per tutte. Se fosse tornato prima, con una scusa qualsiasi, sarebbe stato messo al corrente del cambiamento e allora avrebbe potuto condurre gli uomini di lord Pierce fin nelle viscere della terra... o ovunque fosse collocato il quartier generale secondario – l'unico di cui Clint era a conoscenza.

“E' inutile pensare a ciò che non è successo,” si ritrovò a dire. “Che importanza vuoi che abbia?”

“Non lo so,” ammise lord Phillip, vagamente sorpreso dalla constatazione. “Nel frattempo sono riuscito a farmi dare del tu, però,” gli fece notare con un mezzo sorriso.

“E' che ho la febbre,” si giustificò Clint, prima di rifarsi un po' più serio. “Può darsi che Grant avesse qualche motivo valido per esservi ostile,” tornò a dire, “ma non per fare quello che ha fatto.”

“Ho tentato di farlo ragionare... ma quando l'ho visto arrivare, in quella maledetta fortezza in cui mi avevano portato, ho capito che c'era qualcosa di strano.”

“Vi ha detto del capitano? Della festa del patrono?” Gli aveva rivelato di essere stato lui ad attentare alla sua vita?

“Non ce n'è stato bisogno.”

“A-Aveva pensato a tutto,” mormorò, sentendo la rabbia bruciargli lo stomaco dolorosamente vuoto e fargli girare un poco la testa. “Ad usare un veleno di Leopold, una delle mie frecce...”

“A tutto, ma non alla tua voglia di andartene.”

Clint sbatté le palpebre per focalizzare di nuovo la propria attenzione sul padre putativo. Da quanto non pensava alla sua voglia di fuggire per sempre da villa Coulson? Adesso che le cose erano cambiate in modo tanto radicale, gli sembrava persino stupido parlarne o rifletterci.

“Avrei dovuto parlarvene.” Si mosse leggermente sul materasso e la spalla bendata gli rimandò una stilettata di dolore improvvisa.

“Avresti dovuto,” convenne lord Phillip.

“Non volevo deludervi.” No, quella era davvero l'ultima cosa che avrebbe voluto fare. Senza di lui la sua vita sarebbe stata molto diversa, di questo era fin troppo consapevole. L'aveva salvato dalla forca senza chiedergli niente in cambio, concedendogli di vivere una vita che molti avrebbero fatto di tutto pur di avere. “Sono stato un vigliacco.”

“Forse,” gli concesse dopo un attimo d'esitazione. “Ma per come la vedo io, è stato un atto di coraggio.”

“Come potrebbe?” Il concetto gli risuonava completamente ridicolo.

“Te ne sei andato perché sapevi che se fossi rimasto avresti finito per cedere.”

“E non vi pare codardia?”

“No, mi pare sia...” cercò la parola finché i suoi occhi non si illuminarono un poco, “integrità.”

“Integrità?”

“Piuttosto che comprometterti hai preferito andartene.”

“Ma vi ho deluso.”

“Non mi hai deluso, Clint. Sei diventato tutto ciò che speravo fossi quando ti ho visto sul patibolo, la prima volta.”

Si ritrovò a stringere le labbra e ad inspirare a fondo, perché la sensazione che gli aveva riempito lo stomaco era troppo piacevole e troppo poco familiare per permettergli di accoglierla con tranquillità.

“Sono orgoglioso di te,” riprese lord Phillip.

“S-Se non fosse stato per voi...”

“No, io non c'entro niente,” sorrise di nuovo di quel suo sorriso gentile che non smetteva di rivolgere un po' a tutti. “Sei quello che sei sempre stato. Una brava persona.”

Clint restò a guardarlo, incapace di dare un nome al tumulto che aveva preso possesso del suo petto, del suo cuore. Gli era terribilmente grato per tutto quello che aveva fatto, per tutte le opportunità che gli aveva concesso, per aver creduto in lui quando nessuno era stato disposto a farlo – se stesso incluso. Per non averlo lasciato solo nel momento più difficile della sua vita, per non aver permesso che questa si concludesse attorno al nodo scorsoio di una corda ruvida e rosicchiata dai topi.

“Credete che lady Jemma ci sia rimasta male?”

Lord Phillip – dal niente – scoppiò a ridere di gusto, tenendosi una mano sulla pancia; Clint ricordava tutte le fasciature e le ferite che aveva sparse sul petto e si chiese se non fosse meglio farlo sedere per non lasciare che si affaticasse.

“Senza offesa, Clint, ma lady Jemma ha ben altro per la testa.”

“Di che state parlando?” L'ilarità dell'uomo aveva contagiato, suo malgrado, anche lui.

“Almeno la metà degli esperimenti con cui Leopold ci ha ammorbati per tutti questi anni erano in realtà frutto della mente della mia brillante nipote.”

“E' davvero vostra nipote?” Trovò paradossale il fatto che l'unico vero legame di sangue di tutta quell'intera vicenda – quello con Grant – era stato anche l'unico a cedere alla prova dei fatti. Il resto di quella che aveva sempre considerato la famiglia Coulson, per quanto illegittima e improbabile, aveva resistito.

“No,” rivelò. “Conoscevo i suoi genitori, però. Ho promesso loro che mi sarei preso cura di lei quando non ci sarebbero stati più. E così ho fatto.”

“Chi di noi... sapeva?” Domandò, perché quel punto non gli era chiaro. Tutti gli abitanti di villa Coulson erano stati sottoposti ad una prova simile alla sua? Era successo prima o dopo l'attentato al capitano Rogers?

“Solo Grant. Poi sarebbe stato il tuo turno e quello di Antoine. Dopo la festa le cose sono precipitate e non c'è più stato bisogno di mantenere il segreto.”

Annuì leggermente, la testa che aveva ripreso a pulsargli per l'intontimento e la confusione.

“Avete intenzione di tornare a villa Coulson?”

“Prossimamente. Ma prima... devo rimettermi in sesto e trovare un buon maggiordomo.”

“Jasper ci ha rimesso la pelle?”

“Jasper lavorava per la lega dell'Idra, ci crederesti?” Il dispiacere che aveva solo cominciato a formarglisi all'altezza del petto svanì come fumo nel vento.

La rivelazione ebbe il potere di sorprenderlo più di tutto il resto. Possibile che l'uomo che sonnecchiava in divisa accanto all'ingresso della villa, con la parrucca perennemente sbilenca sul capo pelato, lavorasse per il nemico?

“Wow,” esalò, “i criteri di selezione non sono esattamente il loro forte.”

“No, non lo è,” convenne lord Phillip, sbuffando una risata divertita.

Aspettò che l'ilarità si fosse nuovamente acquietata per versargli un altro bicchiere d'acqua e aiutarlo a bere.

“Ho bisogno di riposare,” fu di nuovo lui a parlare, il volto più pallido e tirato di quanto non fosse all'inizio. “Mando qualcuno a portarti da mangiare.”

Gli bastò l'allusione perché il suo stomaco iniziasse a brontolare, strappando a lord Phillip l'ennesimo sorriso.

 

*

 

Il viavai nelle cucine andava assottigliandosi sempre di più man mano che il tempo passava.

Clint si era fatto aiutare da Bigsby – l'ometto tarchiato e con una forza spaventosa che l'aveva raccolto dal tappeto su cui era svenuto – per raggiungere il piano terra del palazzo. Il profumo di minestra e pollo allo spiedo li aveva guidati fin nelle cucine, e lì il fidato Bigsby l'aveva abbandonato per andare a fare gli occhi dolci ad un'aiuto-cuoca con il davanzale più consistente che Clint avesse mai visto in vita sua.

Era rimasto seduto su una delle panche sistemate nel soggiorno in cui doveva essere solita pranzare e cenare la servitù, a guardare i membri dell'ordine passare e andarsene dopo aver consumato frettolosamente il proprio pasto. Li aveva studiati tutti uno ad uno, ascoltando distrattamente i discorsi scambiati tra un boccone e l'altro per mettere alla prova il suo udito menomato, abituarcisi.

Così era venuto a sapere che un messaggero era già stato inviato affinché il miglior architetto del regno accorresse alla capitale per dare un'occhiata al palazzo e fare una stima dei danni; che gli uomini dell'Idra fatti prigionieri erano talmente tanti da richiedere un trasferimento immediato nelle carceri della città – operazione che aveva occupato almeno un quarto degli agenti dello Scudo per l'intera giornata – e che tra i capi dell'ordine era in corso un acceso dibattito su ciò che avrebbero dovuto farne; che un parroco fidato era stato richiamato a corte affinché si occupasse delle esequie di re Howard mentre alcuni dei funzionari più fedeli alla corona erano ancora impegnati ad organizzare il funerale.

La congiura era stata un evento di portata epocale, solo adesso se ne rendeva veramente conto. I dettagli da tenere in considerazione erano tantissimi e si intrecciavano ad altri ancora: l'aristocrazia cittadina era stata decimata dall'esito del complotto, e lo stesso poteva dirsi per il clero che vi aveva partecipato.

Aveva rischiato di sbilanciarsi e cadere all'indietro quando una donna, alle sue spalle, si era messa a parlare di Trickshot e dei suoi ribelli che, a quanto pareva, erano stati visti fuggire dalla capitale all'aprirsi delle ostilità tra l'Idra e lo Scudo alle porte del palazzo reale. Non aveva fatto alcuna menzione specifica sul capo dei banditi, ma Clint sperava comunque che Barney fosse riuscito a scappare dalle cattedrale e a mettersi in salvo.

La luce dorata del tardo pomeriggio era andata scurendosi, fino a tramutarsi in un'arancione caldo e rosato che gli aveva messo una tranquillità assoluta addosso. La ciotola di zuppa e carne che uno dei cuochi gli aveva servito giaceva vuota e accuratamente ripulita con una mollica di pane secco proprio davanti a lui. Bigsby si era dimenticato di lui e Clint non era ancora granché sicuro di poter tornare al piano di sopra sulle proprie gambe. Neanche la febbre se n'era andata del tutto. Però non gli dispiaceva. Non aveva fretta di tornare nella camera abbandonata, coi tendaggi polverosi e l'uomo che lo fissava dall'affresco con la sua stupida veste gonfiata da un vento tutto immaginario. Non aveva voglia di stare solo e, allo stesso tempo, non aveva voglia di parlare: quella delle cucine gli era sembrata la soluzione perfetta per ottenere entrambe le cose.

E poi aveva bisogno che gli eventi, le notizie e le informazioni attecchissero ben bene nel suo cervello, che si fissassero con la verità e la concretezza delle cose realmente accadute. Faceva ancora fatica a capacitarsi di come non fosse stato tutto un sogno – un incubo. Le immagini gli si affastellavano davanti agli occhi senza sosta, confuse e disarticolate: alle volte non era più sicuro di ricordare se una cosa fosse successa prima o dopo un'altra, se ne era la causa o la conseguenza, se certe cose erano capitate tutte nello stesso giorno o in giorni diversi.

Gli sembrava di avere un lago in testa, un lago che qualcuno si era curato di agitare con correnti spaventose, sollevando il fondale e facendo vorticare la vegetazione acquatica fino a mescolare tutto, a confonderlo. Col tempo la terra si sarebbe riadagiata al suo posto e così le piante e allora l'acqua sarebbe tornata limpida e chiara e gli avrebbe permesso di capire e ricordare con ordine.

“Stai dormendo con gli occhi aperti?”

Non si era accorto del movimento al suo fianco finché la donna non aveva parlato. Natasha si era seduta a cavalcioni sulla panca a circa mezzo metro di distanza da lui e adesso lo osservava con aria... sollevata, forse. Si fosse trattato di qualcun altro l'avrebbe definita serena, ma non era sicuro che il termine potesse applicarsi a Natasha, quali che fossero le circostanze.

“Qualcosa del genere,” ammise, rivolgendole un sorriso sincero, “perché, stavo russando?” Ruotò leggermente col busto per fronteggiarla.

“No, ma ciondolavi un poco.”

Portava ancora i segni della battaglia sul volto: nei lividi che le ricoprivano parte del viso, nel labbro ancora spaccato ma in via di guarigione che le faceva sembrare la bocca più carnosa e morbida di quanto già non gli sembrasse, nello zigomo gonfio. Una fasciatura le andava dal collo, alla spalla e al petto per permetterle di tenere sollevato il braccio destro; un'altra le faceva capolino dal colletto largo e annodato con un nastro della camicia scura, segno che anche la ferita d'arma da fuoco ricevuta al sinistro era stata medicata.

“Sto bene,” lo anticipò senza esitazioni. Si era accorta del suo sguardo, ma non sembrava aver sentito il bisogno di sottrarvisi. “Tu, piuttosto, hai un aspetto terribile.”

“Parla per te, principessa. Ti sei vista allo specchio?”

“Ti sembro una che ha voglia di guardarsi allo specchio?”

“Direi di no,” le concesse. C'era qualcosa di profondamente rassicurante nel ritrovare i ritmi delle loro passate conversazioni, nello scoprire che non c'era niente di diverso, che nulla era cambiato. Il sollievo della familiarità ritrovata in ogni scambio con Natasha lo sorprendeva ogni volta. “Mi dispiace averti lasciata in balia di Pierce.”

“Di che stai parlando?” Gli sembrò confusa.

“Non sono svenuto per l'esplosione?” Ormai era arrivato alla conclusione che il sogno che l'aveva svegliato quella mattina non fosse un'invenzione, ma un frammento della notte dello scontro.

“No. Eri confuso, ma poi ti sei ripreso e abbiamo portato Pierce fuori dall'accampamento e fino al palazzo,” spiegò e Clint ne fu sollevato, “e poi sei svenuto,” o quasi.

“Sono svenuto davanti a tutti?”

“Come no, appena varcato l'ingresso. Il colonnello Fury è persino arrivato a soccorrerti coi sali.”

“Mi stai prendendo per il culo.”

“Ti giuro di no.” Ma stava vistosamente trattenendo un sorriso.

“Che stronza. Sono in condizioni piuttosto sensibili se non te ne rendessi conto, non dovresti prenderti gioco di me,” decretò, abbandonandosi ad un po' di sano e semiserio vittimismo.

“Non sei letteralmente svenuto. Abbiamo portato Pierce all'ala ovest e poi ti sei messo a sedere su un divano... e non ti sei più rialzato.” Si era rifatta seria, lo sguardo distante come se stesse rivivendo la scena proprio lì, nelle cucine.

“Dovevo avere un sacco di sonno arretrato,” tentò di ridimensionare le cose, riportarle ad un livello accettabile. Non aveva voglia di intristirsi. “Lo sai che sono mezzo sordo?”

“Me lo sono immaginato.”

“Come?”

“Bè, l'ho sospettato quando ho visto il sangue uscirti dall'orecchio... e poi ti sei voltato quasi del tutto per parlarmi,” alluse, indicando il modo in cui aveva riaggiustato la postura al suo arrivo.

“Se non altro adesso sentirò solo la metà dei tuoi insulti.”

“Non credo funzioni così, Barton.”

“Dovrebbe, no? E' giusto che un povero storpio soffra la metà di chi non lo è.”

“Non sei uno storpio,” lo redarguì lei.

“Significa che mi trovi attraente?”

“Ci sono diverse sfumature che separano lo storpio dall'attraente.” Come diavolo erano finiti ad andare a parare proprio là?

“Sei troppo pignola per i miei gusti.”

“Non sono qui per soddisfare i tuoi gusti, Barton.”

“Grazie al cielo. O non sarebbe divertente.”

Natasha reclinò il capo di lato, condensando tutto il suo (falso) disappunto in un'occhiataccia. Rimasero in silenzio per qualche secondo e un attimo dopo il cuoco che l'aveva servito tornò indietro per riprendersi la scodella vuota, accorgendosi della presenza di Natasha. Si affrettò a portare un piatto caldo anche per lei e poi si allontanò borbottando e maledicendo tutto il lavoro che aveva da fare e rimpiangendo i tempi in cui spalava letame in campagna.

“Hai deciso che fare?” Gli chiese. Erano bastate un paio di cucchiaiate perché il colore le risalisse fino alla guance accaldate.

“Dopo questo, dici?” Natasha annuì per dargli conferma. “Non ancora,” ammise. “Tu?”

“Neanch'io.” Realizzò che stava prendendo tempo, che si preparava a dire qualcos'altro. “Ma non credo che rimarrò nella capitale.”

Clint serrò le labbra e restò in silenzio per qualche attimo, tentando di abituarsi alla notizia.

“Ti perderai il funerale del secolo.” Sapeva che si sarebbe pentito d'averlo detto, ma non riuscì a trovare niente d'alternativo, niente che suonasse meno stupido.

“Ne ho abbastanza di morti.”

“Però hai detto che non hai deciso,” lo ritorse contro. “Tornerai?”

“Non lo so.”

“Credevo che il colonnello ti avrebbe convinta a rimanere.”

“Ci ha provato,” gli rivelò.

“Ci è riuscito?”

Ottenne una scrollata di spalle e uno sguardo evasivo che andò a concentrarsi sulla zuppa. Non era un sì, ma neanche un no. E non si faceva illusioni riguardo la possibilità che la sua incertezza fosse dovuta al desiderio di non ferirlo. Natasha non si sarebbe fatta alcun problema in tal senso; magari le avrebbe comunque letto il dispiacere negli occhi, ma non si sarebbe abbassata ad ottemperare alle sue esigenze in modo tanto superficiale.

“Rimarrai con lo Scudo?” Parlò di nuovo, ma senza alzare gli occhi dalla scodella.

“Probabilmente.” A dir la verità non ci aveva ancora riflettuto. Il futuro gli appariva come uno specchio confuso in cui non poteva discernere alcun riflesso. Non ancora, almeno. “Non mi dispiace, quello che fanno. E in fin dei conti c'è solo una cosa che so fare bene...”

“Rompere le palle?”

“No, mi riferivo al tiro con l'arco, tante grazie.” Le lanciò addosso una mollica di pane secco che andò ad incastrarsi tra i suoi capelli, legati in una minuscola coda di cavallo con un nastro striminzito.

“Non è vero che è l'unica cosa che sai fare.”

“E' vero che è l'unica cosa che so fare bene, però,” la corresse. “Tanto vale che metta le mie abilità al servizio di una buona causa.”

“Come fai a sapere che è una buona causa?” La domanda le uscì con disarmante sincerità. Gli fu chiaro come quello doveva essere un punto su cui si era arrovellata parecchio in quegli ultimi giorni, senza riuscire ad approdare ad una qualche considerazione definitiva.

“Non lo so,” ammise, “però so che è la causa a cui si sono votate tante persone che... stimo.” Il fatto che persone come lord Phillip, Melinda, Antoine, Fury, lady Carter e persino Maria Hill ne facessero parte, gli faceva apparire lo Scudo come una valida alternativa al suo proposito di girare il regno senza una meta fissa, senza uno scopo. “Potrebbe essere palloso,” aggiunse, “con te lo sarebbe di meno.”

Natasha rialzò il capo per puntargli addosso il suo sguardo, confuso e grato al tempo stesso, ma solo per un attimo. Un secondo dopo stava già inarcando un sopracciglio e guardandolo male, cosa che le riusciva un po' troppo bene per i suoi gusti.

Ripiombò il silenzio, durante il quale Clint si curò di non fissarla per non metterla a disagio mentre mangiava. Era vero che avrebbe preferito lavorare per lo Scudo al suo fianco, perché se c'era una cosa che aveva capito nelle ultime settimane, era che formavano un'ottima squadra. Che funzionavano, che colmavano l'uno le lacune dell'altro, che riuscivano ad intuire le reciproche intenzioni solo guardandosi. Con Natasha si sentiva al sicuro e al tempo stesso era convinto che anche per lei fosse così. E poi c'era l'euforia che gli prendeva lo stomaco tutte le volte che ingaggiavano in uno dei loro battibecchi, l'ansia di scoprire come avrebbe risposto lei, quella di capire come avrebbe ribattuto lui.

Gli sembrava che, quand'erano insieme, tutto andasse al proprio posto, tutto acquistasse un senso proprio. Forse era solo un tiro mancino della sua immaginazione, forse era solo stata una questione di tempismo: magari le cose sarebbero state diverse se si fossero incontrati in altre circostanze.

Oppure no.

“Posso chiederti una cosa?” Gli chiese Natasha, che aveva di nuovo perso interesse nella sua minestra di carne e verdura.

“No, non ho una fidanzata, Nat. Smettila di chiedermelo con tanta insistenza,” rispose a tono. Aveva voluto scherzare, ma la vide cambiare repentinamente espressione. “Stavi per chiedermelo?”

“Non l'avevo formulata così nella mia testa.” Giurò che era arrossita, ma non era certo che non fosse colpa del calore emanato dalla zuppa. O della sua febbre improvvisamente riacuitasi. “Diciamo per niente.”

“Cos'è che volevi sapere?” Trattenersi dal ridere fu l'impresa più ardua della settimana. Sì, pur considerando tutto quello che era successo.

“Mi chiedevo se era per via della...” fece una breve pausa e smise di nuovo di guardarlo, “la donna bionda al villaggio.” Capì senza difficoltà che stava parlando di Bobbi.

“Per via di lei... cosa?”

“Il fatto che non mi hai permesso di toccarti.” Ricambiò improvvisamente il suo sguardo con la stessa sfacciataggine a cui l'aveva abituato durante il loro viaggio. Non c'era provocazione però, solo una genuina curiosità che pareva portarsi dietro da diverso tempo. Qualcosa che non le tornava. Adesso era lui a sentirsi in imbarazzo – i ruoli si erano invertiti a velocità talmente elevata da fargli girare la testa.

“Ancora non ho capito come hai fatto a scoprire di me e Bobbi.”

“La vostra segretezza faceva acqua da tutte le parti.”

“Mi spiavi?”

“Ero lì per te, ricordi?”

“Sì... me lo ricordo.” L'inquietava pensare che non l'aveva mai notata tra gli abitanti del villaggio, che Natasha poteva essere stata nelle vicinanze a sua completa insaputa. “Non era per Bobbi,” si risolse a rispondere.

“Perché allora?”

“Perché non volevi farlo.”

La vide sgranare leggermente gli occhi, come colpita – sorpresa? Inorridita? Offesa? – dalla sua risposta. Assottigliò lo sguardo, poi, scrutandolo con un'attenzione che aveva del maniacale. Stava cercando di capire se poteva credergli o meno. Solo quando i tratti del suo volto da contratti si rifecero più rilassati, comprese che era arrivata ad una conclusione che non gli era dato conoscere.

“Grazie,” disse infine.

“Per cosa?”

“Per esserti fidato di me,” pronunciò lentamente, come calcolando ogni sillaba, ogni parola. Realizzò che stava facendo fatica a sostenere i suoi occhi, ma non tentennò, né cedette alla voglia che aveva di guardare altrove.

La solennità e la portata del momento riusciva quasi a percepirle nell'aria, farsi cosa concreta e poi scivolargli nello stomaco, calde, piacevoli e rassicuranti. Un sorriso gli riaffiorò sulle labbra e infine scosse il capo.

“Com'è la zuppa?” Le offrì un appiglio per virare la conversazione e allontanarsi bruscamente da quei lidi pericolosi.

“Fa schifo.”

“Credo sia carne di cavallo.”

“Non è la cosa peggiore che potrebbe esserci qua dentro.”

“Magari è il cavallo di Fury. L'ha sacrificato per permetterci di avere un pasto caldo,” suonava drammatico al punto giusto.

“Non è divertente, Barton.”

“Stai ridendo!”

“No, sto mangiando, non vedi?”

“Sono mezzo sordo, ma non mezzo cieco. Non credere di potermi fregare.”

“Perché mezzo sordo e non mezzo muto?” Natasha aveva alzato per un istante gli occhi al soffitto, forse per interrogare una qualche entità divina che viveva nelle travi scoperte che lo solcavano da un lato all'altro.

“Bella domanda.” Ne approfittò per scagliarle addosso altre due, tre palline di pane, che andarono a finirle tra i capelli, oltre la spalla, e dritta nello scollo della camicia. Fu l'approdo di quell'ultimo proiettile a farla diventare mortalmente seria. “Vado a chiedere se c'è modo di organizzare il mio funerale oltre a quello di re Howard.”

“Ottima idea.”

“Mi ci vorrà un po' per uscire di qui, però.”

“Fa niente, sono una persona paziente.” Mise da parte la scodella ormai vuota e poi lo guardò rimettersi dritto, leggermente barcollante. “Non fare l'idiota, aspettami.”

Non era molto stabile neanche lei, ma gli offrì comunque il suo appoggio dalla parte del braccio (un po' più) sano.

“Il bastone della mia vecchiaia,” la prese in giro.

“Non farti illusioni. Voglio assicurarmi che arrivi vivo, così possono prenderti le misure.”

“Wow, dritta al punto.”

“Per la bara,” puntualizzò.

Clint scoppiò a ridere, senza pensarci.






Note: come promesso, si cominciano a risolvere le situazioni in sospeso e si tirano le conclusioni della storia. Il confronto tra Clint e Coulson era doveroso, e anche Natasha deve decidere cosa fare della sua vita...
Nient'altro da dire quindi passo a ringraziare tutti quelli che leggono, in particolar modo a Ragdoll_Cat e ovviamente la sociabeta Eli :3 Grazie!
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Hermione Weasley