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Autore: AdeleBlochBauer    20/03/2016    1 recensioni
Se Valjean fosse stato presente quando Javert tentò il suicidio.
Un percorso morale e spirituale che, da qui, può scaturirvi.
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Una storia scritta qualche tempo fa, dedicata unicamente all'amore e alla gratitudine per Victor Hugo.
Non chiedo nulla e non ho nessuna pretesa: ma, forse, se hai amato I Miserabili quanto l'ho amato io, forse questo ti piacerà.
O, almeno, lo spero.
Grazie.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Javert, Jean Valjean
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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4. Nescit vox missa reversi*


Per quanto strano possa sembrare, noi –il quale compito è quello di raccontare una storia così com’è successa- assicuriamo il lettore che quella semplice domanda di Jean Valjean rivolta a Javert fu tutto quello che servì a placare la tempesta. Una folgore che riporta l’azzurro, un dardo lanciato alle spalle, una pallottola attraverso la carne viva e agitata che, uccidendola, ne calma la foga. La mente di Javert, ora nuovamente, istantaneamente imprigionata dalle terribili riflessioni che quella questione portava con sé, non aveva più bisogno di lampi e turbini per schermarsi da essa. Qualsiasi arma era inutile; la catastrofe l’aveva ormai raggiunto. Di nuovo.

Nel tempo di qualche momento, dunque, l’animo di Javert tornò calmo, rassegnato e non meno disperato di prima. Si dissolse la tempesta, ma la nebbia rimase. Un punto interrogativo fu ciò che fece riemergere, in tutta la sua sublime violenza, il lucente rivolo di pensieri malamente sepolto nel torrente d’ira, ora prosciugato. A Javert non rimanevano più difese, più nessuna maschera o nascondiglio: fu costretto, ancora una volta, ad affrontare disarmato il più intimo cuore della sua crisi interiore. E la Senna rimaneva.

Javert, dunque, si voltò piano verso Valjean, il quale ebbe un improvviso lampo di memoria: subito, infatti, gli venne alla mente la scena di molti anni fa in cui, a Montreuil-sur-Mer, l’ispettore Javert era venuto a pregargli la propria disposizione dal servizio. Jean Valjean trovava -non senza un certo stupore- che il volto di Javert ricalcava perfettamente, ora, quell’espressione di profonda umiltà e dignitosa afflizione che già gli aveva osservato, anni fa, durante quell’insolito colloquio.

In quell’occasione, Jean Valjean aveva potuto scoprire il sincero senso di giustizia e la quieta grandezza che animava quel cane da caccia quale era Javert; ora, prodigioso e inaspettato miracolo, ne scopriva l’umanità: vale a dire l’essere (e, molto più importante, il saper d’essere) fragile, irrazionale e fallace.

Lo sguardo cupo di Javert si spostò da Valjean sulla pistola rimasta conficcata nell’erba, poco distante da lui, dalla parte
del fiume.
Jean Valjean cominciava a vedere delle macchie nere sul suo campo visivo. Tutti i muscoli del suo corpo urlavano. Il freddo l’aveva ormai spietatamente incatenato.
Ma Javert non poteva accorgersene. A malapena si stava rendendo conto di ciò che era successo negli ultimi minuti, dal
momento in cui si era risvegliato e aveva riconosciuto Jean Valjean, fradicio e tossente a pochi metri di distanza.
Javert accomodò le mani dietro la schiena e, distrattamente, imperturbabile, spinse brevemente con lo stivale la canna della pistola, la quale si inclinò fino a staccarsi dal terreno e precipitare nella Senna.

Con gli occhi fissi sull’arma che affondava, rispose finalmente, calmo e dalla voce solo un po’ arrochita: “Non era
previsto che mi salvaste la vita. Credo.”

Jean Valjean non resse. Javert gli aveva appena dato la conferma di quelle speranze –che quasi Jean Valjean non aveva osato tradurre in vere ipotesi, tanto sembravano improbabili- che erano sorte in lui, con tutta l’aura propria dei miracoli, durante quel burrascoso colloquio con il poliziotto.

La sublime e potente commozione che ne seguì fece abbassare per un istante le difese del corpo di Jean Valjean, e la qual cosa bastò perché l’età, la spossatezza e il gelo riuscissero finalmente a sovrastarlo: le gambe cedettero, la vista si offuscò. Jean Valjean, forse senza neanche averne coscienza, si accasciò a terra.

Ricordiamo per un istante quale poliziotto di straordinaria rarità fosse Javert: quella particolarissima specie dell’istinto che nega se stesso, l’istinto della razionalità, che in Javert si traduceva nell’istinto dell’uomo di legge, era in lui onnipresente e mai inattivo. Qualsiasi altro sentimento era sempre stato ad esso subordinato: nessun dolore o affetto, nessuna paura o umanità, mai, aveva prevalso su quell’istinto che costruiva e delineava ogni minimo particolare di Javert. Perfino il sentimento più innato e primordiale dell’uomo, l’amore per la vita, in Javert rappresentava solo uno fra i tanti calcoli che il suo spirito (ma è perfino corretto chiamarlo spirito?) razionale e calcolatore inseriva nei propri conti. Il tentativo di suicidio a cui abbiamo da poco assistito ne è la prova.

Sebbene appena prima, in quei terribili istanti di formidabile tensione e sconvolgimento interiori che abbiamo visto, la lucidità di Javert fosse stata indubbiamente messa alla prova ora, finalmente, l’improvvisa visione di Jean Valjean che precipitava risvegliò il suo occhio attento. Rivide all’istante ed in modo vivido la notte, l’aria fredda, l’acqua del fiume e gli effetti che possono fare ad un uomo di quell’età. Si prese appena il tempo per pensare: “sono un idiota!”, e si scagliò immediatamente su Jean Valjean.

Un particolare confronto si mostrava a Javert: rifletteva –nell’animo, se non nella mente- sul fatto che tutte le vicende dell’ultima giornata, dalla barricata fino al fiume, si riassumevano in queste parole: distruggevano Javert e riempivano di gloria Jean Valjean. Jean Valjean era il filo conduttore, l’omnipreasens, il riferimento, la sola traccia che era stata concessa a Javert in quella straordinaria successione di formidabili eventi.

Javert aveva perso tutte le sue convinzioni, ogni certezza, qualsiasi possibile appiglio: persino l’annullamento, la morte, gli era stato negato. Aveva estremo bisogno di un nuovo punto d’appoggio, qualsiasi cosa che potesse restare sicura anche nel nuovo, imprevedibile caos di un mondo che aveva appena scoperto. Vedeva Valjean, e lo vedeva in una folgore: se d’inferno o di paradiso, se di fuoco o di stelle, ormai aveva poca importanza. Luce era. Il forzato misericordioso, angelo o demonio, non cessava di esistere fissamente nel bagliore lacerante che emanava. L’assurdità di quell’uomo era perfettamente costruita nell’essere assolutamente e sistematicamente sconcertante, la sua bontà non si arrestava neanche di fronte alla promessa di una libertà eterna. In un mondo dove tutto era franato, Jean Valjean era colui che si stagliava fra le rovine, diritto, invulnerabile, splendente.

E Javert non tollerava che quell’uomo potesse ora crollare. Un Jean Valjean che cadeva era inconcepibile. Permettere che accadesse era imperdonabile.

Rapidissimo, lo afferrò prima che potesse toccare terra.

Riguardo a Valjean, nell’istante in cui aveva ascoltato Javert, un attimo prima di venir meno, aveva avuto nello sguardo come un riflesso di una stella cometa. Il suo silenzio, lungi dall’essere semplice assenza di verbo, era quello proprio dell’atto religioso. Aveva lo stato d’animo della contemplazione, la sacralità del pensiero di chi assiste ad un miracolo. Coloro che furono testimoni della resurrezione di Lazzaro non provarono lo stesso sublime sbalordimento che illuminava, in quel momento, l’animo di Jean Valjean. In quella frazione di secondo aveva contemplato, ancora una volta, lo straordinario prodigio di un universo in cui lo spirito umano, vale a dire Dio, poggia il filo di ogni destino sul palmo della propria mano.

Javert riconobbe immediatamente le gravi condizioni di Jean Valjean. Sorreggendolo, gli sentì il polso: era debolissimo. Si sarebbe ripreso, ne era certo, ma necessitava di cure immediate, o il danno poteva essere fatale. Difficile dire se avesse completamente perso conoscenza: gli occhi erano chiusi, ma le palpebre sussultavano lievemente. Javert si tolse la redingote, la quale era bagnata anch’essa, ma almeno riparava dal vento, e coprì Valjean; poi lo sollevò supino, reggendolo da sotto le gambe e per le spalle, si rialzò e si diresse rapidamente e a lunghe falcate verso Rue de l’Homme Armè.

 In un momento del tragitto Jean Valjean riuscì ad aprire appena gli occhi. A fatica, molto roco, interrotto da frequenti colpi di tosse, riuscì solo brevemente a dire: “Passerete da me. Quando vorrete. Devo parlarvi. Ma… vi prego… non cercate più di buttarvi nel fiume, Javert. Avete una scelta.”

Javert, che guardava diritto davanti a sé, per un istante solo abbassò gli occhi su Valjean, incrociando il suo sguardo, per poi tornare attento sulla strada da percorrere.

La folgore aveva parlato.

“Benissimo”.









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Orazio: “La parola, una volta detta, non torna indietro.”
   
 
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