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Autore: Hanairoh    30/03/2009    2 recensioni
Questa è una versione alternativa di Twilight scritta da me. E se Bella fosse stata morsa ancora prima di conoscere Edward e la sua famiglia? Chi sarà stato il suo creatore? Leggete per scoprirlo!
Genere: Generale, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Ehm...salve ^^
Probabilmente non vi ricorderete di questa ff lasciata ad ammuffire nel database. Finalmente ho trovato qualche oretta libera, e così...
Buona lettura!
 
 
Buffo come il tempo passi in fretta quando si ha a disposizione l’eternità; sembravano essere passati pochi giorni dalla mia entrata nella famiglia Cullen anziché un mese. Durante il quale ricevetti tutto l’aiuto ed il sostegno possibile da parte di tutti, in particolare Edward ed Alice. Non che gli altri fossero da meno, ma loro mi stavano accanto tutto il giorno, anche durante le battute –ormai quotidiane- di caccia. Edward, poi, non mi lasciava sola un attimo: non faceva altro che seguirmi per tutta la casa come un cagnolino. Mi faceva ridere, e quando glielo feci notare rispose dicendo che faceva di tutto pur di non farmi sentire sola. Se fossi stata umana avrei pianto. Invece lo abbracciai.
I Cullen ormai erano diventati la mia famiglia, la mia guida, il mio porto sicuro. Poco m’importava della mia vecchia famiglia, tanto non l’avrei mai conosciuta: pensavano che fossi morta, dato che Carlisle mi aveva detto di aver inscenato un incidente d’auto in cui il mio corpo sarebbe rimasto carbonizzato. Che ridere pensando che neanche un tir sarebbe riuscito a farmi cadere per terra.
Con il passare del tempo il mio rapporto con i vari componenti della famiglia era andato via via consolidandosi fino a diventare affiatato e stabile. Con una sola eccezione: Rosalie. La bellissima vampira dai capelli dorati sembrava non gradire la mia presenza. Era evidente che mi considerava un’intrusa indesiderata nella sua famiglia. Al contrario, suo marito Emmett non la smetteva di ridere e scherzare con me; era simpatico e, a volte, malizioso. Il vedermi sempre insieme a suo fratello Edward aveva scatenato in lui una sorta di convinzione secondo cui noi due saremmo diventati compagni. Sapevo che scherzava, o almeno lo speravo.
Ma la cosa su cui più spesso parlavamo era la caccia. Emmett non la smetteva di criticare i miei gusti in fatto di sangue, anche se non avevo idea di come potesse scherzare su un argomento del genere.
“Si vede proprio che sei una novellina”, diceva dandomi una pacca sulla spalla che avrebbe steso qualsiasi umano, “il sangue di grizzly è il migliore, non ci sono paragoni”.
A quel punto interveniva Edward a ‘salvarmi’. Guardava in tralice suo fratello, evidentemente pensava che la caccia fosse una faccenda ancora delicata per me, e i due si mettevano a discutere su quale fosse il sangue più buono.
“Emmett, non hai proprio gusto in fatto di animali”, borbottava, “Il migliore è il puma, non certo il grizzly! Troppo acre e pesante”, concludeva storcendo il naso.
Emmett mi chiedeva sempre quale fosse il mio preferito, ma ogni volta alzavo le spalle come a dire ‘non lo so’. In realtà non me ne importava niente: il sangue era sangue, e ormai ne ero completamente assuefatta. Era come chiedere ad un tossicodipendente quale tipo di droga preferisse tra cocaina, eroina e marijuana. Non importa la qualità, purché sia droga. Per me era lo stesso. Ed era questo il motivo per cui il mio autocontrollo non si era affatto rafforzato, anzi, minacciava di andare in pezzi da un momento all’altro.
Nonostante questo, Carlisle nutriva forti speranze al riguardo. Secondo lui mi ci sarebbero voluti anni prima di riuscire a resistere al richiamo del sangue. Si comportava da padre, mi consolava e sopportava tutte le mie crisi emotive dopo le battute di caccia. Lo stesso Esme. Ormai loro due erano diventati i miei genitori, e avrei tanto voluto poterli chiamare mamma e papà, ma temevo non avrebbero gradito. Neanche Edward e i suoi fratelli lo chiamavano così, tranne in qualche rara occasione.
Ma, oltre a Edward ed Alice, chi mi stette più vicino in quel brutto periodo fu Jasper; anche lui, dopo cinquant’anni, aveva ancora problemi di autocontrollo, e poteva capirmi. Aveva vissuto più di un secolo nutrendosi di umani. Spesso ci sedevamo in soggiorno e parlavamo, dove anche Alice ed Edward ci raggiungevano. Durante i miei crolli emotivi Jasper usava il suo potere, dandomi un senso di pace e benessere che niente e nessuno riusciva a darmi.
Ed era proprio durante quei momenti di tranquillità che riacquistavo fiducia in me stessa e mi convincevo che potevo farcela. Mi ci sarebbero voluti anni, ma sarei riuscita a controllarmi. Quel pensiero mi confortava, e mi consentiva di andare avanti.
O almeno, pensai questo finché non uccisi il mio secondo essere umano.



A me e mio fratello Edward –avevo ormai imparato a considerarlo in quei termini, e non più come un amico- si era unita anche Alice. Diceva di essere un po’ assetata e di volerci ‘tenere d’occhio’. Erano le dieci passate, ma del sole neanche l’ombra. Immaginai fosse una caratteristica dello stato di Washington, una vera fortuna per noi vampiri. Avevo da poco scoperto che la mia pelle, contrariamente a quanto narrato dai libri, non si scioglieva al sole ma emanava bagliori accecanti come fosse incrostata di diamanti. Uno spettacolo bellissimo a vedersi ma che non permetteva ai Cullen di uscire durante le rare giornate di sole.
Edward ed Alice si erano allontanati di qualche chilometro, ma mi avevano assicurato che mi avrebbero raggiunta se ce ne fosse stato il bisogno. Secondo Alice non avrei avuto problemi, e che nella foresta di Hoh non ci sarebbero stati umani, almeno non nel mio raggio d’azione.
Poco prima del ritorno di Edward e Alice ebbi la malaugurata idea di andare a dissetarmi un altro po’. Purtroppo, nella frenesia della corsa non mi accorsi di essermi allontanata parecchio, e mi ritrovai nel bel mezzo di uno spiazzo in cui un essere umano passeggiava tranquillamente. Ero talmente ubriaca del suo profumo da non riuscire a capire se fosse un uomo o una donna. Era una donna, ma questo lo venni a sapere solo più tardi, quando Edward ed Alice mi trovarono rannicchiata per terra a piangere lacrime invisibili sul corpo esanime della donna. Non dissero nulla, si limitarono a nascondere il cadavere sotto un albero. Prima che terminassero il lavoro, frugai nella giacca della donna e presi i suoi documenti. Ignorando le facce tristi dei miei fratelli, lo aprii e lo lessi. Si chiamava Paige Gordon, aveva ventinove anni e aveva due figli. Professione, medico specializzando allo Swedish Medical Center di Seattle.
Carlisle mi aveva detto che vedere gli umani come persone e non come cibo era di aiuto, ma io non ce l’avevo fatta.


Da quel momento avevo giurato solennemente di non uccidere più. In pochi mesi riuscii ad ottenere la forza necessaria per controllarmi di fronte ad un animale. Animali, si, ma non esseri umani. Constatare che i miei sforzi non erano serviti a quasi nulla, caddi in uno stato simile alla depressione. Quando non cacciavo, me ne stavo chiusa in camera mia –Esme ed Alice l’avevano finita in meno di una settimana- e alle richieste di Edward di accompagnarlo a caccia o semplicemente di uscire fuori nel giardino rispondevo di no.
“”Bella, vorresti venire a caccia con me?”. Non ne avevo voglia.
“Bella, è un po’ che non ti nutri, esci e andiamo nel bosco”. Non avevo sete.
“Bella, vuoi venire a prendere una boccata d’aria?”. Stavo leggendo e non mi andava di smettere.
Andammo avanti così per un mese buono; ben presto anche Alice tentò di convincermi ad uscire di lì con la scusa di farmi provare un vestito che aveva comprato nell’unico negozio d’alta moda di Forks. Al mio rifiuto si fece scura in viso e scese al pano di sotto senza dire una parola.
Una domenica mattina –non sapevo che giorno o mese fosse- la porta della mia stanza si spalancò e un Edward quanto più irritato fece irruzione.
“Adesso basta, Bella!”, esclamò avvicinandosi al divano su cui ero stesa a contemplare il soffitto. Il mio passatempo preferito era quello di contare le mattonelle del muro, ma, finite quelle, ero passata alle crepe. “Non puoi continuare così. Sono quasi sei settimane che non esci di qui se non per il cibo. Devi smetterla con questo atteggiamento depresso e malinconico!”. Vedendo che restavo immobile cominciò a scuotermi per le spalle. “Reagisci!”, urlò.
Non reagii.
Mi scosse più forte.
“Non ti rendi conto che facendo così non risolvi nulla?”. Edward mandò al diavolo l’atteggiamento cortese e composto che aveva sempre avuto e, non notando la benché minima reazione in me, alzò la mano e l’abbattè sulla mia guancia sinistra.
E, per la prima volta nella mia nuova vita, provai quello che gli umani chiamano dolore.
Il colpo mi fece cadere dal divano sulla soffice moquette del pavimento. Non avrei mai pensato che saremmo potuti arrivare a quel punto. Edward stesso sembrava stupito dal suo gesto. Rimase con il braccio alzato ad osservarmi mentre sfregavo la guancia per alleviare il dolore. Non aveva mai alzato le mani su di una donna, era cresciuto in un’epoca diversa.
Ciò che non riuscì a prevedere fu la mia reazione.
Mi alzai e gli corsi incontro, abbracciandolo di slancio; automaticamente serrò le braccia racchiudendomi in una gabbia protettiva. In un attimo scoppiai a piangere.
E non sarebbe stato facile smettere.



Per tutta la serata Edward non proferì parola. Semplicemente continuò a cullarmi tra le sue braccia mentre i singhiozzi mi scuotevano le spalle e piangevo le lacrime che non avrei mai più versato. Se all’inizio avevo pensato che la sensazione del non poter più piangere fosse fastidiosa, ora dovevo ricredermi: faceva male. Era come avere un blocco all’altezza dei polmoni e non poterlo espellere, anche se non mi era indispensabile piangere.
Non avevo idea di che ore fossero quando Edward mi scostò da se e alzò la mia testa per potermi guardare in faccia. Chissà che cosa avrebbe visto.
“Adesso va un po’ meglio?”, chiese con la sua magnifica voce. Annuii senza neanche pensarci, persa com’ero nei suoi occhi dorati, molto diversi dai miei.
Un po’ mi sentivo in colpa; avevo costretto mio fratello ad assistere al mio ennesimo crollo, e non volevo che succedesse di nuovo. Non lo meritava, non era lui a doversi fare carico dei miei problemi. Ma, nonostante questo, non ebbi il coraggio di parlare; non osavo immaginare come me la sarei cavata senza di lui, che mi era sempre stato vicino anche nei momenti più bui.
Con un movimento fluido ed elegante Edward si alzò e mi tese la mano per aiutarmi a rialzarmi. Senza lasciarla, mi condusse al piano di sotto dove trovammo Carlisle ed Esme insieme ad Alice. Non appena varcai la soglia vidi i loro occhi puntarsi su di me. Abbassai lo sguardo, imbarazzata dal modo in cui li avevo trattati nelle ultime settimane; eppure non sembravano né delusi né altro, evidentemente avevano previsto una reazione simile in me.
Carlisle ci venne incontro: sembrava preoccupato, forse si aspettava che ricominciassi. Se così era, si sbagliava. Non potevo fare questo a lui, che era come un padre, ad Esme, la mia nuova mamma, a mia sorella Alice, alla bella quanto gelida Rosalie, al mio fratellone Emmett, ad Edward, che mi aveva consolata e lasciata sfogare senza dire una parola.
Non potevo fare questo alla mia famiglia.
“Va tutto bene”, gli dissi, risoluta, “Sto meglio, non dovete preoccuparvi”. Loro però non sembravano crederci. “Sul serio”, aggiunsi.
Edward strinse più forte la mano.
“Mi dispiace di avervi fatti preoccupare”, farfugliai mentre cercavo di non pensare che, se avessi pronunciato quelle parole non sarei più stata libera di lasciarmi andare, di sfogarmi, “È che…non volevo costringervi ad…assistere, sono già un peso per voi…”. M’interruppi, la voce stava per morirmi in gola.
Carlisle mi guardò negli occhi e vi lessi una cosa che credevo di aver dimenticato: l’affetto, un immenso ed indescrivibile affetto. Rapido, mi abbracciò e, per la seconda volta da quando ero entrata a far parte della famiglia, mi sentii come se a consolarmi ci fosse il mio vero padre.
“Non pensare questo, Bella”, mormorò appoggiando il mento sulla mia testa. Era molto più alto di quanto ricordassi. “Per noi non sei affatto un peso, anzi, al contrario. Siamo felicissimi di averti con noi, e ricorda che sei libera di esprimere i tuoi sentimenti senza rinchiuderti in te stessa. Ci siamo passati tutti, vedrai che presto finirà”. Mi mise le mai sulle spalle e mi guardò come solo un padre sa fare: dolce e allo stesso tempo deciso. Si chinò a sfiorare con le labbra, per una attimo, la mia fronte. Nello stesso istante giurai di aver sentito Edward irrigidirsi, ma quando Carlisle si staccò e vidi la sua espressione composta e neutrale, pensai di essermi immaginata tutto.
“Bene!”. Alice si alzò in piedi e batté le mani allegramente, le labbra impeccabili curvate in un sorrisetto che donava al suo viso da elfo. “Tutto risolto. A chi va una battuta di caccia?”.

 

 

Angolo dell'Autrice Pazza:
 
Ringrazio, ancora una volta, tutte quelle che hanno messo questa storia nei preferiti...mi fate arrossire!
  
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