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Autore: Hotaru_Tomoe    24/03/2016    3 recensioni
Sebastian Moran, deciso a vendicare la morte di Moriarty, entra in possesso di un dispositivo sperimentale che permette di entrare nei sogni altrui ed è deciso ad usarlo su Sherlock per distruggerlo, ma Arthur ed Eames cercheranno di impedirglielo.
[Crossover con il film Inception]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Mary, Morstan, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 8


Quando quella mattina Arthur aprì il giornale, la tazza di tè gli sfuggì di mano, rovesciandosi sul tavolo: normalmente era il primo a brontolare se Eames sporcava in giro, ma in quel momento nemmeno se ne accorse; si precipitò in camera da letto con la pagina della cronaca locale stretta in mano e scosse violentemente il compagno per la spalla.
“Eames! Eames, svegliati!”
L’altro bofonchiò qualcosa di poco gentile, cercò di allontanarlo con una manata e nascose la testa sotto al cuscino.
“No Eames, è importante - Arthur lanciò via il cuscino e gli mise il giornale sotto gli occhi - leggi.”
“Ma che ti prende?”
“Leggi!” ripeté con enfasi.
Dopo qualche istante, Eames riuscì finalmente a mettere a fuoco le parole.

Sonno enigmatico
di Kitty Riley

Sherlock Holmes, il famoso investigatore privato londinese, noto alle cronache per aver risolto decine di misteri bizzarri e al limite del surreale, per un atroce scherzo del destino sembra essere diventato egli stesso il protagonista involontario di uno dei suoi casi.
Da due settimane circa l’uomo si trova ricoverato in una stanza privata al terzo piano dell’ospedale St. Bartholomew’s di Londra, a causa di un male misterioso che i medici finora non hanno saputo spiegare né curare.
Holmes è caduto in un coma profondo, e nonostante la fase REM del suo sonno sia segnata da una spiccata attività cerebrale, tutti i tentativi fatti finora per risvegliarlo sono risultati vani.

L’articolo proseguiva ancora ed era correlato da alcune fotografie dell’uomo, ma Eames aveva letto abbastanza e sapeva benissimo a cosa stesse pensando il suo compagno, che in fondo non si era mai arreso all’idea di non poter realizzare l’ultimo desiderio del suo vecchio maestro.
Si stropicciò la faccia, grattandosi l’accenno di barba mattutina e guardò Arthur, i cui occhi brillavano di determinazione, proprio come si era aspettato.
“Pensi sia lui la vittima di Moran?”
“I sintomi coincidono e l’articolo della giornalista parla di fase REM: in un paziente in coma è strano sia presente, a meno che non sia vittima di dream sharing.”
“Ma se ti sbagliassi, daresti una falsa speranza ai parenti di questo Holmes.”
“E se invece avessi ragione? Credo che dovremmo fare un tentativo, e anche in fretta: se ho ragione, il tempo di quell’uomo sta per scadere. Sei con me?”
“Come sempre, tesoro.”
Eames si alzò e si preparò il più velocemente possibile.

I due si presentarono in ospedale, sostenendo di conoscere le cause del coma che aveva colpito Holmes, ma la responsabile della reception si dimostrò irremovibile e cercò di liquidarli in fretta, senza dare troppo peso alle loro parole.
“Da quando quella dannata giornalista ha scritto il suo articoletto da quattro soldi, siamo invasi da curiosi, altri giornalisti, mitomani e pseudo esperti come voi. Questo è un ospedale, qui si curano i malati e non abbiamo bisogno che ci intralciate il lavoro, perciò andate via, prima che chiami la sicurezza.”
“No, lei deve ascoltarci, dannazione! - ribatté Arthur in modo così veemente da stupire persino il compagno, non abituato a vederlo perdere le staffe - Holmes potrebbe essere stato vittima di un estrattore onirico.”
“Ah! Questa dovevo ancora sentirla - sbottò la donna - complimenti per l’originalità, ma la mia risposta non cambia: andatevene.”
“Io ho bisogno di parlare con un familiare di Holmes al più presto.”
“Potete parlare con me - disse una donna mora alle loro spalle, facendo voltare entrambi - Anzi, volete seguirmi?” Senza perdersi in ulteriori convenevoli, Anthea si incamminò verso l’uscita e Arthur ed Eames la seguirono fino alla berlina nera con i vetri oscurati.
“Non mi piace per nulla” sussurrò Eames inclinandosi appena verso il compagno, ma la donna sorrise: “Se avete detto la verità, non avete nulla da temere. A meno che non siate direttamente coinvolti nel coma di Sherlock.”
“Non lo siamo - giurò Arthur - ma forse possiamo aiutarlo a uscirne.”
“Benissimo - la donna aprì la portiera dell’auto - allora vi prego di accomodarvi.”
Arthur entrò senza fare storie, mentre Eames fu più restio e gli indirizzò una smorfia poco convinta.
“Tesoro, nei film scene come questa si concludono con noi due chiusi nel bagagliaio e crivellati di colpi.”
“Eames!” Arthur lo guardò con rimproverò e poi si scusò con Anthea, la quale non si scompose e diede l’indirizzo all’autista.

Poco dopo i due sedevano nell’ufficio di Mycroft Holmes al Diogenes Club; anche John si era precipitato lì, non appena aveva saputo che potevano esserci novità su Sherlock: passeggiava avanti e indietro per la stanza, mentre Mycroft sfogliava attentamente un fascicolo chiuso in una cartellina rossa e Anthea stava servendo il tè.
Cristo santo, ma perché non si sbrigavano tutti quanti? Ogni minuto poteva essere fondamentale e questi si perdevano in convenevoli: rifiutò con un gesto secco la tazza che l’assistente di Mycroft gli porse e si portò di fianco all’uomo, schiarendosi la gola e invitandolo a dire qualcosa al più presto.
Quando Anthea ebbe lasciato la stanza, il maggiore degli Holmes appoggiò la cartellina sulla scrivania e sollevò lo sguardo verso i due uomini seduti davanti a lui.
“Signori Moore e Thompson, ho appena letto del vostro ‘lavoro’ e della reputazione che avete, pertanto mi perdonerete se sono scettico riguardo alle vostre intenzioni: fatico a credere che vogliate aiutare mio fratello per puro spirito di altruismo, dal momento che per voi è un perfetto sconosciuto.”
“Le chiedo solo di ascoltarmi, poi deciderà il da farsi” chiese Arthur, e quando Mycroft fece un cenno affermativo del capo, iniziò a spiegare tutto dal principio, su come fosse stato contattato da Edward Stan e perché.
All’udire il nome di Sebastian Moran, Mycroft si irrigidì, interruppe Arthur e chiamò Anthea con l’interfono, chiedendo che gli fosse portato un altro fascicolo.
“Scusate se mi intrometto - disse John con aria scettica - ho letto parecchio sull’estrazione di informazioni dai sogni e so che non provoca il coma nei sognatori: se qualcosa va storto ci si risveglia e basta. Inoltre non servirebbe un PASIV per far addormentare il sognatore?”
“John ha ragione - intervenne Mycroft - ho controllato personalmente i filmati delle telecamere di Baker Street relativi all’ultimo giorno in cui mio fratello era sveglio e nessuno si è recato a casa sua o è transitato lì davanti con una valigia che potesse contenere un PASIV e Sherlock non aveva segni di iniezioni: ecco perché con i medici abbiamo escluso l’ipotesi che potesse trattarsi di una estrazione finita male.”
“Prima di tutto, quando si opera a livelli molto profondi dell’inconscio, il rischio di coma esiste, glielo posso assicurare - disse Arthur rivolto a John - E inoltre Moran è in possesso di questi.”
Si sfilò dalla tasca uno dei dispositivi wireless di Edward e lo appoggiò sulla scrivania; Mycroft lo prese in mano e lo esaminò con attenzione, ma alla fine scosse la testa.
“Non ho mai visto questa tecnologia: che cos’è?”
“Si tratta di un dispositivo wireless inventato da Edward Stan, che produce gli stessi risultati di un PASIV. Funziona fino a una distanza di trenta chilometri, basta prendere una prima volta un campione di onde cerebrali del sognatore tramite questo scanner a mano, inserire i dati nel dispositivo, aspettare che il sognatore si addormenti, collegarsi e trascinarlo verso un terzo o un quarto livello o… oltre.”
“Per mesi - intervenne Eames - abbiamo cercato di intercettare Moran e mettere in guardia il sognatore che aveva preso di mira, ma potevamo solo agganciarci all’altro dispositivo, quello di Moran, non direttamente alla coscienza del sognatore, e quindi non ci siamo mai trovati sullo stesso livello per poterci parlare.”
“Dov’è Stan, l’inventore di questa diavoleria, e perché non sta cercando di rimediare al casino che ha combinato?” proruppe John con astio, stringendo i pugni.
“È morto, vittima del suo stesso dispositivo” disse Arthur, e John si lasciò cadere su una sedia, prendendosi la testa tra le mani.
“Merda.”
Un’altra notizia funerea, come se non ne avesse già ricevute abbastanza.
Registrò appena la presenza di Anthea che gli passò accanto per consegnare a Mycroft il fascicolo richiesto.
“Però, se Sherlock Holmes è davvero vittima di Moran, ora possiamo prendere un campione delle sue onde cerebrali e penetrare nel suo inconscio per tentare di svegliarlo” disse Arthur, evitando di aggiungere ad alta voce ‘sempre che della sua mente sia rimasto qualcosa’, perché quel John Watson, sprofondato nella sedia accanto alla sua, sembrava già estremamente provato dalla situazione: intuì che tra lui e Holmes dovesse esserci un rapporto speciale, ma non aveva abbastanza elementi per formulare un’ipotesi certa.
“Mio fratello è sicuramente vittima di Moran” disse Mycroft in tono grave.
“Come fai a dirlo, e chi è diavolo è questo Moran?” domandò John alzandosi di nuovo, sempre più nervoso, e si portò alle spalle di Mycroft per leggere il fascicolo.
“Sebastian Moran - disse Mycroft - ex colonnello dell’esercito britannico congedato con disonore e divenuto in seguito mercenario. Sherlock sospettava facesse parte dell’organizzazione di Moriarty, che addirittura fosse il suo braccio destro, ma non riuscì mai a dimostrarlo, e inoltre a un certo punto di Moran si perse ogni traccia mentre si trovava in Nicaragua e non ne avemmo più notizie, quindi ipotizzammo fosse morto.”
“Invece è vivo e vegeto: è proprio lui l’uomo che abbiamo visto nei sogni di suo fratello” confermò Eames guardando le foto del colonnello.
“Moriarty, ancora lui! Nemmeno da morto ci lascia in pace!” John si morse le labbra con rabbia: cristo, quell’incubo sembrava non avere mai fine!
“Se solo avessi preso in considerazione quello che sembrava improbabile - mormorò Mycroft - Sherlock lo diceva sempre…”
Era così raro vederlo abbandonare la sua facciata gelida e composta davanti a degli estranei e mostrare una emozione, che John fu preso dal panico: che speranze c’erano per Sherlock, se anche il più stoico degli uomini appariva così rassegnato?
“Penserete a piangervi addosso quando tutto questo sarà finito - la voce di Arthur riscosse entrambi - Ora dobbiamo provare a riportare indietro il signor Holmes.”
Solo in quel momento, a seguito delle parole di Arthur ed Eames, a John tornarono in mente quei sogni su Sherlock, così lucidi e vividi, che aveva avuto qualche mese prima e che si erano interrotti all’improvviso per non ripresentarsi più nella sua mente proprio poco prima che Sherlock cadesse in coma: e se non fossero stati semplici sogni? Se fosse accaduto anche a lui quello che i due uomini stavano raccontando?
“È possibile coinvolgere più persone nello stesso sogno con questo apparecchio?”
“Data la tecnologia del dispositivo, sì: si trascina un sognatore, detto secondario, nel mondo onirico di un altro, chiamato sognatore primario. Perché le interessa?”
John sbiancò come un lenzuolo e, quando parlò, la sua voce tremava leggermente: “Perché penso che per un certo periodo Moran abbia cercato di fare anche a me ciò che ha fatto Sherlock.”
“E lo dici solo ora?” proruppe Mycroft con rabbia, sbigottito dalla sua mancanza di perspicacia.
“Come facevo a sapere che si trattava di qualcosa del genere? - urlò John, sull’orlo della disperazione - All’epoca per me erano solo sogni. Certo, un po’ strani forse, ma solo sogni. Però, a pensarci ora, alla luce di quello che avete detto…”
“Cosa?”
“Erano sogni così coerenti e logici che sembravano veri: sembrava sul serio di vivere la realtà, ed erano così meravigliosi che a volte mi sono ritrovato a pensare che sarebbe stato bello continuare a sognare per sempre e non svegliarmi più.”
Arthur ed Eames si scambiarono uno sguardo di intesa e fu il primo a parlare: “Mi dica John, i sogni sono iniziati in un ambiente surreale o astratto per diventare via via più realistici?”
“Sì.”
“Allora ho pochi dubbi: Moran ha cercato di mandare in coma anche lei.”
“Non-non l’avevo capito, non avevo capito nulla” sospirò John chinando la testa.
“È molto difficile rendersi conto se si è vittima di un estrattore, specie se non si è mai avuto a che fare con queste tecniche.”
“E Moran ha questa familiarità, secondo lei?” domandò Mycroft.
“Da come si muove in ambiente onirico sì, direi che è un ottimo estrattore, sfortunatamente per noi.”
Il maggiore degli Holmes sfogliò il dossier dell’ex militare e alla fine lo chiuse con un gesto irritato.
“Non eravamo a conoscenza di questo particolare su di lui. Siete almeno in grado di dirmi quali informazioni può aver estratto da mio fratello?”
Eames ed Arthur si scambiarono un’occhiata d’intesa.
“Non crediamo che il suo scopo fosse quello di compiere una estrazione: da quel che abbiamo visto, Moran voleva che suo fratello si costruisse un mondo onirico talmente coerente da convincersi che fosse quello reale, e ci restasse per sempre. E a quanto pare ci è riuscito: nel momento in cui Sherlock non si è più reso conto che stava sognando, la sua mente lo ha intrappolato lì.”
“Così, in assenza di prove di un coinvolgimento di soggetti estranei, io avrei creduto che fosse una malattia, e mi sarei concentrato sul coma di Sherlock e sul trovare una cura per salvarlo, lasciando Moran indisturbato a portare avanti i suoi crimini e, al tempo stesso, vendicarsi di lui. Un piano astuto, lo ammetto.”
John prestò via via sempre meno orecchio alla conversazione nella stanza, e abbassò lo sguardo sui motivi della moquette sotto ai suoi piedi, ma senza vederla sul serio; finora aveva sempre creduto che i sogni su Sherlock fossero stati solo una proiezione dei suoi desideri, del suo inconscio, e anche Sherlock era stato tratto in inganno nello stesso modo: ricordava ancora una delle loro prime discussioni, con Sherlock convinto che John fosse solo una parte del suo sogno e viceversa.
Invece non era così: il suo amico era stato veramente lì con lui, non era stato un prodotto della sua mente. John aveva ascoltato le confessioni ed i pensieri più intimi e sinceri di Sherlock, senza filtri, senza reticenze, senza più bugie tra loro e la stessa cosa aveva fatto lui.
Era tutto vero.
Ora comprendeva anche il motivo per cui non voleva mai svegliarsi dopo quei sogni, perché nel profondo del cuore avevano entrambi desiderato la stessa cosa: un mondo solo per loro due, fatto di inseguimenti, avventure, pomeriggi piovosi nel salotto di Baker Street e risate idiote davanti alla forma delle nuvole.
E poi c’era stato quel quasi bacio, quell’impercettibile sfiorarsi di labbra e respiri, e non era stata solo una fantasia della mente di John, ma un qualcosa che avevano voluto entrambi: erano sul serio loro due che volevano amarsi come non avevano mai avuto il coraggio di fare nella realtà.
La potenza di questa rivelazione gli mandò i battiti del cuore a mille, ma le sue mani non tremarono.
Cosa sarebbe accaduto se quella notte non si fosse tirato indietro all’ultimo istante, spaventato dai suoi stessi desideri? Se si fosse lasciato andare?
Probabilmente ora le persone in coma sarebbero state due.
Però risvegliandosi lo aveva lasciato indietro: questa volta era stato lui ad abbandonarlo da solo in un universo che era fatto per due, e poco dopo Sherlock non si era più svegliato e ora giaceva immobile in un letto d’ospedale, avvicinandosi lentamente alla morte cerebrale senza saperlo, imprigionato in una illusione.
Accadevano solo cose terribili quando erano separati.
“John? John!” Mycroft dovette alzare la voce per riscuoterlo dai suoi pensieri.
“C-cosa?” balbettò.
“Ti ho chiesto cos’è successo l’ultima volta che hai avuto un sogno lucido con mio fratello.”
“Non ricordo bene, è passato del tempo - mentì John, che non aveva alcuna intenzione di mettere ora in piazza i suoi sentimenti e tutte le cose mai dette a Sherlock - Avevamo appena concluso un’indagine e messo k.o. un gruppo di malviventi, poi mi sono svegliato di soprassalto e da allora non l’ho sognato più.”
“Perché John si è svegliato e Sherlock no?” chiese allora Mycroft rivolto agli altri due.
“Sherlock è il sognatore principale - spiegò Arthur - John quello secondario che veniva trasportato nel suo mondo onirico: suppongo che il dispositivo non sia stato in grado di trattenere due sognatori contemporaneamente troppo a lungo e a un certo punto il sognatore secondario si sia sganciato. Piuttosto che perdere la connessione con entrambi, Moran ha scelto di concentrarsi solo sul sognatore principale.”
“E poi Sherlock e John sono due menti e due volontà distinte, era impossibile che si amalgamassero completamente, perché siamo tutti diversi e nessuno vuole le identiche cose di un’altra persona, per questo John si è sganciato” aggiunse Eames.
John aprì bocca per controbattere che non era affatto quello il motivo che lo aveva fatto destare, ma all’ultimo si trattenne: non avrebbe parlato del loro quasi bacio a Mycroft e a due perfetti sconosciuti.
Non si accorse dell’occhiata scettica che Eames gli scoccò.
“Cosa stiamo aspettando ancora? Dovremmo già essere in ospedale da Sherlock.”
“Ha ragione - disse Arthur alzandosi - ma prima dobbiamo passare da casa nostra a prendere tutta l’attrezzatura.”

Mentre l’auto viaggiava veloce in direzione dell’ospedale, John si ricordò di avvisare Mary che probabilmente per quel giorno non sarebbe tornato a casa e che, finalmente, c’era una speranza per Sherlock.
“John, è meraviglioso - rispose sua moglie all’altro capo del telefono, una volta assimilata la notizia - Quindi i dottori hanno scoperto il motivo del suo coma?”
“No, non i dottori: sono in macchina con due persone che… uh… lavorano con i sogni.” Gli sembrava brutto additare come ‘criminali’ i due uomini seduti davanti a lui e che probabilmente erano gli unici che potevano salvare Sherlock. Mentre Arthur reagì con una smorfia seccata, Eames sorrise divertito per la sua perifrasi, del tutto a suo agio.
“Stai parlando di estrattori? Mi stai dicendo che Sherlock è stato vittima di una estrazione?”
John restò leggermente sorpreso del fatto che sua moglie avesse capito al volo di cosa si trattava, ma d’altronde sapeva che era molto intelligente.
“Sembrerebbe di sì.”
“Ma chi è stato?”
“Ci crederesti? Il braccio destro di Jim Moriarty, Sebastian Moran.”
A questo punto Mary iniziò a balbettare allarmata: “Ma-ma ero convinta che Sherlock avesse completamente smantellato la sua organizzazione, aveva detto che non c’era più nessuno…”
“Sì, lo pensavamo tutti.”
“Quindi cos’è successo? - incalzò - Moran l’ha attaccato?”
“Sì, ma non ha usato un tradizionale PASIV: è in possesso di un dispositivo sperimentale che funziona wireless, e con quello ha fatto sprofondare Sherlock nel limbo.”
“Oddio…”
“E per qualche tempo ha cercato di fare la stessa cosa anche con me. Ti ricordi di quando mi rimproveravi di dormire troppo? Ecco, era per quello: ero nei sogni con Sherlock. Nei sogni di Sherlock, ad essere precisi.”
“È terribile.”
“Lo so. Adesso con questi due esperti proveremo a penetrare nei sogni di Sherlock e a riportarlo indietro. Siamo quasi al Barts, ti devo lasciare.”
“Ma…”
John riagganciò senza aspettare una risposta e, a casa loro, Mary scaraventò il telefono sul divano in un gesto di rabbia: di tutti i criminali sulla faccia della terra, doveva trattarsi proprio di Sebastian?
Se Sherlock era entrato nel mirino di Moran, allora l’ex colonnello di sicuro aveva preso informazioni anche su John e, di conseguenza, sapeva del loro matrimonio: Moran non trascurava alcun dettaglio quando si preparava ad agire contro qualcuno, lei lo sapeva bene. Maledizione! Nonostante i suoi sforzi, sembrava non ci fosse modo di scrollarsi di dosso il suo ingombrante passato.
Non sapeva nulla di cosa fosse successo nei sogni lucidi di Sherlock, ma se il detective aveva incontrato Moran e si era confrontato con lui, non era da escludere che il colonnello gli avesse raccontato qualcosa dei loro trascorsi, tanto per vantarsi. Anzi, era assai probabile: tipico di Sebastian, in fondo.
“Cosa faccio ora?” sussurrò in preda al panico: se fosse emerso che in passato aveva lavorato per lui e per Moriarty, John non l’avrebbe presa bene, e il loro rapporto era già appeso a un filo.
Forse, tramite qualche sua vecchia conoscenza, avrebbe potuto rintracciare Moran, ma ci sarebbe voluto del tempo e lei non ne aveva. E poi, cosa poteva chiedergli? Di rinunciare a quel piano? Di nascondersi e fuggire lontano da Mycroft Holmes?
Conoscendo il Colonnello non lo avrebbe mai fatto, e lei non aveva alcun mezzo per costringerlo o per ricattarlo, né il suo mentore aveva qualche debito d’onore nei suoi confronti, al contrario… temeva che se si fossero rivisti, Moran le avrebbe piantato una pallottola in testa senza darle tempo di aprire bocca: non amava particolarmente chi abbandonava la squadra durante un’operazione e se la dava a gambe da sola, come aveva fatto lei.
No, l’opzione Sebastian era da escludere.
C’era anche la possibilità che le cose non fossero andate così e che Moran non avesse affatto parlato di lei a Sherlock, e in quel caso la cosa migliore sarebbe stata restarsene a casa buona e tranquilla, continuando a fingere di non sapere nulla.
Cinquanta per cento di possibilità.
Come testa o croce di una moneta lanciata in aria, si disse, e in altre circostanze avrebbe trovato il pensiero molto ironico. Ma in quel momento non lo trovò affatto divertente.
Infine guardò davanti a sé, risoluta: no, non poteva restare seduta lì ad aspettare, era troppo rischioso. Doveva intervenire e piegare gli eventi a suo favore, doveva provare a boicottare il risveglio di Sherlock, convincendo John a tirarsi indietro: i due estrattori, per quanto bravi, non conoscevano la mente del detective, a differenza di suo marito, e senza il suo intervento, l’operazione sarebbe senz’altro fallita.
Sì, era senza dubbio la cosa migliore da fare.
Il pensiero che Sherlock sarebbe potuto morire senza l’intervento di John non le suscitò alcun turbamento: il suo matrimonio aveva la priorità su tutto.
“Signora, qualche problema?” Ludmila, la babysitter, uscì dalla cameretta con Edith in braccio.
“Sì, devo assentarmi per un po’: puoi fermarti ancora?” domandò mentre sfilava alcune banconote dal portafoglio.
“Sì, signora.”

Alan odiava il compito che il colonnello gli aveva assegnato: travestito da inserviente, doveva stazionare nei pressi della stanza di Holmes, per verificare che tutto procedesse secondo i piani e che i medici non facessero progressi nella ricerca di una cura.
Era annoiato a morte e non vedeva l’ora che quell’accidente di detective tirasse le cuoia, per potersi dedicare a un vero lavoro.
Ma capì che quella vicenda non si sarebbe conclusa tanto in fretta quando le porte dell’ascensore si aprirono e marciarono fuori Mycroft Holmes, seguito da Watson e niente meno che dai due tizi amici di Edward Stan. Fu abbastanza rapido a girarsi verso il muro facendo finta di spolverare un termosifone, abbassando la testa, e i due non lo riconobbero, ma non appena lo oltrepassarono e sparirono dietro l’angolo, estrasse il cellulare dalla tasca e chiamò Moran.
“Colonnello? Potremmo avere dei problemi.”

“Allora, cominciamo?” domandò John impaziente, camminando avanti e indietro nella stanza di Sherlock.
Arthur ed Eames si guardarono negli occhi ed il secondo scosse la testa.
“È meglio se lascia fare a noi - disse Arthur con calma - lei non hai alcuna esperienza con il mondo dei sogni e-”
“No - lo interruppe l’ex soldato, categorico - nessuno conosce Sherlock meglio di me e, qualunque cosa ci sia laggiù, nella sua mente, io sono la vostra miglior carta per farlo tornare indietro - si portò davanti ad Arthur e gli rivolse uno sguardo quasi supplicante - La prego… ti prego, Arthur.”
“Sono stato io ad abbandonarlo lì da solo, in totale balia di Moran, devo essere io a riportarlo indietro” diceva il suo sguardo accorato.
“Il fatto è che…”
“Io devo andare! - ripeté John - Come fai a non capire?”
“Ammesso che non sia già troppo tardi” borbottò Eames mentre districava i fili del monitor.
“Eames!” Arthur si voltò verso di lui e gli indicò la presenza di John con gli occhi: doveva davvero essere così brutale davanti a un uomo tanto disperato?
Eames tuttavia non si scompose e rincarò la dose: “Scusate la brutalità, ma qualcuno doveva dirlo: il tuo amico non è messo bene.”
Aveva collegato Sherlock al monitor che rilevava le onde cerebrali e l’attività cosciente della sua mente era drammaticamente bassa, a differenza di quella dell’inconscio, il cui picco di onde verdi sul monitor era molto alto.
“Moran è collegato a lui, ora?”
“No - rispose l’altro, controllando il suo dispositivo - una volta che il sognatore sprofonda nel limbo, non c’è più necessità che l’estrattore resti nel sogno, la mente fa tutto da sola.”
“Non importa - tagliò corto John - andiamo lo stesso.”
Arthur lo guardò ancora, e la sua disperazione era talmente evidente che alla fine annuì impercettibilmente.
“Arthur…” Eames cercò di opporsi, ma Arthur sembrava irremovibile e quindi alla fine il compagno si arrese.
“Ma sì, perché mai dovremmo seguire la strada più facile - sbottò in tono sarcastico - Io adoro complicarmi la vita.”
Prese un campione di onde cerebrali di Sherlock e le caricò sui due dispositivi in loro possesso.
“Questa procedura porterà via circa un’ora. Nel frattempo John, se proprio sei convinto di andare, devi procurarti un totem.”
“Un che?”
“È un oggetto che per te ha un significato particolare - spiegò Arthur - qualcosa di piccolo, che devi conoscere alla perfezione in ogni minimo dettaglio e che deve essere noto solo a te: ti permetterà di capire quando sei sveglio e quando invece sei nel sogno di qualcuno: in una parola, ti consentirà di non perdere la sanità mentale. Ogni frequentatore del mondo dei sogni ne ha uno.”
John scrollò le spalle: “Non posseggo nulla del genere. Oh! Però potrei usare il-”
“No, non devi dirmelo: meno cose sanno gli altri sul tuo totem, meglio è.”
“Va bene, devo solo fare una telefonata per farmelo recapitare.”
Uscì dalla stanza e compose il numero di Lestrade.
“Greg, sei in ufficio? Perfetto, mi serve un favore: ricordi il caso Hope? Ho bisogno di una delle prove, il proiettile estratto dal cadavere. Lo so che ti sto chiedendo una cosa illegale, ma lo sto facendo per Sherlock: forse posso aiutarlo e farlo uscire dal coma, ma ho bisogno di quel proiettile. Grazie, grazie davvero, ti aspetto al Barts.”
Chiuse la chiamata, si voltò e sussultò, trovando Eames dietro di lui, con in mano una valigia metallica.
“Dato che non hai mai partecipato a una operazione di estrazione, faremo una prova con un PASIV tradizionale, giusto per mostrarti cosa ti aspetta.”
“Ma non ho ancora il mio totem.”
“Non importa: ci terremo sul primo livello, non sarà pericoloso, e qualunque cosa dica Arthur, io mi rifiuto di portarti in un sogno senza un minimo di preparazione.”
“In realtà ci sono già stato qualche volta” gli ricordò John.
Eames sbuffò una risatina sarcastica: “Già, come vittima inconsapevole di Moran. Temo che questo non valga come preparazione.”
“Va bene” si arrese l’altro: tanto finché il dispositivo non veniva pronto, non poteva fare nulla, tanto valeva impiegare il tempo in maniera costruttiva.
Eames lo fece sedere su una poltrona reclinabile e gli legò la fascetta attorno al polso, gli comunicò che la marcia di Radetzky sarebbe stata la canzone per il calcio del risveglio, si sedette di fianco a lui e disse semplicemente “è ora”, prima di premere il pulsante rosso.
Un secondo dopo John si ritrovò al centro di una trafficata autostrada: un tir gli passò davanti a tutta velocità strombazzando e lo evitò per un soffio, ma lo spostamento d’aria lo colpì sul volto come uno schiaffo.
“Cosa cazzo…”
“Benvenuto!” disse Eames alle sue spalle con voce allegra, in piedi sulla barriera new jersey che divideva in due la carreggiata.
John si affrettò a raggiungerlo. “Stai cercando di ammazzarmi?” ringhiò in tono velenoso, ma l’altro non si scompose.
“Prima regola del mondo dei sogni: non crearsi mai alcuna aspettativa, non si può sapere cosa si troverà nella mente di un’altra persona.”
“Ma dobbiamo proprio restare qui?” domandò John alzando la voce per farsi sentire sopra i rumori del traffico.
Per tutta risposta Eames guardò la strada e il nastro si asfalto si sollevò di quasi novanta gradi rispetto al terreno, descrisse un ripido arco sopra le loro teste e toccò terra dall’altra parte. In tutto questo le auto continuarono a transitarvi sopra senza problemi, del tutto indifferenti alla legge di gravità.
“Regola numero due: scordati delle leggi fisiche che governano la realtà, qui tutto è controllato dalla mente e le possibilità che offre sono infinite.”
“Sì, questo l’avevo capito: quando sognavo assieme a Sherlock, abbiamo modificato l’aspetto di Londra varie volte, era… sì, era divertente.”
“Quindi non sei proprio un novellino: meglio così per noi.”
Passarono sotto al nastro d’asfalto e raggiunsero un’area di servizio sul lato della strada, poi Eames si voltò e invitò John a riposizionare la carreggiata.
A differenza di Eames, che aveva fatto tutto col pensiero, John dovette aiutarsi con un gesto: stese il braccio davanti a sé e lo abbassò lentamente, e allo stesso tempo anche la strada si riposizionò, ancora una volta senza che il traffico delle auto venisse in alcun modo turbato.
“A Sherlock la cosa veniva più naturale, è sempre stato più bravo di me” ricordò con un sospiro.
“Dipende anche dal fatto che lui era il sognatore principale. Non te la sei cavata male, a dire il vero.”
Eames gli fece segno di seguirlo all’interno della stazione di servizio, dove c’era un piccolo bar con dei tavolini, e ordinò due caffè.
“John, vorrei parlare di nuovo dell’ultimo sogno che hai fatto con Sherlock prima che Moran si disinteressasse a te.”
“Non c’è nulla da aggiungere” rispose John sulla difensiva, ma Eames si sporse verso di lui, picchiò una mano col palmo aperto sul tavolo e il suo sguardo si fece più duro: “Ehi, in passato sono già stato nella merda in un sogno perché qualcuno si rifiutò di dirmi come stavano esattamente le cose e non ho intenzione di ripetere l’esperienza. La mente di Holmes sarà un luogo pericoloso e ignoto per noi, perché né io né Arthur abbiamo avuto il tempo necessario per studiare con calma il soggetto, quindi devo sapere esattamente cosa aspettarmi. Ti ho portato in un mio sogno per farti avere tutta la privacy che vuoi e quello che dirai resterà qui, ma ho bisogno di sapere cos’è successo tra voi due.”
“Sherlock ha tentato di baciarmi - disse John, ma poi chiuse la bocca di scatto e scosse la testa - No, non è esatto: noi ci siamo quasi baciati, ecco.”
“Capisco. E tu non volevi? È per questo che ti sei svegliato?”
“No, non è affatto così: io volevo baciarlo e… non solo, ma…” Il dottore appoggiò la testa sul tavolino.
“John, se non l’hai notato, io e Arthur stiamo insieme, non sono un puritano né un bigotto, puoi parlare liberamente, e magari uscire dallo sgabuzzino, come si dice in questi casi.”
“Ma non è quello!”
“E allora spiegati, perché faccio fatica a capire.”
“Io volevo baciare Sherlock e restare lì con lui, lo volevo con tutto me stesso, ma sono sposato e ho una figlia, quindi non posso, non sarebbe giusto.”
“Mh, senso di colpa: interessante. Devi ringraziare la tua rigida morale, allora, perché è quella che ti ha impedito di finire in coma con Sherlock. Comunque resti sempre chiuso a doppia mandata in uno sgabuzzino” disse Eames in un tono leggero, quasi canzonatorio.
“Lo trovi tanto divertente?” John sbatté con forza un pugno sul tavolo e d’improvviso tutte le persone presenti nel negozio smisero di fare quello che stavano facendo e si avvicinarono a lui.
“Che-che diavolo succede?”
“Tu sei un intruso nella mia coscienza, mentre tutte queste persone sono frammenti del mio inconscio e quando hai alzato la voce ti hanno percepito come una minaccia. Ora calmati, altrimenti ti aggrediranno e ti risveglierai.”
John aggrottò la fronte davanti a quella nuova informazione, mentre ricordava i suoi sogni: “Le persone nella mente di Sherlock non l’hanno mai fatto.”
“Ne sei sicuro?” Eames si mostrò molto interessato.
“Sì, non mi hanno mai guardato con ostilità come stanno facendo le tue proiezioni, eppure capitava che alzassi la voce o che litigassimo. Con Sherlock è quasi inevitabile che accada” aggiunse con un mezzo sorriso.
“Ora capisci cosa significa questo, vero John?”
“Che… che Sherlock si fida di me?” chiese John con esitazione ed Eames sospirò pesantemente: “È molto più di questo: nel suo inconscio Sherlock ti accetta al punto tale da percepirti come un elemento integrante di sé e non come un qualcosa di estraneo. In tanti anni che faccio questo lavoro non mi era mai capitata di vedere una fiducia così incondizionata, è qualcosa che va al di là persino dell’amore. Un po’ ti invidio - disse infine - quando mi intrufolo in un sogno di Arthur, le sue proiezioni mi sbattono fuori a calci in culo!”
John restò in silenzio con lo sguardo fisso sulla tazza di caffè davanti a lui: al d là dei sentimenti venuti alla luce con quel quasi bacio, aveva sempre saputo di essere importante per Sherlock, sarebbe stato cieco a non averlo ancora capito dopo tutto quello che aveva fatto per lui e la sua famiglia, ma scoprire quanto fosse profondo e totalizzante quel sentimento lo lasciò sbigottito.
“Io non immaginavo che lui… io e mia moglie abbiamo avuto dei problemi in passato, per usare un eufemismo - rise amaramente - ma Sherlock mi spinse a perdonarla. Perché l’ha fatto se lui…? Dio!” John tornò ad appoggiare la testa sul tavolino.
“Forse perché pensava che tu saresti stato più felice con lei, forse non pensava di poterti rendere felice quanto meriti - azzardò Eames - Le persone finiscono per fare le cose più stupide per amore, e anche le più sbagliate.”
John mormorò che quelle parole non lo facevano sentire affatto meglio e tornò a tormentarsi i capelli con le dita.
“Senti, mi sembra di capire che il tuo rapporto con Holmes è molto complicato, ma quando saremo laggiù, nella sua mente, lui avrà bisogno di una motivazione fortissima per volersi risvegliare, e credo che tu sia l’unico in grado di fornirgliela.”
“E come faccio?”
“Non lo so: dipenderà dalle circostanze che incontreremo.”
“Questo non è affatto rassicurante.”
“Non voleva esserlo, era oggettivo.”
Dagli altoparlanti della stazione di servizio si diffusero le note della marcia di Radetzky.
“Il tempo è finito - annunciò Eames - fai attenzione a non mancare il calcio.”
“E cosa dovrei fare? Questo non me l’hai spiegato!”
“Lasciati andare, non opporti.”
“Oppormi a cosa?”
D’improvviso la stanza si inclinò all’indietro e cose e persone scivolarono verso la parete di fondo; istintivamente John si aggrappò con le mani al tavolino imbullonato al pavimento, nel panico, ma poi seguì le indicazioni di Eames e si lasciò cadere all’indietro, e un attimo dopo era nella stanza del Barts, sveglio.
“Com’è andata? - chiese Arthur.
“Dovrebbe essere pronto, o almeno lo spero, o saranno guai - rispose il compagno - Qui come andiamo.”
“Ci vogliono ancora una ventina di minuti prima che il tutto sia pronto. Di noi due chi va?”
“È meglio se lo faccio io, ho già stabilito un legame con John e sarà più semplice.”
“Loro due..?” sussurrò Arthur all’orecchio del compagno, indicando con gli occhi Sherlock e il dottor Watson.
“Magari fosse così semplice.”
“Ma le cose semplici non sono per chi sogna in grande, tesoro.”
Eames ridacchiò e si sporse per baciarlo, e John distolse velocemente lo sguardo da loro, sia per pudore, sia perché, nel profondo, li invidiava.

   
 
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