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Autore: AdeleBlochBauer    27/03/2016    2 recensioni
Se Valjean fosse stato presente quando Javert tentò il suicidio.
Un percorso morale e spirituale che, da qui, può scaturirvi.
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Una storia scritta qualche tempo fa, dedicata unicamente all'amore e alla gratitudine per Victor Hugo.
Non chiedo nulla e non ho nessuna pretesa: ma, forse, se hai amato I Miserabili quanto l'ho amato io, forse questo ti piacerà.
O, almeno, lo spero.
Grazie.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Javert, Jean Valjean
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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2. Ritratto di tigre

 
Chi, quel giorno, fosse passato per il Quai des Ormes poco prima di mezzanotte e fosse tornato nello stesso punto qualche ora dopo, avrebbe probabilmente avuto un motivo di perplessità: entrambe le volte avrebbe infatti visto uno stesso uomo, dalla statura alta e imponente, nello stesso atteggiamento, a capo chino e con le mani dietro la schiena, che percorreva la stessa via, quella del lungofiume,  nella stessa direzione, dell’Ile de la Citè, con la stessa falcata, lenta e calma, a tarda sera prima e a notte fonda poi.

L’unica differenza nei due momenti era che quella figura nera si era presentata dapprima indossando un cappello a cilindro ben calzato, mentre la seconda volta era a capo scoperto.


Un passante un po’ superstizioso avrebbe forse pensato a quella figura nera come ad un cattivo presagio, per via del suo aspetto particolarmente contrito; uno molto superstizioso potrebbe invece averlo creduto addirittura una creatura della notte, osservandone la fisionomia minacciosa e gli abiti scuri; un passante infine con altro per la testa  avrebbe semplicemente pensato ad una coincidenza. Ma l’uomo che passava per il lungosenna non era né un cattivo presagio, né una creatura della notte, né una coincidenza: era infatti, ma confidiamo che il lettore non abbia avuto difficoltà a riconoscerlo, l’ispettore Javert, mentre lasciava la casa di Jean Valjean a Rue de l’Homme-Armè, per due volte in quella notte.

Apparentemente, dunque, la situazione di Javert non era affatto mutata: si era ritrovato a costeggiare a capo chino il lungosenna prima, si ritrovava ora allo stesso modo, per di più con gli abiti ancora bagnati dalle acque del fiume. Difficile dire se il salvataggio di Jean Valjean l’avesse veramente liberato da qualche pensiero: dopo il colloquio con il vecchio criminale, causa prima di tutto ciò che aveva scatenato la sua crisi, a Javert sembrava di ritrovarsi ancora più confuso di prima.

Dopo che Jean Valjean l’aveva salvato alla barricata, Javert, pur avendo sofferto appieno la violenza fatale dell’impatto che il suo animo aveva subìto, assistendo impotente al crollo di ogni sua verità, consapevole che l’intero mondo fosse ormai inaccessibile al suo controllo, nonostante tutta la disperazione e lo smarrimento di quegli attimi, una certezza gli era ancora rimasta, limpida ed inaffondabile; l’unico potere che gli sembrava essere ancora legittimo: il predominio sulla propria morte.

Ora, non aveva più nemmeno quello.
La sua morte non apparteneva più a lui, a Javert, ma a Jean Valjean.
La promessa che aveva fatto al vecchio galeotto di non ricercare più il suicidio aveva la stessa rilevanza, per Javert, di un patto sancito con San Pietro in persona. L’entità di Jean Valjean, l’abbiamo detto, si era collocata pienamente nello spazio più profondo dell’animo di Javert, lasciato vuoto dopo la distruzione subìta della divinità legale.


Fermiamoci un istante a considerare quest’uomo particolarissimo, questa fatalità che condanna e protegge, quest’arcangelo feroce.

Javert è terribile, disumano, inesorabile. Questo lo sappiamo.

Ed è onorevole, probo, fedelissimo. Sappiamo anche questo.

Come conciliare tali caratteristiche in un unico, efficace metro di giudizio?
In poche parole, chi è Javert? E, soprattutto, quali sono le sue colpe?

Procediamo con ordine. Da cosa derivano le colpe? Dalle scelte. Quali sono state le scelte di Javert?

Osserviamole da vicino: nato da genitori criminali, Javert sceglie la legge. Cresciuto nella miseria, sceglie l’onestà. Educato nell’odio, sceglie l’umiltà. Si forza a leggere, pur non amando i libri. Obbedisce, pur non apprezzando l’autorità. Si autodenuncia, pur non essendo colpevole.

Javert è, dunque, un uomo che consacra la propria vita all’onestà? Sì. Ma non solo.

Da poliziotto, Javert è spietato. Condanna a morte i miserabili, venera i possidenti, identifica la legge morale con quella sociale. Infrange qualche regola? Commette di proposito qualche atrocità? Agisce per proprio tornaconto? No. Ma è cieco, ignorante, incosciente. E non c’è peccato peggiore, per un’anima, dell’essere cieco di fronte alle altre anime. Javert è, dunque, una bestia al servizio del sistema legale? Sì. Ma non solo.

È evidente come le scelte di Javert, durante la sua vita, non possono che essere considerate più che onorevoli. Quando Javert si è trovato in un bivio, ha sempre scelto la via della giustizia. Commettendo tragici errori. Le sue tremende, fanatiche convinzioni non sono giustificabili, ma non possono essere considerate delle colpe, poiché non generate da scelte consapevoli. Le idee di Javert, come quelle di Jean Valjean prima dell’incontro con il vescovo, non sono altro che un tragico effetto della fatalità: Jean Valjean, lo ricordiamo, uscito da galera era un uomo pericolosissimo, di nome e di fatto. Non aveva anche lui, come Javert, ideologie assolute sulle leggi dello Stato? Non era, come Javert, accecato da una visione del mondo cinica e classista? Javert e Jean Valjean non erano le due facce di un’unica medaglia? Ebbene, perché Jean Valjean è, ora, un uomo redento? Cos’è successo perché gli fosse stata concessa una possibilità di perdono? Ha avuto una scelta. L’incontro con il vescovo. È stato messo di fronte alla fallacità di tutte le sue convinzioni, ha attraversato una sconvolgente crisi interiore, e ha scelto di ricominciare.

E Javert, lui, l’ha avuta questa possibilità?

Sì. Ma ha scelto il suicidio. O meglio, ha scelto l’annullamento. La liberazione da parte di Valjean era una possibilità di rinascita per Javert, esattamente come il colloquio di Valjean con Bienvenue Myriel lo era stato per il forzato. Ma a Javert è mancato il coraggio, la forza, la volontà di rinascere. Javert era terrorizzato dal dubbio e dall’incertezza: voleva l’assoluto. E l’aveva ricercato nella legge. Ma quando questo assoluto è venuto improvvisamente a mancargli, in modo così traumatico, non ha potuto fare altro che gettarsi in un altro assoluto, l’unico a lui rimasto: l’ombra. L’annullamento dell’oblio. L’oscuro abisso delle acque del fiume.

Kant concepì tre leggi della moralità, stilate come segue:
Prima legge: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di legislazione universale.”
Seconda legge: “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.”
Terza legge: “Agisci in modo tale che la tua volontà possa, in forza della sua massima, considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.”

Spieghiamo brevemente: la legge morale da seguire deve essere concepita in modo tale da valere ed essere appropriata universalmente, punto primo. L’umanità propria e quella altrui deve essere da considerarsi unicamente come il punto d’arrivo di ogni legge morale, punto secondo. Si raccomanda di giudicare se stessi con gli stessi parametri di come, in virtù della propria legge morale, si osserva il mondo esterno, punto terzo.
Appare evidente al lettore come Javert abbia già fatto proprie la prima e la terza massima.

Ma la seconda?
Parla dell’umanità. Ecco il fine, ecco l’obiettivo della legge morale. Ebbene, qual è l’obiettivo della morale di Javert?

Non l’umanità.

Un piccolo confronto: Javert ed Enjolras. Entrambi assoluti, entrambi integerrimi, severissimi e completamente votati ad un’idea. La differenza? Enjolras ripone la sua fede, la sua legge e la sua intera vita nella salute e nell’avvenire dell’umanità, vale a dire il Progresso; Javert si vota totalmente alla giustizia legale. Non umana, né divina: legale. Entità astratta, completamente slegata all’uomo nella sua essenza. In tal modo, il fine di Javert non è l’umanità, ma l’ordine forzato dell’umanità.

Javert è la negazione assoluta del secondo imperativo kantiano, in quanto non solo sminuisce l’umanità altrui in nome dell’ordine sociale, ma anche la propria: basta osservarne il comportamento durante la sua prigionia nella barricata. Javert accetta con la più impassibile serenità di essere fucilato a sangue freddo. Come potrebbe essere altrimenti? Aveva una missione, affidatagli direttamente dal servizio di polizia, è stato scoperto dal nemico, ha fallito, è giusto che paghi.

Perfettamente in linea con la sua concezione del proprio ruolo. Javert non ha paura, né tiene speranza né volontà di sfuggire alla morte certa: la sua vita è unicamente un mezzo per servire il sistema, il Codice, la legge; una volta che questo mezzo si rende inutile, ovvero quando commette un errore, si fa scoprire, non ha senso lottare per difenderlo. E non ha senso mantenerlo, se servire il sistema è diventato impossibile.


Per questo, Javert si è suicidato. Per questo, solo per questo Javert sarebbe condannabile: non per la vita che ha vissuto, ma perchè, davanti alla redenzione, ha scelto la rinuncia.

Eppure, Javert non è morto. Miracolosamente salvato -imperscrutabili leggi del destino!-, ha ora una seconda possibilità. Il non-morto deve rinascere. Ciò che Jean Valjean ha strappato alla morte, Javert dovrà riportare in vita. Per aspera ad astra*.

Javert, nel suo vagabondaggio, passò davanti al Pont du Notre-Dame. Vide il cappello che aveva lasciato sul parapetto.

Lo lasciò lì.


Proseguì nel buio.



 
 







 
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*  Seneca: “Fra le asperità, verso le stelle.”
   
 
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