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Autore: Kind_of_Magic    28/03/2016    2 recensioni
«Smettila» disse Wanda.
«Di fare cosa?» gli occhi di Loki lampeggiavano di divertimento «Di bloccare la tua mente? Vuoi davvero sapere cosa penso? Basta chiedere, te lo dico io: penso che non siamo così diversi come credi tu»
«Non è vero»

[Post AoU] [Clint/Natasha] [Wanda/Visione] [Loki/Bucky] [accenni a Steve/Bucky]
Un essere misterioso noto come K dichiara guerra ai Vendicatori e la squadra non si tira certo indietro. Questa volta, però, sembra che i loro metodi stiano varcando il limite.
Nick Fury si vedrà costretto a fronteggiare una situazione che non aveva calcolato: come difendere la Terra dai suoi Vendicatori?
Così, mentre Quicksilver si riprende dal coma, Loki cerca di capire perché la realtà sembri sul punto di andare a pezzi e la dottoressa Kim lavora su un progetto che le è stato ispirato da un sogno, il colonnello dovrà assemblare un nuovo team.
Nel frattempo, però, bisognerà scoprire cosa ha trasformato i Vendicatori in dei randagi, cosa li ha fatti deviare dall'obiettivo.
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Loki, Nuovo personaggio, Pietro Maximoff/Quicksilver, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Avvertenze, leggere e conservare:
Questo capitolo contiene la distruzione di tre ship (non presenti nell'introduzione), due delle quali molto malamente.
Potrebbero esserci quantità di Angst superiori a quelle consentite a norma di legge.
Maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata e dalla vista dei bambini e delle fangirl troppo irritabili.

Da solo

Di nuovo da solo
Aveva trovato un suo equilibrio,
un modo per tirare avanti,
aveva trovato lei

Lei che si occupava di tutto,
che sorrideva
quando lui dimenticava il suo compleanno
Lei che lo obbligava a portarla al cinema,
ma gli lasciava scegliere il film
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva normale

Di nuovo da solo
Dopo ciò che aveva passato,
aveva trovato un nuovo amore,
aveva trovato lei

Lei che aveva fatto il primo passo,
che non lasciava
che lui si dedicasse troppo al lavoro
Lei che si lasciava corteggiare come una volta,
ma lo portava in discoteca il venerdì
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva un ragazzino

Di nuovo solo
in un mondo sconosciuto
come unico appiglio
aveva trovato lei

Lei che lo aveva aspettato,
che si impegnava
per non farlo mai sentire fuori posto
Lei che sapeva scegliere un abito elegante,
ma era bellissima anche in pigiama
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva a casa

Tony non riusciva a stare fermo: si sedeva su una delle poltroncine della sala d’aspetto per poi rialzarsi immediatamente dopo, camminava nervosamente su e giù per la stanza, cercava di dare un’occhiata oltre la porta dalla quale erano spariti i medici, si sedeva di nuovo e prendeva a torcersi le mani con un’ansia incredibile che sarebbe sembrata esagerata a quanti non conoscessero ciò che stava passando; era una pena da vedere, impossibile non dispiacersi per lui.
Non riusciva a smettere di darsi la colpa di quanto era successo. Si diceva che era stato lui a metterla in pericolo tante di quelle volte che era impossibile che prima o poi le succedesse qualcosa. Era stato il solito narcisista a pensare di poterla proteggere per sempre. Avrebbe dovuto accorgersi del proprio errore fin da quando Killian aveva mandato quegli elicotteri a casa sua, fin da quando era stata rapita e aveva rischiato la morte, invece no, aveva voluto fare di testa propria, come al solito. Solo che di solito quando faceva di testa propria in un modo o nell’altro le cose si risolvevano. Quella volta non era così.
La porta si aprì e a Tony si fermò il respiro. Due medici, un uomo biondo e una donna bassa dai capelli scuri, entrarono nella sala d’aspetto guardandosi intorno: era una giornata abbastanza tranquilla. O almeno, lo stavano pensando tutti e due. Avevano fatto entrambi dei turni nei giorni successivi alle grandi catastrofi che avevano travolto la città e quelle quattro persone che li fissavano con trepidazione erano nulla al confronto del loro ricordo di quelle ore infernali. L’uomo controllò la cartellina che aveva in mano e poi chiamò un nome, che Tony non sentì. Sapeva solo che non aveva chiamato lui. Il suo sguardo si annebbiò leggermente, mentre la donna bruna che era seduta accanto a lui si alzava per seguire i due medici oltre la porta. Si strofinò gli occhi per vedere meglio.
Si costrinse a rimanere seduto, ma doveva assolutamente fare qualcosa: sentiva che altrimenti sarebbe sicuramente impazzito. Infilò una mano in tasca e trovò una carta di caramella. Chissà come c’era finita lì. Dopo qualche minuto perso a guardarla fisso, si ricordò. L’aveva offerta a lei qualche giorno prima, ma lei era di fretta e l’aveva dovuta rifiutare, così l’aveva mangiata al posto suo. Cominciò a lisciare la carta finché non fu perfettamente liscia, poi cominciò a piegarla in triangoli sempre più piccoli.
Era sicuramente colpa sua. Non sapeva perché quegli uomini avessero fatto quello che avevano fatto, ma era certo che fosse colpa sua. Lei era sempre così impegnata perché aveva preso sulle proprie spalle tutte le incombenze che Tony trascurava e l’attività di lui era estremamente pericolosa per coloro che gli stavano intorno. Chissà se avevano voluto colpire le Stark Industries o Tony Stark personalmente. Li avrebbe trovati. Voleva interrogarli, tirare fuori da loro ogni particolare di quello che avevano fatto, scoprire il mandante, se ce n’era uno, e fargliela pagare.
La porta si aprì di nuovo proprio mentre finiva una piega alla carta di caramella. Lo stesso medico di prima accompagnò dentro un collega minuto, dai capelli neri. Si comportavano in modo diverso da prima: i loro sguardi erano rivolti per terra, evitando quelli di tutti i presenti. Le tre persone che erano sedute in attesa si alzarono in piedi nello stesso momento, trattenendo il fiato per la paura.
«Virginia Potts» mormorò il biondo a un volume di voce troppo basso perché qualcuno di loro potesse sentire. I tre chiesero all’unisono di ripetere. L’uomo scosse la testa, come se non avesse potuto, e guardò il collega.
«Virginia Potts» ripeté il moro.
Tony fece un passo avanti come in un sogno. La carta di caramella che aveva in mano gli cadde per terra. Nella sua testa fece un rumore fortissimo, come quello di un palazzo di quindici piani che collassa sulle proprie fondamenta. Nella realtà nessuno la sentì. Le altre due persone si sedettero. Sapeva che erano sollevate, da qualche parte dentro di lui c’era una parte minuscola della sua coscienza che li capiva, ma non poteva impedirsi di odiarli con tutto il cuore, perché non erano loro che stavano seguendo i medici oltre quella porta. Fece qualche passo nel corridoio, poi sentì il mondo girare e si fermò. Cercò di deglutire, ma la sua gola era secca. Si appoggiò al muro e guardò i due medici.
I due uomini conoscevano quello sguardo, l’avevano visto tante volte nel loro lavoro. Era la disperazione più nera, trattenuta appena da un filo sottilissimo di speranza, alla quale Tony si stava aggrappando con tutte le forze. “Contraddite i miei pensieri” imploravano quegli occhi scuri “Contradditemi. Per favore. Voglio avere torto. Non succede mai. Fatemi avere torto”. Promise a se stesso che non avrebbe mai più permesso che succedesse una cosa simile. Se gliel’avessero ridata indietro, avrebbe rinunciato a quella vita, alle armature, a tutto quanto, pur di tenerla al sicuro. Le avrebbe dedicato ogni singolo istante della propria vita. Ora lo sapeva, sentiva in ogni cellula del suo corpo, che gridava di dolore per ciò che stava accadendo, che Pepper era la cosa più importante della sua vita.
Lei che gli era stata accanto in tutti i momenti più difficili, che l’aveva sopportato, che lo aveva aiutato a risollevarsi dai periodi più neri, dallo stress più opprimente. Lei che gli aveva finalmente ridato una sorta di equilibrio, di pace. Lei, alla quale era certo di aver detto troppe poche volte che l’amava. Lei che ormai se l’aspettava che Tony si dimenticasse del suo compleanno, ma poi pretendeva che lui la portasse al cinema per farsi perdonare. Con lei si sentiva così giusto, come se non ci fosse nulla di più normale che essere come lui. Aveva sognato per tutta la vita di trovare qualcuno così. Non potevano portargliela via, doveva dirle che l’amava, almeno altre dodici volte. Guardò prima l’uno, poi l’altro medico.
«Mi dispiace» disse il moro «Non ho potuto fare nulla. Lei…» non aggiunse altro, lasciando in sospeso la frase, ma sapevano tutti che cosa voleva dire. Tony lo guardò fisso negli occhi, come se non avesse capito quello che aveva detto. Come se avesse parlato un’altra lingua. Ma poi fu certo di aver capito anche troppo bene. Vide l’ospedale ruotare intorno alla sua testa. Si sentì cadere e chiuse gli occhi. Il biondo lo sostenne con un braccio.
«No» mormorò Tony. La sua voce era così fioca che i due medici non si sarebbero nemmeno accorti che stava parlando, se non l’avessero visto muovere le labbra.
«No» il biondo lanciò uno sguardo al moro. “Che cosa possiamo fare per lui?” chiese con gli occhi. “Nulla. Lo sai” fu la rassegnata quanto silenziosa risposta del collega.
«No» ripeté ancora Tony.
«No»
 

«Se è questo che pensi, puoi anche andartene. Conosci la strada per casa, la porta è di là» Sharon lo fissava con i suoi occhi azzurri. La rabbia era quasi palpabile nell’aria. Steve si pentì immediatamente di ciò che aveva detto: «Scusa, Sharon, io non intendevo…»
«Invece intendevi» lo interruppe Sharon «E avevi ragione»
«No, Sharon, scusa, è che sono molto stanco in questo periodo e le cose tra noi non stanno andando benissimo, ma non ne parliamo mai e quindi…»
«Sì, è vero, non ne parliamo mai» cominciò Sharon, che evidentemente aveva ragionato a lungo sull’argomento e sapeva cosa dire «Ma cosa vorresti dire? Vorresti dire che non andiamo d’accordo su molte cose? Perché è vero. Vorresti dire che non siamo capaci di ascoltare l’altro e le sue necessità? È verissimo anche questo. Litighiamo, Steve, gridando per il piacere di gridare. Non ci interessa neanche che l’altro senta quello che abbiamo da dire. È sufficiente stare gridando, te ne sei accorto? Quante volte sono, ormai, che ci urliamo addosso per poi accorgerci che eravamo d’accordo? Non siamo capaci di stare attenti all’altra persona, non dico ai suoi bisogni, a quello che potrebbe volere, ma a quello che dice in quel preciso istante. Ci interessiamo così poco che stiamo anche smettendo di faticare per trovare un momento per vederci. E d’altronde, perché dovremmo cercarlo, se poi ogni volta che ci vediamo il risultato è questo?»
Sharon fece una pausa, cercando con gli occhi quelli di Steve per cercare di capire se il suo discorso stesse sortendo un minimo effetto. L’uomo pareva davvero impressionato, così lei riprese: «Non siamo fidanzati perché abbiamo deciso così liberamente, Steve, ma non siamo neanche una coppia. Non siamo niente, solo due persone che si sentono sole e cercano maldestramente di alleviare questo sentimento. Due egoisti che non sanno se stiano cercando qualcuno da ignorare o qualcuno di cui gli importi abbastanza da sforzarsi un minimo. Io ho il nuovo lavoro e non sarei disposta a sacrificare un’ora di lavoro per uscire con te. Tu lo sai e non me l’hai mai chiesto. Ma anche tu non rinunceresti ad alcun incontro con i Vendicatori o missione, se te lo chiedessi» Steve fece per dire qualcosa, forse per protestare, ma cambiò idea, scuotendo la testa.
«Certo» continuò Sharon «abbiamo del tempo per vederci lo stesso, ma è la certezza che ci sia qualcosa che per l’altro conta più di noi che non fa funzionare il tutto. Non ci siamo mai promessi una relazione di dedizione completa, è vero, nessuno di noi voleva annullarsi per l’altro, ma c’è una bella differenza tra il non volersi annullare per l’altro e l’ignorarlo palesemente»
«Io non ti ignoro palesemente, Sharon!» esclamò Steve contrariato «E nemmeno tu e lo sai benissimo»
«D’accordo, d’accordo, ma dimmi sinceramente –sinceramente, ok?» Steve annuì «Davvero non hai mai avuto anche tu la sensazione che ci sia qualcosa che non va tra di noi oltre ai litigi? Davvero non ti è mai sembrato che ci importasse troppo poco l’uno dell’altra?»
«Io…» Steve fece una pausa e respirò profondamente un paio di volte «In effetti, sì. Ma sono sensazioni passeggere, Sharon. Quello che resta è altro. Sono i bei momenti passati insieme, le volte che ci cerchiamo senza aver bisogno di qualcosa, quei pensieri che dedichiamo all’altro durante la nostra giornata perché qualcosa ci fa ricordare un battuta che abbiamo fatto. Le canzoni che ascoltiamo insieme cantando a squarciagola, tu che setacci i locali alla ricerca dell’hamburger più grande del mondo e io che ti vengo dietro come un idiota. Questo è quello che conta. Quando andiamo in moto insieme e sembra che il tempo si fermi, questo è quello che conta!»
Sharon sorrise sentendolo parlare così, ma scosse comunque la testa: «No, Steve, per me non è una sensazione passeggera. E anche se posso sorridere anch’io dei bei momenti che hai descritto adesso, non credo di poter continuare così. Non sento più lo stesso legame tra noi. Da qualche parte, tra i tuoi civili morti e le mie missioni segrete, si è rotto il filo che ci univa più strettamente e io mi sento fluttuare. Non ce la faccio, Steve, mi dispiace. Dai pure tutta la colpa a me, non credo ci sia cosa più giusta»
La donna raccolse la propria borsetta dal divano e la giacca dall’appendiabiti. Si avvicinò a Steve, esitò per un attimo, poi gli diede un bacio all’angolo della bocca. Steve cercò con poca convinzione di trattenerla tra le proprie braccia, ma Sharon scivolò con grazia lontano dalla sua presa: «Ti prego, non cercarmi più. Mi mancherai»
Steve rimase come inebetito a fissare la porta anche molto tempo dopo che lei era andata via, chiudendola alle proprie spalle e seppe senza ombra di dubbio che si trovava un’altra volta da solo. Sentì fortissima la mancanza di Bucky, di Peggy e di tutti gli altri amici che aveva perso. Aveva il presentimento che presto avrebbe sentito anche la mancanza di Sharon.
 

Era l'una e mezza del pomeriggio. Il cielo grigio sembrava voler schiacciare la terra con la propria incombenza. Il cellulare di Thor continuava a squillare. Dopo averlo cercato, invano, per tutta la camera da letto, il dio lo trovò sul tavolo della cucina.
«Pronto?» “Thor, sono Darcy” «Ciao, Darcy, dimmi pure» “Dovresti venire qui. Subito” «È proprio così urgente?» “Si tratta di Jane” «Arrivo, dove siete?» “Sai dov'è il laboratorio?” «Sì. Ma cosa è successo?» “È meglio che tu lo veda di persona. Non voglio che guidi preoccupato” «Perché, credi che non lo sia adesso?» “Fidati, è meglio così.”
Thor avrebbe voluto chiederle altro, ma Darcy riattaccò. Al dio non restò altro da fare che cambiarsi in tutta fretta, uscire di casa e guidare agitatissimo fino al laboratorio di Jane. Fuori piovigginava: stando in casa non se n'era accorto. Non aveva preso alcun ombrello, ma era abituato alla pioggia. Parcheggiò poco distante e percorse a piedi le poche centinaia di metri che rimanevano.
La prima cosa che sentì fu il rumore: voci di gente che discuteva, raccontava, faceva telefonate, commentava e gridava. Di solito con la pioggia e il freddo la gente non si fermava mai, aveva sempre fretta di andare da qualche parte. Invece lì c'era un numero inspiegabilmente alto di persone. Poi vide l’ambulanza. E realizzò che doveva essere successo qualcosa di brutto. Darcy gli corse incontro, sembrava sconvolta: «Thor! Eccoti, finalmente!»
«Cosa è successo, si può sapere?»
«Non lo so esattamente neanche io. Io, noi... Ero con Jane e lo stagista e stavamo andando a pranzo nella tavola calda qui vicino. A un certo punto mi sono girata e… Oddio, quanto mi dispiace… Jane non c'era più. Ho sentito delle urla là fuori… Non sai che spavento… e sono uscita di corsa. E ho visto, lei era... L'autista stava scendendo in quel momento dalla macchina. Quando ha visto che... quello che era successo, ha cominciato a gridare come un ossesso e poi noi, io...»
Thor smise di ascoltarla. "Quello che era successo" aveva detto Darcy. Ma cosa era successo? Fece qualche passo avanti, verso l'ambulanza, e si trovò vicino a quella folla incredibile. C'era davvero troppa gente. Vedendolo, le persone si spostavano: alcuni riconoscevano il dio del tuono, altri erano semplicemente messi in soggezione da quell'uomo biondo imponente che aveva l'aria di chi arriverà dove vuole, senza nessun problema a camminarti sopra, se necessario. Gli infermieri, due donne e un uomo, erano già risaliti a bordo dell'ambulanza e stavano per chiudere le porte per poter partire. Thor intravide una donna distesa, coperta con un telo: «Jane?» disse
I tre si voltarono a guardarlo. Una delle due donne si scese dal veicolo e fece segno agli altri di andare, poi si avvicinò al biondo che fissava confuso le porte ormai chiuse. «È qui per la signorina Foster?» gli chiese. Ricevette come unica risposta un lieve cenno del capo.
«Mi dispiace molto»
Partita l'ambulanza, la folla cominciò a disperdersi, scoraggiata dalla pioggia che si faceva sempre più battente. Darcy contribuì con la sua consueta cordialità a farli andare via: «Su, andate! Razza di avvoltoi, non c'è nulla da vedere!» poi si rifugiò dalla pioggia sotto un balcone. In mezzo alla strada rimaneva soltanto il dio, che continuava a fissare davanti a sé con occhi vitrei, come se ci fosse stata ancora l'ambulanza.
«Jane!» cominciò a gridare Thor, dopo aver realizzato il significato di ciò che aveva visto. L'infermiera, una donna bionda, robusta e dai grandi occhi scuri, gli si avvicinò. Fece un sospiro: le era già capitato molte volte di trovarsi in quella situazione, ma era quel genere di cose al quale non si sarebbe mai abituata, ogni volta era come la prima. Posò una mano sulla spalla dell'uomo, che continuava a gridare.
«Jane, Jane, Jane, Jane...» ripeteva Thor. Quella parola, il cui suono stesso era diventato sinonimo di serenità per lui, cominciava a sembrargli terribilmente odiosa. Jane. Quattro lettere, come casa. Perché era quello che era lei per lui. Casa. Quelle quattro lettere un bel giorno erano passate da non significare nulla a voler dire “casa”. E tutto grazie a lei. Cadde in ginocchio sul marciapiede, mentre la pioggia gli infradiciava i capelli biondi facendoli appiccicare alla sua fronte. La donna di fianco a lui non dava segno di volersi muovere. Thor fu colto dal desiderio di spingerla in terra con tutta la forza che aveva. Quella donna non poteva capire la lacerazione che sentiva dentro di sé. Eppure rimaneva lì, a prendersi la pioggia come lui, per stragli accanto. Per lui. Trattenne il proprio primo impulso e la guardò.
L’uomo alzò lo sguardo verso di lei e la donna ci vide la disperazione più nera e totale. Riconobbe se stessa anni prima. Non sapeva cosa dire. Anzi, sapeva che non c’era nulla da dire che potesse combattere l’abisso scuro che, ne era certa, si stava aprendo dentro di lui. Con un gesto delicato, quasi materno, gli spostò le ciocche appiccicate sulla fronte da davanti agli occhi. Thor si sedette sui talloni e tornò a guardare i segni di pneumatici della frenata che segnalavano il luogo dell’incidente. La donna si sedette di fianco a lui sull’asfalto bagnato per portarsi alla sua altezza, come si fa con i bambini, incurante dei vestiti sempre più inzuppati d’acqua e del freddo che sentiva correrle lungo la schiena. Thor si voltò di nuovo verso di lei, facendole provare il desiderio di distogliere lo sguardo. La donna resistette a quel vuoto negli occhi azzurri di lui che sembrava voler risucchiare qualunque cosa lo circondasse.
«Mi chiamo Natalie» disse
«Thor, figlio di Odino» rispose il dio, senza cambiare espressione, distogliendo lo sguardo per tornare a guardare il luogo dell’incidente «Mentre lei è, era, Jane» pronunciare quel nome gli diede un brivido imprevisto lungo la schiena.
«Fa male» disse Natalie. Non era una domanda. Thor capì. Non era vero che non capiva la sua lacerazione. Doveva averla sentita anche lei, un tempo. Ce n’era ancora una dolorosa sfumatura, nella sua voce.
«Con il tempo migliora. Leggermente. Ma continua sempre a fare male. Sempre. Dopo tanto tempo, a volte puoi distrarti e dimenticare. Ma non potrai mai cancellarlo del tutto. È una parte di te anche questo. Puoi conviverci, ma non puoi cacciarla»
«Perché mi dici questo?»
«Perché quando a me dissero che il tempo avrebbe lenito le ferite, che sarebbe passata, io sentii un terribile istinto omicida. Era una bugia, lo sapevo io e lo sapevano tutti quelli che continuavano a dirmelo, come se ripeterlo avesse potuto renderlo vero. Le bugie non aiutano a sopravvivere a questo genere di cose. E io voglio aiutarti»
«E perché vuoi aiutarmi?» In quegli attimi assurdi, Thor non riusciva a impedirsi di fare domande, come se l’unica cosa importante in quel momento fosse ascoltare Natalie che gli spiegava cosa stesse succedendo. L’unico modo per non sentire l’urlo assordante che c’era nella sua testa e ripeteva “Jane, Jane”. Casa.
«Perché è questo che faccio io nella vita. Sono un’infermiera, aiuto le persone. Lo so cosa stai passando, ok? Lo so come so perfettamente che non ci si passa sopra. Mai. Ma si può sopravvivere comunque. Non da soli. Da soli è quasi impossibile. Per questo ci sono io»
«Tu credi si possa sopravvivere?»
«Lo so. Guardami, sono ancora qui» ci fu una pausa di silenzio, in cui Thor la fissò a lungo, come se avesse voluto davvero sincerarsi che lei fosse viva, che si potesse in qualche modo sopravvivere al buco nero che aveva preso il posto del suo stomaco e lo stava risucchiando da dentro. Natalie si sentì, forse, un po’ in soggezione per quello sguardo così intenso, ma se era così non lo diede a vedere.
«Cos’era lei per te?» domandò dopo qualche minuto. Aveva freddo, ma non era il caso di muoversi da lì. Sapeva che doveva farlo parlare, se si fosse tenuto tutto dentro avrebbe potuto esserne soffocato.
Thor esplorò la propria mente alla ricerca di una risposta adatta, ma poi si disse che era una ricerca inutile, perché c’era una cosa sola che potesse dire: «Casa»
«Casa?» ripeté Natalie
«Casa. Un porto asciutto, un luogo dove mi sentivo sicuro, dove non dovevo combattere. Questo era lei. La persona che mi ha accolto, senza farmi sentire fuori posto. Si impegnava ogni singolo giorno della nostra vita insieme per dimostrarmi che se il mondo mi vedeva diverso allora era il mondo ad avere qualcosa che non andava. Lo sai, sono stato via tanto tempo. Mi ha aspettato. Ha cercato di dimenticarmi, l’ho fatto anche io. Ma in realtà ci stavamo aspettando tutti e due. E tornare da lei è stato come tornare a casa»
La pioggia stava diminuendo. Natalie si scostò i capelli fradici da davanti al viso, asciugandosi gli occhi per riuscire a vedere: «E com’era lei?»
«Bella, bella come il sole. Quei capelli scuri, ogni tanto cominciava ad arrotolarsi una ciocca tra le dita e sembrava ancora più bella. Decisa, anche. Quando mi ha rivisto dopo tutto quel tempo che ero stato via, sai qual è stata la prima cosa che ha fatto?»
«Cosa?»
Thor sorrise ricordandolo: «Mi ha dato uno schiaffo. Anzi, due. Il primo perché aveva avuto delle specie di allucinazioni e voleva sapere se fossi reale. Il secondo perché ero stato via per un’eternità senza dirle niente e lei mi aveva visto in televisione a New York con i Vendicatori»
«Un’eternità?»
«Sì, beh, per gli umani era tanto tempo. Per gli innamorati il tempo non passato insieme è sempre troppo lungo. E per una umana innamorata… Non ne parliamo»
«Puoi dirmi qualcos’altro su di lei?»
«Piaceva a mia madre» Natalie si disse che voleva dire molto, per gli dèi come per gli umani «Sarebbe dovuta rimanere ad Asgard tutta la vita. Mia madre era felice di averla lì, con i nostri abiti era ancora più bella e poi…» si rabbuiò e tacque
«Cosa?»
«Non ci sono automobili ad Asgard»
Aveva smesso di piovere, anche se il cielo era ancora ingombro di nuvole alquanto minacciose. Natalie si alzò in piedi e porse a Thor una mano. Il dio si alzò a propria volta, senza prenderla e la guardò, come aspettando qualcosa. «Vieni, andiamo»
«Dove?»
«Ti accompagno a casa»
«Sono venuto in macchina»
«Allora ti accompagno in macchina. Non sei in condizioni di guidare» gli tese una mano. Thor frugò un po’ nelle tasche, estrasse le chiavi della macchina e le diede alla donna.
«Grazie»



Due mesi e due settimane prima, altrove

Helena era partita da appena una settimana e già Ji-eun ne sentiva la mancanza. La clinica dove veniva accudito il ragazzo doveva rimanere il più segreta possibile e lo stesso valeva per lo studio dove la coreana continuava a portare avanti i suoi studi, così i contatti tra le due sedi erano ridotti al minimo. Ji si trovava praticamente isolata dal mondo, fatta eccezione per Diego, l’universitario che arrotondava facendo le compere al posto suo. Le mancavano le cene silenziose e di fretta a base di panini, quando erano entrambe così concentrate sul loro lavoro da continuare a pensarci anche mentre mangiavano. Le mancavano anche le cene più rilassate, quando una di loro decideva di cucinare, aprivano una bottiglia di vino e si lasciavano andare a chiacchiere e battute. Le mancavano quei momenti speciali in cui sentiva davvero il legame che le univa. Lena era l’amica migliore che avesse. Si conoscevano da poco tempo, ma si intendevano come se avessero sempre vissuto insieme. Eppure erano così diverse: Helena amava parlare, Ji-eun preferiva passare ore ad ascoltarla. La coreana era una sognatrice, un’idealista, mentre la sua collega sapeva riportarla con i piedi per terra ogni volta che Ji si lanciava in dissertazioni su qualche strano concetto astratto. Erano le uniche occasioni in cui Ji-eun parlava e Lena la ascoltava, invece del contrario. Ji sentiva la mancanza anche di quelle: Helena era la sua interlocutrice preferita.
Ma più del contatto umano a Ji-eun mancava il confronto, il dibattito scientifico cui Lena sottoponeva qualunque embrione di idea provasse a proporre. Sul momento lo trovava sempre molto fastidioso, ma doveva riconoscere che la sua utilità era assolutamente non trascurabile. Helena aveva una mente estremamente acuta ed era pragmatica, molto più di Ji. Se la coreana le avesse raccontato del sogno che aveva fatto e delle decisioni che aveva preso in base a quello, avrebbe sicuramente smontato il suo ragionamento in pochi minuti. Avrebbe scacciato quei fantasmi che Ji-eun cominciava a ritrovarsi intorno sempre più spesso. Ma Lena lì non c’era e Ji, benché sapesse che si trattava solo di un sogno, non riusciva a scollarselo dalla testa.
Era ora di cominciare.



The Magic Corner:
Ciao a tutt*! Grazie per aver dedicato un po' del vostro tempo a leggere questa fic e grazie soprattutto alle 5 persone che hanno messo questa storia tra le seguite e alle 2 che l'hanno messa tra le preferite. Non mi aspettavo così tante persone, grazie davvero, gente, siete fantastici <3
Ebbene sì, per una volta sono riuscita ad aggiornare in tempi decenti! (benedette vacanze di Pasqua, ahimè domani è l'ultimo giorno...) Oltretutto, questo è ufficialmente il capitolo più lungo che abbia scritto finora, con 8 pagine Word e oltre 4000 parole. Così, per darvi un po' di numeri casuali :D
Altre cose da dire: non odiatemi. Per favore, seriamente. Lo so, ho appena strappato in mille pezzettini tre ship. Sento già sostenitori della Pepperony, della Staron e della Thor/Jane (come si chiama? Fosterson?) che mi vengono a picchiare sotto casa. Mi piange il cuore. Mi sento molto male per quello che ho fatto. Li shippo anch'io, credetemi. Ma le necessità di trama sono più forti. Non sono le ultime ship che andranno in pezzi in questa storia, ve lo dico da ora. Il tag Angst non è messo a caso.
A proposito di Sharon Carter... Mi preme sottolineare che non avevo progettato di inserirla nella trama. E allora che ci fa qui? Ci fa un bel casino psicologico per Cap. Ci fa che avevo bisogno che anche lui avesse problemi di cuore (nella prima stesura moriva anche lei, questo è già un miglioramento). Ci fa, soprattutto, un tributo alla povera agente Carter. Ho scoperto qualche giorno fa che ci troviamo nel mese di apprezzamento per Sharon Carter. Ho letto dei post su tumblr e affini e mi sono detta che volevo partecipare anch'io. Lo devo ammettere, non la adoro come fa certa gente, ma -che diamine!- l'abbiamo vista a malapena in due scene di The Winter Soldier! Come fate a odiarla così visceralmente? Non distrugge le ship con Cap... Non erano Canon prima e non lo sono ora, cosa cambia? Quindi ecco spiegato il cammeo di Sharon.
Natalie si chiama così in onore della vera Jane Foster (aka Natalie Portman) e *fun fact* la Sharon Carter dei fumetti è davvero ossessionata con la ricerca dell'hamburger più grande del mondo (ah, cosa non si impara da marvel.wiki!)
Mi sembra non ci sia altro da aggiungere, perciò faccio che smettere di scrivere e pubblicare questo capitolo così una commedia greca a caso è contenta.
Come al solito, vi ricordo che lasciare recensioni è completamente gratuito (e mi rende tanto felice) e vi ringrazio di starmi sopportando.
Che gli dèi siano con voi!
-Magic


   
 
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