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Autore: Yanez76    31/03/2016    1 recensioni
“Sarete libera di difendervi, giustificatevi se lo potete.” con queste parole, nel capitolo LXV dei Tre moschettieri, Athos tenta di far passare per un processo regolare il suo secondo tentativo di assassinare sua moglie. Nel romanzo, però, a Milady non viene di fatto concessa alcuna possibilità di difendersi. Ho voluto, quindi, riscrivere il testo riempiendo questa lacuna per consentire a Anne de Breuil/Milady di dire la sua.
Nelle argomentazioni difensive, ho voluto attenermi ai fatti ed alle circostanze narrati nel romanzo (Dumas, da narratore onnisciente, è “neutrale” e non dà giudizi morali) senza contraddirli in alcun punto.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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~~Il corsaro si avvicinò a Milady che lo fissava con aria attonita, ancora incerta se attribuire quanto stava vedendo solo ad un sogno inconsueto e bizzarro.
L’uomo accostò un dito alle labbra per raccomandarle il silenzio, poi l’aiutò ad alzarsi. Appoggiandosi a lui, poiché la caviglia le doleva ancora per la storta, Milady lo seguì senza parlare fino ad una macchia di alberi da dove, senza timore di essere scorti, si poteva dominare l’altra riva del fiume, rischiarata dalla luce della luna che usciva in quel momento da una nube.
I moschettieri, in ginocchio sulla riva opposta, sentito il grido di Milady, avevano tutti chinato il capo, chiudendo gli occhi. Athos e Aramis, che erano gli unici a ricordarne le parole, avevano biascicato frettolosamente un Requiem aeternam; poi, tutti si erano rialzati senza proferire parola, scambiandosi uno sguardo inquieto. Lord Winter era sparito e, poiché nessuno voleva indugiare oltre in quel luogo, i quattro servitori furono mandati a preparare le cavalcature con in testa Planchet che, non amando frequentare la notte i luoghi alberati, più di ogni altro non vedeva l’ora di lasciare quel lugubre posto. Porthos e Aramis affrettarono il passo dietro i valletti; mentre d’Artagnan e Athos si trattennero ancora per un attimo sulla riva del fiume.
Athos, lanciando un ultimo sguardo alle scure acque della Lys, che si erano appena richiuse sul povero Rosnay, con una voce appena udibile, mormorò: “Anne…”.
Colei che rispondeva a quel nome, nascosta dietro un arbusto sull’altra riva del fiume, lo vide girarsi e trasalì, temendo insensatamente che potesse scorgerla; poi, forse, per un breve istante, entrambi ripensarono ad una notte lontana di sette od otto anni prima in cui un anello con uno zaffiro era stato donato e molte vane promesse si erano sprecate.
D’Artagnan si passò rapidamente una mano su gli occhi umidi, prima di appoggiarla sulla spalla dell’amico.
“L’amavate?”, chiese con un filo di voce.
“Amico mio, io amo tutto ciò che mi distrugge e mi inebria: è la mia disgrazia” e, così dicendo, Athos trasse di tasca una piccola bottiglia, piena di un liquido ambrato, che portò alle labbra, vuotandola d’un fiato.
Quando il boia ebbe riattraversato il fiume, tutti erano già partiti al galoppo. L’uomo si guardò furtivamente attorno e, constatato che nessuno era più in vista, immerse la mano nell’acqua bassa del fiume, in un punto che aveva ben memorizzato, traendone la borsa che gli aveva dato Athos.
“Che razza di ipocrita!”, sibilò Milady tra i denti.
Il carnefice, recuperato il denaro e contate le monete gocciolanti, si affrettò ad andarsene a sua volta. Milady e il corsaro lo osservarono immoti finché non sparì alla loro vista e la riva destra della Lys rimase deserta nella luce spettrale della luna velata, senza più nessuna traccia che testimoniasse il terribile dramma che vi si era svolto solo pochi minuti prima; solo in lontananza, nella capanna, si intravvedeva ancora filtrare dalla finestra infranta il fioco bagliore della lucerna che finiva di consumarsi.
Vedendo cessato il pericolo, il corsaro respirò con sollievo l’aria notturna odorosa di terra bagnata.
“Grazie, amico mio, chiunque voi siate, grazie per avermi salvata…”, mormorò Milady, sorridendo di sollievo.
Come in un incubo, le erano sfilati davanti tutti fantasmi del suo passato: suo marito Athos, che due volte aveva tentato di ucciderla; d’Artagnan, che l’aveva insultata e abusata; suo cognato, lord Winter, che voleva privare di tutto lei e suo figlio; il boia che l’aveva marchiata con il ferro rovente quando era poco più di una bambina. Tutti quegli ipocriti che si pretendevano virtuosi, che si credevano in diritto di giudicare e condannare, si erano coalizzati per ucciderla, eppure lei era ancora viva. Viva a dispetto di tutto e tutti! Nella loro presunzione, i suoi nemici si credevano inviati da Dio per punirla e invece il Cielo non le aveva negato suo soccorso, ce l’aveva fatta anche stavolta! Aspirò con voluttà a pieni polmoni l’aria profumata della libertà. Volle alzarsi e gridare; ma un improvviso capogiro la prese e vide come una nuvola sanguigna passarle sugli occhi.
Il corsaro sentì un peso improvviso gravargli sul braccio, si voltò e si accorse che, sopraffatta dalla tensione e dalla stanchezza, la giovane era svenuta. L’uomo la sollevò tra le braccia, s’incamminò lasciandosi il fiume alle spalle e avanzò alla sua sinistra per alcuni minuti, finché non giunse in prossimità di un vecchio mulino.
Si trattava di una costruzione in legno, non molto grande, dalle pale ormai immobili, che, con la porta sprangata da travi inchiodate, sembrava in completo abbandono. Appoggiata delicatamente Milady contro la parete di legno, l’uomo prese una robusta scala, ben mimetizzata tra il fogliame, che poi appoggiò ad una finestrella semiaperta. L’uomo di mare, avvezzo ad arrampicarsi sul sartiame dei velieri, non ebbe difficoltà a salire reggendo la giovane su di una spalla. Entrato con lei in una stanzetta arredata semplicemente, il corsaro adagiò Milady, ancora incosciente, su di un pagliericcio e, ritirata all’interno la scala, accese due candele su di un doppiere.
Per quanto nel corso della sua vita avventurosa avesse avuto occasione di visitare molti luoghi e di vedere molta gente, il corsaro non ricordava tuttavia di essersi mai imbattuto in una giovane di tale bellezza: il corpo, di statura media, rivelava delle forme perfettamente modellate; i capelli, lunghi quasi fino alle spalle, d’un biondo pallido dai riflessi argentei, cadevano inanellati sul viso la cui pelle vellutata, bianchissima e luminosa, faceva risaltare le sopracciglia e le lunghe ciglia, nere come l’ebano, che incorniciavano gli occhi chiusi dal taglio perfetto che, solo qualche istante prima, con il loro turchino purissimo, limpido e profondo e la loro espressione indefinibile, languida e fiera, intrepida ed angosciata al tempo stesso, tanto avevano colpito l’immaginazione dell’uomo.
Le labbra rosee della donna erano graziosamente socchiuse in un respiro lieve e affannoso che rivelava come la mente di Milady fosse turbata da un sogno angoscioso. Gli eventi di quella terribile notte avevano infatti richiamato un incubo che già più volte aveva visitato i sonni della giovane donna: Milady si rivedeva assieme al suo primo marito; era felice mentre cavalcavano assieme nella campagna ridente del Berry in un bel giorno d’inizio estate finché, all’improvviso, il suo cavallo scartava e lei cadeva...
Una delle principali differenze tra i sogni e la realtà consiste nel fatto che, mentre nella realtà quando si cade si tocca terra, nei sogni si continua a cadere; e Milady, che aveva sempre avuto terrore del vuoto, continuava appunto a cadere, cadeva in un abisso senza fondo, mentre tutto si faceva buio attorno a lei, finché non sentiva la corda stringersi attorno al suo collo a toglierle il respiro.
Il corsaro, vedendo Milady respirare a fatica, volle aiutarla e le allentò le vesti scoprendo la candida rotondità delle spalle. L’uomo trasalì vivamente nel vedere su una di esse il piccolo giglio rosso, impresso dal ferro del carnefice.
In quel momento, Milady si svegliò dal suo incubo ed aprì gli occhi gridando; ma, anziché calmarsi, vedendo l’uomo chino su di lei e il suo marchio scoperto, proprio come era avvenuto quel terribile giorno che aveva appena rivissuto in sogno, la donna afferrò l’impugnatura di un coltellaccio che spuntava dalla cinturone del corsaro e, con una mossa tanto fulminea da lasciare di stucco persino quell’uomo che aveva affrontato tante imprese, in un attimo puntò contro il suo petto la lucente lama d’acciaio.
“State indietro!”, gli ordinò, ruggendo come una pantera ferita, “Chi siete? Cosa volete da me?”
Sebbene il corsaro avesse affrontato pericoli di ogni genere, non poté non rimanere intimorito dal repentino cambiamento che aveva visto prodursi in quella donna che ora puntava su di lui due pupille dilatate, pallidissima, con la fronte imperlata di sudore e con le labbra strette e tremanti come scosse da una violenta febbre.
“Calmatevi, vi prego… Non abbiate paura. Non voglio farvi del male.”, disse l’uomo affascinato nonostante tutto dal coraggio che mostrava quella donna incredibile.
Milady lo guardò sospettosa. “Non vi avvicinate!”, lo minacciò, protendendo la lama lucente della navaja, mentre la sua mente tentava di riordinare i pensieri, ricostruendo gli ultimi convulsi avvenimenti.
Milady era sempre stata molto abile nel leggere sui volti l’animo di chi le stava di fronte, e si stupì di constatare che l’espressione del corsaro non mostrava nulla dell’orrore e del disprezzo che di solito la vista del suo marchio suscitava. La donna respirò profondamente, si ricordò che l’uomo le aveva salvato la vita e si chiese se poteva fidarsi. Cosa sapeva in realtà di quell’uomo, salvo che doveva trattarsi di una specie di negromante che aveva lanciato un incantesimo sul boia? Cosa ci faceva lì, vestito a quel modo? Era forse un pirata? Ora che sapeva del marchio l’avrebbe denunciata?
“È per via del vostro marchio che temete?”, le chiese l’uomo con voce calma, quasi leggendole nel pensiero.
Milady annuì, “Siete forse rammaricato di aver salvato una criminale, credendola una vittima innocente?”
“Niente affatto; e non temete, non intendo denunciarvi. Capisco il vostro spavento…”.
“Come potete capire? Che ne sapete voi?”
“Forse ne so più di quanto immaginiate”, disse il corsaro con un sospiro e, attento a non fare mosse brusche, per non allarmare ulteriormente la donna, si tolse il lungo gabbano di foggia marinaresca ed allentò la sua casacca di seta celeste, mettendo a nudo una spalla.
Milady vide, disegnato sulla pelle dell’uomo, un complicato tatuaggio, di quelli tanto in voga tra la gente di mare, che rappresentava un serpente marino, una di quelle creature fantastiche e mostruose che popolano i racconti che i marinai ubriachi si scambiano a sera nelle taverne.
“Ebbene? Non capisco!”, fece la donna, temendo si trattasse di qualche tranello per distrarla.
“Guardate meglio…”, rispose il corsaro avvicinandosi cautamente.
Milady, tenendo sempre stretto il pugnale, esaminò meglio il tatuaggio e scorse, mimetizzata tra le scaglie del serpente, la cicatrice a forma di fleur de lys.
“Ah! Allora anche voi…”, esclamò interdetta.
“Vedete bene, Milady, che so anch’io come la giustizia umana, spesso, sia umana solo di nome.”
Milady esaminò l’uomo con uno dei suoi sguardi più penetranti e sentì che il suo aspetto le ispirava fiducia. In ogni caso, ragionò, si trattava certo di un abile uomo d’arme e sapeva di non avere grosse possibilità in uno scontro diretto con lui.
“Scusatemi, non so cosa mi abbia preso. Ero spaventata e…”, disse, restituendogli l’arma che il corsaro si affrettò a riporre lontano.
“Non temete, vi capisco…”, rispose l’uomo con dolcezza, riponendo il coltellaccio e prendendo una bottiglia da cui versò in un bicchiere un liquore ambrato.
“Bevetene un po’, vi aiuterà a superare lo spavento”, disse porgendo il bicchiere a Milady ancora scossa da brividi per la terribile esperienza.
Milady vuotò il bicchiere d’un sorso.
“Uhm, un po’ forte ma niente male…” disse la donna strizzando gli occhi, scossa da un ondata di piacevole tepore.
“È rum delle Barbados. Non c’è niente di meglio per cacciare lo spavento.”, disse sorridendo l’uomo di mare.
“Sono proprio un’ingrata… Vi ringrazio ancora per avermi salvato la vita. Ma chi siete?”
“Perdonate voi la mia villania, non mi sono presentato. Mi chiamo Emile de Rochenoire, dei conti de Vintimille.”
“Milady Clarick, contessa de Winter, molto lieta.”, fece la donna sfoderando il suo sorriso più seducente e porgendogli la mano che il corsaro si affrettò a baciare.
Un tempo, Milady si era ripromessa di non permettere che nessuno, da vivo, conoscesse il suo segreto: quel terribile segreto, quel marchio inflittole ingiustamente che la perseguitava e la minacciava. Adesso, però, quella donna, abituata ad affrontare ogni situazione con coraggio e lucidità, capiva bene che le cose erano cambiate: il suo segreto era ormai conosciuto dai suoi mortali nemici: il boia, lord Winter, i moschettieri, senza contare i valletti; decisamente troppi per sperare di metterli tutti a tacere… Inoltre, quando Rochefort avrebbe riferito al cardinale del tentativo di far fallire la sua missione in Inghilterra, Athos e d’Artagnan sarebbero stati arrestati e, per difendersi, avrebbero certamente tentato di screditarla in ogni modo, raccontando tutto ciò che sapevano del suo passato. Come lei, anche il corsaro portava un marchio e, da ciò che le aveva detto, si capiva che, come lei, era stato vittima incolpevole dell’odio dei suoi nemici; bisognava, quindi, pensò Milady, che conoscesse tutta la storia, che sapesse che anche lei, come lui, era stata vittima di un’ingiustizia. Oltretutto, Milady aveva bisogno dell’appoggio di quell’uomo e, sapendo bene quale potere di fascinazione avesse la sua voce, era sicura di poterlo portare dalla sua parte. Se era riuscita nell’impresa impossibile di convincere quell’incorruttibile Felton, sarebbe stata una passeggiata affascinare quell’uomo che, lo indovinava bene, le dimostrava già simpatia e ammirazione.
Al ricordo del suo trionfo su quel puritano fanatico, un sorriso di compiaciuta soddisfazione increspò le labbra della donna che, però, accingendosi ad iniziare il suo racconto, assunse subito un’espressione melanconica.
“Beh, ormai che sapete del mio marchio”, iniziò Milady con l’aria triste ed ispirata, “lasciate che vi narri la mia storia. Potrete così decidere se avete salvato una criminale o una vittima innocente.”
“Oh, non ne siete obbligata”, rispose il corsaro, “non spetta a me giudicarvi e, in ogni caso, qualunque cosa possiate aver fatto, chi voleva uccidervi di nascosto, la notte, facendo poi sparire il vostro corpo nel fiume, non stava certo compiendo un’opera di giustizia.”
“No, no, voglio che sappiate tutto…”, riprese Milady, che, con un abile movimento, fece cadere un po’ più in basso i merletti sgualciti che le coprivano il petto, gettando poi, con un gesto teatrale, la testa all’indietro, passando le agili dita ad arricciare graziosamente i bei capelli sparsi come fili dorati.
Poi, dardeggiando sull’uomo lo sguardo più languido e sconsolato di cui erano capaci i suoi profondi occhi celesti, Milady iniziò il suo racconto.
“Sono nata in Irlanda quasi venticinque anni fa con il nome di Anne de Beuil. Mio padre era un nobiluomo del Galles  amico di quell’Anthony Babington che fu giustiziato per aver congiurato al fine di riportare sul trono Maria Stuarda . Non ho mai saputo se mio padre avesse realmente preso parte alla congiura di Babington; ma sua moglie, per mettere le mani sul suo patrimonio e rifarsi una vita con il suo amante, lo denunciò. Mio padre dovette fuggire e cercò rifugio in Irlanda, nel Donegal, sotto la protezione del re di Tir Chonaill, Hugh O’Donnell. Fu proprio mio padre ad aiutare figlio di O’Donnell, fatto rapire dal luogotenente d’Irlanda  ad evadere dal castello di Dublino.
Dopo la disfatta degli Irlandesi a Kinsale, mio padre seguì O’Donnell in Spagna per cercare rinforzi. O’Donnell morì improvvisamente  e mio padre, non avendo ottenuto nulla dagli Spagnoli, si recò a cercare aiuti presso la corte francese, senza incontrare, però, migliore fortuna. In Francia, conobbe mia madre, che apparteneva ad una nobile famiglia della Turenna, e se ne innamorò. Ovviamente, avendo già una moglie in Inghilterra, non avrebbe mai potuto sposarla; ma mia madre decise di fuggire ugualmente con lui e lasciò la sua famiglia per seguirlo in Irlanda, dove venni alla luce.
Avevo circa quattro anni quando i miei genitori, per sottrarsi alla vendetta degli Inglesi che avevano ormai domato la rivolta irlandese, fuggirono assieme al conte di Tyrone  e si stabilirono nei Paesi Bassi Spagnoli, vicino ad Armentières, poco distante da qui. Come molte fanciulle di buona famiglia, per la mia educazione, fui mandata dalle monache di Templemars. Mio padre morì improvvisamente quando avevo otto anni e mia madre lo seguì tre anni dopo. Rimasta orfana, un mio fratellastro, figlio della moglie di mio padre, riuscì ad impossessarsi di tutto il patrimonio, mentre io, in quanto figlia illegittima, fui privata di ogni diritto e costretta a rimanere al convento per prendere i voti . Non avevo che dodici anni, amavo la vita, la poesia, gli animali, le corse nei prati ed ero stata condannata a non uscire più da quelle mura per tutta la vita! Passarono così due anni, tristi e lunghi come secoli; il mio unico svago era il canto nel coro delle monache. Fu forse la mia voce a farmi notare dal nostro confessore, un giovane prete, bello e dai modi gentili che, come me, amava la musica; lui diceva che cantavo come un angelo del paradiso. A differenza delle monache, il giovane prete era buono con me: mi prestava dei libri e mi faceva dei piccoli regali. Ben presto, compresi che non aveva più vocazione di quanta ne avessi io e che il suo affetto per me non era quello di un padre o di un fratello… Anch’io lo amavo, o almeno credevo di amarlo, come si può amare a quattordici anni. Il prete mi aveva promesso di portarmi via con lui: credo che avrei amato anche il diavolo se mi avesse aiutato a fuggire da quella prigione! Andarsene, però, era difficile, poiché il prete non aveva denaro: era di famiglia povera, figlio del vecchio carnefice della città di Lille, di cui suo fratello aveva ereditato la professione.
Viveva da quelle parti un uomo dalla fama terribile quanto misteriosa: nessuno sapeva con certezza il suo nome; ma si diceva fosse un Visconti che aveva dovuto lasciare Milano, per fuggire un bando o una vendetta e si era rifugiato nelle Fiandre spagnole. Si diceva che quell’uomo potesse procurare qualsiasi cosa a chi lo pagava bene e Georges, questo il nome del prete, si rivolse a lui per trovare il modo di fuggire dal convento assieme a me. Quell’uomo gli disse che poteva procurargli una lettera di raccomandazione per un potente ecclesiastico francese, il vescovo di Luçon, il quale gli doveva un favore. Con quella lettera sarebbe stato facile trovare una sistemazione lontano da lì, dove avremmo potuto vivere nascosti e tranquilli. In cambio, però, quell’uomo gli chiese di portargli dei vasi preziosi custoditi nel convento.
Così, Georges rubò i vasi e lasciò furtivamente il monastero, promettendomi che sarebbe pesto tornato per far fuggire anche me. Non avevamo, però, considerato che quei dannati conventi hanno mille occhi; scoperto il furto, qualcuno, forse una novizia gelosa, denunciò la mia relazione con il prete. Fui arrestata e, sebbene non potessero collegarmi al furto, fui destinata ad un convento di penitenza. Per fortuna, vidi che il giovane figlio del carceriere mostrava compassione verso di me; ormai avevo capito che gli uomini trovavano attraente il mio aspetto e, ovviamente, tentai di tutto per convincerlo a lasciarmi andare. Così, fosse mia la bellezza o la pietà per me a convincerlo, mi lasciò fuggire.
Finalmente libera, non sapevo però dove andare; mi diressi allora a casa di Georges, a Béthune. Sua madre, una vera arpia, non volle ospitarmi; ma il fratello, il boia, si mostrò invece amichevole: mi disse che Georges era andato da quell’uomo senza nome e sarebbe tornato presto a prendermi. Il boia mi mostrò una casupola, dove avrei potuto nascondermi durante l’attesa. Si trattava di una specie di laboratorio dove quell’uomo si occupava della sua passione per le scienze naturali; il posto mi spaventava un poco, pieno com’era di lucertole diseccate, scheletri e fasci di erbe di ogni tipo attaccati al soffitto.
Il boia mi portò da mangiare, mi disse di non aver paura e mi preparò una tisana di certe erbe medicinali che, disse, mi avrebbe aiutato a rilassarmi. Quand’ebbi bevuto l’infuso, dal sapore gradevole, mi sentii prendere da un torpore sconosciuto e irresistibile. Ebbi appena il tempo di stendermi sul letto che l’uomo mi aveva approntato, che caddi in un sonno profondissimo, provocato dal potente narcotico. Quando, il giorno dopo mi svegliai, mi accorsi da inequivocabili segni che quell’uomo aveva approfittato di me…”
“Ah! L’infame!”, esclamò il corsaro.
“Appena tornò”, riprese Milady, “gli gridai la mia rabbia e il mio disprezzo per ciò che mi aveva fatto. Lui dapprima negò, poi, ridendo, ammise tutto.
 – Suvvia -, mi disse, - non vorrete farmi credere che il mio caro fratellino non vi aveva ancora toccata? E poi lui, lo sapete, non potrà mai sposarvi e non ha quindi diritto di lamentarsi. In fondo, lui ha tutte le fortune: è bello, ha un lavoro pulito, il rispetto della gente e adesso ha pure un bel bocconcino come voi, era giusto che anch’io mi prendessi qualcosa. -
- Non la passerete liscia! – gridai – Vi denuncerò! – Con un ghigno beffardo, lui allora mi disse che avrei fatto meglio a stare zitta e dimenticare tutto. Io, fuori di me dalla rabbia, lo minacciai ancora di denunciarlo e mi gettai contro di lui colpendolo e graffiandolo. Allora montò in collera e iniziò a picchiarmi con tale forza da rompermi un dente. Caddi a terra tramortita, lui ne approfittò per legarmi e…”
“Oh, non dovete continuare se ciò vi fa soffrire”, disse il corsaro.
“No, no, voglio che sappiate”, rispose Milady riprendendo il suo racconto, “Quell’uomo mi disse che non ero altro che una prostituta che aveva sedotto suo fratello e che, visto che non volevo tacere, avrei subito il supplizio delle prostitute. Con orrore vidi il ferro per la marcatura che si arroventava sul braciere.
– Una volta infamata davanti agli uomini – mi disse – nessuno vi crederà e, se mi accuserete, vi prenderanno per una criminale o per pazza. –
 - Siete voi il pazzo! – gli gridai allora – potrò dimostrare che nessun tribunale mi ha condannata! Farò appello alla giustizia, al re, se necessario! –
Allora il boia esplose in una risata sinistra – Ma io vi marchierò con il giglio di Francia: se vi rivolgerete alla giustizia spagnola, vi prenderanno per una criminale o una prostituta marchiata in Francia. Come farete a dimostrare il contrario? –  , con un'altra orribile risata prese il ferro incandescente e lo premette sulla mia spalla.”, disse Milady con un sospiro.
“Mio Dio, povera fanciulla…”
“Non rinvenni che il giorno seguente, Georges era tornato e, assieme, partimmo per la Francia. Quel nobile italiano era stato di parola e, grazie alla sua lettera di raccomandazione, Georges ottenne una parrocchia nel Berry  e dei documenti falsi in cui passava per mio fratello. Ero finalmente lontana da quel maledetto monastero; ma la mia nuova vita non era certo quella che avevo sperato: George era sempre più chiuso, taciturno e scontroso, viveva praticamente ritirato nella canonica, mentre i giorni della mia giovinezza passavano in una noia mortale, finché non conobbi il…”
Milady trasalì e si arrestò un attimo, come sopraffatta da una forte commozione, prima di riprendere a narrare, “conobbi il visconte de La Fère. Era appena tornato dall’assedio di Angers e sembrava davvero un principe delle favole: era così bello, gentile, educato. A differenza degli altri nobili, fatui ed esperti solo di armi e caccia, lui era colto e raffinato. Amavamo le stesse cose: la campagna, i fiori, l’aria libera, la poesia. Mi insegnò a cavalcare, mi prestava i libri della biblioteca del suo castello; assieme parlavamo per ore dei nostri autori preferiti, mi fece conoscere Ronsard e Malherbe, recitavamo i loro versi. Lui mi diceva che avevo un animo da poeta… Mio Dio, come tutto sembrava sorridermi allora: avevo sedici anni e l’avvenire mi si schiudeva roseo davanti. Non avevo di certo mai sentito per Georges quello che sentivo adesso per il visconte: ero felice, libera ed innamorata.
Un brutto giorno, Georges venne rapito da dei cacciatori di taglie che lo avevano riconosciuto, ed io rimasi sola nel presbiterio. Il posto di Georges venne assegnato ad un altro curato ed io, esauriti i pochi denari rimasti, sarei dovuta andarmene a menare una vita grama nella miseria. Stavo appunto raccogliendo le mie poche cose quando… quando il visconte mi chiese di diventare sua moglie! Sarebbe stato un matrimonio segreto perché suo padre, gravemente malato, non avrebbe approvato la sua unione con una fanciulla senza nobili natali e lui non intendeva contrariarlo negli ultimi giorni di vita; ma alla sua morte sarei andata a vivere al castello con lui.
Mio Dio! Non ci potevo credere: sarei diventata contessa! Finalmente avrei dimenticato tutto: il monastero, la cupezza di Georges, la miseria, la paura. Avrei avuto una nuova vita, una vita finalmente ricca e felice assieme all’uomo che amavo.
In fondo sentivo di meritarlo: i miei genitori erano nobili e ricchi, da bambina ero vissuta negli agi, avevo un’educazione aristocratica; ma tutto mi era stato strappato ingiustamente. Perché non avrei dovuto approfittarne se ora il destino mi offriva un’occasione di rivincita? Sì, quella rivincita mi spettava, ne avevo diritto!
Certo, c’era sempre il marchio: avrei potuto dimostrare che non ero mai stata condannata da nessun tribunale francese, che il marchio mi era stato inflitto ingiustamente; ma sarei stata costretta a raccontare tutta la storia e temevo che il visconte, sapendo che non ero vergine, non avrebbe mai accettato fare di me sua moglie.
Fui abbastanza pazza da credere di poter superare anche quell’ostacolo; nei primi tempi, pensai, avrei potuto nascondere il marchio. In fondo, alcune dame dell’aristocrazia tengono la camicia da notte anche mentre…ehm…assolvono i doveri coniugali, poi gli avrei dato dei figli, avrebbe avuto la prova del mio amore e, speravo, alla fine avrebbe capito…”
Milady sospirò amaramente, “Già, che sciocca sono stata. Credevo veramente che nulla fosse impossibile per un vero amore, che esso potesse vincere tutto. Non avevo notato, o non avevo voluto notare, il puntiglio aristocratico del visconte, i suoi scatti improvvisi d’ira, la sua ossessione per l’onore… Non avevo considerato che certe persone, per l’onore, sono disposte a sacrificare anche la vita, la propria o quella di una moglie…
Georges ritornò e mi raccontò una storia spaventosa: era stato suo fratello, il boia che mi aveva marchiata, a venderlo a dei cacciatori di taglie e lui aveva dovuto ucciderlo per riuscire a fuggire. Quando seppe che avrei sposato il visconte si infuriò; ma, alla fine, accettò la cosa e fu lui stesso a celebrare le nozze in segreto. Data la sua lunga assenza, era stato ormai sostituito da un nuovo curato, ma mio marito, che lo credeva sempre mio fratello, e a cui avevo detto che era ricercato perché aveva dovuto uccidere per difendersi, gli permise di rimanere a vivere nascosto in paese.
Il visconte fu di parola e, quando suo padre morì, mi condusse con lui al castello. Passai dei mesi da sogno, finalmente mi ero lasciata alle spalle la miseria, ero diventata una delle prime dame della provincia, tutti mi trattavano con rispetto e ammirazione. Passavo le giornate con l’uomo che amavo a leggere poesie e a cavalcare e, quando sospettai di aspettare finalmente un figlio ero davvero al colmo della felicità.
Purtroppo, Georges sparì di nuovo ed io ero così preoccupata e spaventata, che passai la notte senza chiudere occhio. La mattina dopo, mio marito mi propose una cavalcata nel bosco; non avevo voluto dirgli che pensavo di essere incinta finché non ne fossi stata sicura e sapevo che, protettivo com’era, una volta che glielo avessi detto, mi avrebbe trattata come una fragile statuetta di porcellana e non avrei più potuto salire a cavallo per chissà quanto tempo. Così, decisi di dirglielo quella sera a cena, dopo quell’ultima cavalcata. Non so se fu per la notte in bianco, la preoccupazione per Georges, un capogiro dovuto al mio stato oppure solo una tragica fatalità, ma caddi da cavallo e quando mi svegliai…”
Milady si fermò di nuovo nel suo racconto, portandosi una mano agli occhi, come sopraffatta dal terribile ricordo.
“Cosa successe quando vi svegliaste?”, chiese l’uomo.
“Quando mi svegliai, ero nuda e stavo soffocando appesa ad un albero…”
“Mio Dio! Come può essere? Cosa vi era accaduto?”
“Il mio amato marito aveva scoperto il marchio, aveva stracciato le mie vesti e, fatta una corda con i brandelli, mi aveva impiccata…”
“Ah! Miserabile! Così, senza neppure chiedervi cosa aveste fatto?!”
“Beh, mio marito non è mai stato un tipo molto curioso…”, rispose Milady con una smorfia di amara ironia.
“Per mia fortuna, agitandomi, la stoffa si strappò e caddi a terra; riuscii a liberarmi le mani e a togliermi il cappio dal collo, prima di perdere nuovamente i sensi. Quando mi ripresi, mi ritrovai in un letto in una capanna nel bosco. Ero stata raccolta da una certa Madame Chouette, una vecchia levatrice che viveva nella foresta curando gli abitanti del paese o i briganti quando cadevano malati o feriti.
Madame Chouette si prese cura di me e, grazie a lei, mi rimisi presto completamente. Mi disse che mio marito aveva lasciato il castello; in paese, girava voce che si fosse ucciso, impazzito per la disperazione di aver perso l’amata moglie. Ero ormai sola al mondo, al castello non potevo certo tornare, così vissi per un certo tempo con Madame Chouette. Era una vecchia gentile e simpatica, anche se un po’ originale; da lei appresi un sacco di cose utili sulle virtù delle erbe, sui medicamenti e… sui veleni. Ero però inquieta: avevo capito che Madame Chouette era una di quelle donne sagge che i nostri bravi inquisitori amano tanto far arrostire sul rogo e, vivendo con lei, temevo di seguirne un giorno il destino. Quando le chiesi se non temesse di cadere nelle grinfie dell’Inquisizione, mi rispose, ridendo, che godeva della protezione di un vescovo molto potente di cui lei era l’unica a poter curare i terribili mali di testa cui andava soggetto. Qualche tempo dopo, infatti, il vescovo venne a sottoporsi alle cure di Madame Chouette e fui molto stupita di riconoscere in lui Armand du Plessis, il vescovo di Luçon. Si fermò da noi per un po’, era un uomo molto intelligente e possedeva uno sguardo magnetico e affascinante; quando se ne andò, mi propose di andare con lui e lo seguii. Avevo notato che si mostrava molto interessato a me e, dapprima, pensai che volesse fare di me la sua amante; ma, presto, scoprii che intendeva approfittare di altre mie qualità. Mi disse che, se avessi accettato di mettermi al servizio della Francia, avrebbe potuto darmi tutta la protezione di cui avevo bisogno: da uomo perspicace qual era, aveva certo indovinato che mi portavo dietro qualche terribile segreto e che non avrei potuto rifiutarmi. Mi introdusse a Corte, presentandomi come una dama inglese, visto che parlavo perfettamente la lingua di mio padre, e fu anche per merito mio che riuscì a risolvere una delicata situazione e ad ottenere la porpora cardinalizia cui, poco dopo, seguì il posto da Ministro e il titolo di duca di Richelieu.
Fu così che entrai al servizio del cardinale e della Francia. Presto, visto che passavo per inglese, Richelieu mi mandò a Londra a sorvegliare il duca di Buckingham. Fu alla corte inglese che conobbi lord de Winter, fratello di uno dei migliori amici del duca. De Winter era un bell’uomo, piuttosto simpatico; si innamorò di me e mi propose di sposarlo e, visto che mi credevo vedova e che entrare in una famiglia così legata a Buckingham avrebbe certo facilitato la mia attività di informatrice, accettai. Dopo un breve matrimonio, però, de Winter mi lasciò vedova e incinta.
Dopo la morte di mio marito, il duca di Buckingham venne più volte a visitarmi, con il pretesto di informarsi sulle mie condizioni di salute; ben presto, però, capii che quel noto libertino intendeva semplicemente aggiungermi alla lista delle sue numerose conquiste. Non era di aspetto sgradevole e non vi nascondo che avrei probabilmente finito per accondiscendere se non fosse stato tanto volgare da farmi delle proposte esplicite già pochi giorni dopo la morte di mio marito.
L’arroganza, la presunzione, la prepotenza del duca me lo avevano ormai reso detestabile ma, a causa della mia missione, ero costretta a fingere di accoglierlo come amico; tuttavia, rimasi sempre ferma nel respingere le sue profferte. Contrariato dai miei rifiuti, quell’infame, una sera, con la complicità di mio cognato, si introdusse nelle mie stanze, dove ero costretta a letto a causa della recente nascita di mio figlio e, senza riguardo per le mie condizioni, approfittando della mia debolezza, abusò di me con la forza.
Ormai odiavo quell’uomo con tutte le mie forze, fui anche tentata di denunciarlo; ma la cosa avrebbe certo compromesso la mia missione, senza contare che avrei avuto ben poche possibilità di ottenere giustizia contro un favorito del re. Dovetti così tacere e, piena di disgusto, feci ritorno in Francia assieme a mio figlio. Il duca, da quell’uomo fatuo e sciocco che era, attribuì la mia partenza al dispetto causato dalla gelosia per aver saputo della sua tresca con la regina di Francia.
A Parigi, credetti di poter ritrovare finalmente un po’ di felicità: ad un ballo dato dalla signora di Guisa, conobbi un giovane gentiluomo che, come me, godeva della fiducia del cardinale Richelieu, il marchese de Wardes. Il marchese era bello, gentile, ricco e raffinato e me ne innamorai a prima vista e, siccome anche lui sembrava ricambiare i miei sentimenti, per un poco pensai che, dopo tanti travagli, anch’io avrei potuto trovare un po’ di sollievo e la vita potesse tornare a sorridermi.
Purtroppo non era che un’illusione: il cardinale mi ordinò di ritornare a Londra per sorvegliare il duca di Buckingham; fu proprio il giorno che ricevetti il suo ordine, a Meung, che vidi per la prima volta quel d’Artagnan , uno di quei gentiluomini che poco fa volevano assassinarmi. Di nuovo in Inghilterra, ebbi finalmente l’occasione di vendicarmi del duca: per ordine del Cardinale, ad una festa, senza che neppure se n’accorgesse, gli sottrassi due dei puntali che la sua regale amante gli aveva donato e, una volta compiuta la mia missione, tornai definitivamente in Francia.
Purtroppo, il piano del Cardinale, per la riuscita del quale avevo tanto rischiato, fallì proprio per colpa di quel dannato d’Artagnan, il quale, dopo aver crudelmente aggredito e ridotto in fin di vita il povero de Wardes, in combutta con Buckingham, riuscì ad ingannare il re con dei gioielli abilmente contraffatti.
Visto poi che, come si dice, le disgrazie non vengono mai sole, mio cognato, degno amico del duca di Buckingham, mi seguì a Parigi e fui anche costretta ad alloggiarlo a casa mia in Place Royale. Sapevo che mio cognato mi detestava da quando la nascita di mio figlio lo aveva privato del titolo di conte e dei beni che, altrimenti, avrebbe ereditato da suo fratello. Quando mi fece delle proposte di matrimonio, pensai che di certo mirava a riprendersi l’ingente fortuna lasciatami da mio marito e lo rifiutai decisamente. Mio cognato non si volle dare per vinto e le sue sciocche insistenze mi infastidivano talmente che un giorno, in carrozza, giungemmo ad un violento litigio. Quel guascone, d’Artagnan, si trovava a passare di là, si offerse di difendermi e lo sfidò a duello. Devo ammettere che sperai vivamente che quell’imbecille si dimostrasse almeno utile a qualcosa liberandomi da mio cognato; ma d’Artagnan, invece, pensò bene di risparmiargli la vita e di stringere amicizia con lui.
In quel momento, tuttavia, tutti i miei pensieri erano rivolti al mio povero de Wardes, ed ero così sollevata dal sapere che si era salvato, che scordai persino la mia rabbia per il fallimento della missione e le prepotenze di mio cognato. Ma poi quell’infame…”
Milady s’interruppe, scossa da una violenta emozione; poi, con un’espressione furente sul volto, quasi sibilando le parole tra i denti, raccontò al corsaro in che modo d’Artagnan aveva abusato di lei con l’inganno.
“Ma è ignobile! Come può osare definirsi ancora gentiluomo chi si rende capace di un’azione così spregevole?!”, esclamò l’uomo indignato, afferrando la mano di Milady per consolarla.
“Ma il peggio doveva ancora venire”, riprese Milady, “come in un incubo, il terribile passato, che ormai credevo di essermi lasciata alle spalle, tornò a perseguitarmi. Il mio primo marito non era morto ma si era fatto moschettiere e, legato d’amicizia con quel dannato guascone, tornò a minacciarmi e a tormentarmi. Incuranti del bene della loro stessa patria, non esitarono ad unirsi a mio cognato, un inglese loro nemico, pur di colpirmi, di togliermi la libertà e minacciare la mia vita.”
Milady raccontò concitatamente, con voce rotta, gli ultimi eventi della sua prigionia in Inghilterra e del’inseguimento da parte dei moschettieri fino alla farsa del processo che avevano inscenato per ucciderla.
“Ecco, ora sapete tutto”, concluse infine con un profondo sospiro la donna, scossa da un fremito febbrile. 
Il corsaro, sopraffatto dalla commozione, l’abbracciò. La giovane donna posò la testa sulla sua spalla ed egli ne accarezzò dolcemente i capelli dorati.
“Non temete. Nessuno vi farà più del male”, la rassicurò, “voi siete un’anima nobile e sfortunata che avrebbe meritato di vivere in una reggia non di essere perseguitata come lo siete stata. Ringrazio la Provvidenza che mi ha dato modo di giungere in vostro soccorso.”
Milady si quietò e, risollevata la testa, rivolse al corsaro uno sguardo che brillava di gratitudine e commozione. Il suo viso, prima soffuso di pallore, sembrò riprendere i suoi colori, mentre le labbra, opportunamente mordicchiate, avevano ripreso la tinta scarlatta della melagrana.
Sul volto della giovane apparve allora un indefinibile sorriso, che non si sarebbe potuto dire se dovuto più al sollievo per aver trovato quella comprensione che finora nessuno le aveva mostrato o alla soddisfazione di constatare che non aveva perso la sua capacità di affascinare.
   
 
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