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Autore: Ink Voice    31/03/2016    1 recensioni
Niente sarà più come prima. Forse è meglio così, pensa Eleonora, mentre si chiede esasperata quale sia il prossimo compito da portare a termine. È una domanda retorica che si pone solo per rispondersi subito dopo: “Salvare il mondo”. Una frase da supereroe, da film, che invece le tocca pronunciare per autoconvincersi che il momento è giunto e che lei, fino a qualche anno prima una ragazzina normale che non conosceva la realtà in cui è improvvisamente finita, è una delle più importanti pedine nel triste gioco della guerra.
Dalla parte di chi schierarsi e perché, quando ogni fazione ha numerosi difetti, che rendono l’una indistinguibile dall’altra? Troverà mai dei motivi che la spingeranno a non chiudersi in sé stessa e a non tirarsi indietro? Perché dover rischiare la propria vita per una causa che non si conosce davvero e per una verità svelata sempre poco per volta?
Queste domande l’accompagneranno mentre cercherà la forza per non arrendersi. È l’ultima parte di Not the same story.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Not the same story'
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VII
Al settimo cielo

I primi passi mossi per il Sentiero Ding-Dong mi danno l’idea di star facendo un bagno nei colori del tramonto. Le foglie degli aceri sono colorate di ogni sfumatura di rosso, arancione e giallo, e la luce del Sole che passa loro attraverso fa sì che anche i tronchi sembrino tinti d’oro. Tutto sfavilla nel silenzio più totale e mi vedo costretta a strizzare le palpebre fin da subito per non essere accecata, finché non mi abituo alla luce eccezionale del Sentiero.
Resto per un minuto buono - probabilmente molto di più - ferma a pochi metri dalla porta da cui sono passata, a coprirmi gli occhi con la mano che tiene l’Ala d’Iride e a osservare a bocca aperta gli alberi colorati di fiamma. Quando si alza il vento, che qui è al massimo una brezza e rimane tale durante tutto l’anno, sembra davvero di essere in una foresta di fuoco, con piante dalle fronde ardenti. Le foglie cadute sul suolo, ora sollevate dal vento, si librano come lingue infiammate, ma placidamente e in modo incantevole. Abbasso lo sguardo e la luce è comunque terribilmente forte: la pavimentazione è del tutto ricoperta da uno spesso manto rosso e dorato.
È impressionante il contrasto tra questo scenario e quello vissuto da Ilenia per trovare Lugia, avventurandosi nelle Isole Vorticose buie, inquietanti e soffocanti. Però le due situazioni sono accomunate dalla totale assenza di un qualsivoglia essere vivente: fatta eccezione per gli alberi - che però, viste le loro caratteristiche, non devono essere normali organismi - del Sentiero, non c’è proprio nessuno qui, così come nelle Isole.
Lentamente riprendo a camminare. Sono svuotata di ogni pensiero ed emozione: tutto ciò che mi riempie la mente è lo spettacolo degli aceri di fuoco e le uniche, sporadiche frasi che la mia testa riesce a formulare sono “Non ci credo”, “Dev’essere un sogno” o altre sulla stessa linea. Non sono mai stata così incredula in vita mia e non ho nemmeno il coraggio di andare a toccare il tronco di un albero per accertarmi di trovarmi nel mondo reale. Eppure, e questo mi sorprende ancora di più, dopo Ho-Oh sono io a dominare su questo territorio, perché sono la sua Legata. La sola idea di ciò è talmente lontana da me che la rifiuto a priori. Forse Sara dimostrerà di aver ragione e una volta ottenuta la forma materiale del Legame sarò fin troppo dispotica. In questo momento mi sembra di infima importanza pensare a questo, però la mia mente ha preso una certa direzione ed è irremovibile.
Svolto un paio di curve e mi ritrovo davanti al portone della Torre. Finora non ho alzato lo sguardo oltre le cime degli alberi e non ho intenzione di farlo neanche adesso, per qualche ragione che non so spiegarmi - non lo voglio fare e basta. Dopo qualche momento di esitazione, come se fossi indecisa sul da farsi, metto una mano sul legno della porta e spingo piano, quel poco che basta per aprire un passaggio.
Il mio cuore salta un paio di battiti quando, appena il portone si richiude alle mie spalle, mi ritrovo nell’oscurità più totale. Un mormorio attonito mi muore in gola; fino a un secondo fa il piano era normalmente illuminato dalla luce del mattino, tant’è che ho scorto l’interno completamente in legno e qualche statua di Ho-Oh su alcuni piedistalli. Ricostruisco velocemente quello che è successo sperando di trovarmi delle spiegazioni: apro la porta, faccio un passo in avanti, mi guardo intorno… poi il portone si richiude immediatamente, senza che io lo senta sbattere, e la notte prende il sopravvento.
Fin da bambina non ho mai amato il buio. Anzi, ne ero terrorizzata fino a non troppi anni fa, quando mi sono sforzata di affrontare questa mia paura e lentamente l’ho superata. So che non devo temere nulla, anche se ci fosse qualche Pokémon Spettro sono comunque nel mio regno, per così dire, e niente può farmi del male. Almeno spero - infatti ciò non toglie che mi senta estremamente a disagio: ho un’improvvisa voglia di andarmene.
La mia situazione psicologica peggiora quando cautamente faccio un paio di passi indietro, aspettandomi di ritrovarmi con la schiena al muro, anzi, attaccata alla porta, e invece dietro di me non c’è niente. Porto una mano dietro e la agito nel vuoto. Inspiro ed espiro rumorosamente per più volte nel tentativo di calmare il battito del mio cuore, ma mi sembra che il tempo passi e che io non faccia alcun progresso. L’unica alternativa che mi rimane è proseguire, non posso tornare indietro finché non avrò ottenuto la forma materiale del Legame.
E se fosse necessario rimanere qui dentro più di un giorno? Se ci fosse qualche enigma da risolvere che non sono in grado di affrontare? Se a ogni piano si presentasse una prova da superare e io non fossi all’altezza? Diventerei prigioniera della Torre? Le domande che si accumulano nella mia mente confusa sono tante e piene di ansia: tutte offrono una prospettiva terribile del mio avvenire se non trovo il modo di uscire da qui. Eppure deve esserci un modo per salire al primo piano senza andare a tentoni. Mi farò luce con il fuoco, nella speranza che le scale siano ben visibili. Passo l’Ala d’Iride alla mano che tiene pure la Campana Chiara per accendere una fiamma di buona portata che illumini almeno la parte del piano nelle immediate vicinanze. Alzo la mano davanti al mio viso e creo il mio fuoco arcobaleno.
O almeno, questo è quello che vorrei fare. La pirocinesi non reagisce al comando della mia mente: sulle prime mantengo la calma, anche se mi sento sempre peggio, e mi convinco a riprovare - forse il disagio che provo in questa totale oscurità mi sta ostacolando. Faccio più tentativi, mi sforzo come se fossi ancora ai primi tentativi con il fuoco, ma è tutto vano. Provo a sputare fiamme dalla bocca come mi è capitato di fare una volta con Sara anche se in maniera puramente istintiva; il risultato è sempre lo stesso. Neanche con l’aria ottengo niente.
Un gelido panico mi congela quando mi rendo conto di essere stata spogliata dei miei poteri. Non strillo, non inizio a tremare in modo incontrollato: sono bloccata sui miei piedi e sulle mie gambe, con gli occhi sgranati per una terrorizzata incredulità e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Non ho più nessuno dei miei mezzi: la speranza di trovare una via d’uscita viene meno, così come il mio respiro. Non so per quanto tempo rimango in apnea, lo sono almeno finché il mio cervello non riprende a funzionare. Mentre cerca una soluzione è però ostacolato dalle mie emozioni tempestose, e il conflitto tra di loro mi paralizza del tutto.
Alzo lo sguardo al cielo e il nodo che mi stringe i polmoni si allenta un po’. Non sono nell’oscurità più totale se i miei occhi non si limitano a restare incollati al terreno: il soffitto, sempre che sia esistito, è stato sostituito con una notte di luna nuova. Il buio totale del cielo consente alle stelle di brillare al massimo delle proprie possibilità. Mi tranquillizzo all’istante nel ricevere questo aiuto, o qualsiasi cosa sia, e il mio cuore riprende a battere come di consueto, libero dall’angoscia. La Via Lattea scintilla come non mai: non ho mai avuto visione di una notte tanto limpida, neanche nella quiete di Nevepoli, dove l’inquinamento luminoso è sempre stato pressoché inesistente.
Mi siedo a terra a gambe incrociate, senza ben sapere perché lo stia facendo, senza scollare gli occhi dal soffitto - o meglio, dal cielo. Una leggera brezza ha cominciato a soffiare e mi accorgo senza stupore di non avere più la mia giacca addosso, come se fossi stata privata di quest’ingombro in vista di ciò che mi aspetta.
Non riconosco nessuna delle costellazioni nel cielo, per quanto sia sempre stata incuriosita dall’astronomia fin da bambina. Il mio orientamento non è granché quanto alle stelle dell’emisfero boreale, ma non trovando neanche uno dei due Carri penso che stia osservando l’emisfero australe - che non ho mai avuto l’occasione di vedere, non essendo mai stata al di là dell’Equatore. Continuo a studiare, forse inutilmente, il cielo e a respirare con lentezza, segno che sono del tutto calma nonostante non abbia nessun mezzo per aiutarmi. Magari dovrei davvero alzarmi e camminare per la stanza finché non trovo, a tentoni, le scale per il primo piano.
Ma c’è qualche stella che attira particolarmente la mia attenzione. Sono degli astri come gli altri ma per me non sono muti e anonimi come il resto degli abitanti del cielo notturno. Il che potrebbe sembrare strano, perché queste tre o quattro stelle - poche, è vero - formano una costellazione talmente semplice che passerebbe inosservata a chiunque non sia uno studioso attento di geografia astronomica, che tra l’altro dovrebbe prima prendersi dei punti di riferimento per riconoscere questo piccolo disegno notturno.
È la Fenice. Quando il suo nome arriva nella mia mente penso che avrei dovuto aspettarmi una traccia del genere da parte di Ho-Oh - solo lui può avermi mostrato la costellazione e detto il suo nome, senza che io mi accorgessi di nulla. Mi alzo lentamente, continuando a fissare le stelle della Fenice, e una linea bianca e luminosa si accende per unire gli astri che la compongono: mentre appare anche un disegno dello stesso Ho-Oh contenente le stelle - che brillano sempre più intensamente, io rivolgo la mia attenzione alla linea di prima, che sta tracciando un percorso nel cielo. È una strada dritta che mi appresto a seguire, sapendo dove mi guiderà.
Mi ritrovo a salire una scala a chiocciola prima del previsto. I miei passi non emettono suono e, se la cosa normalmente mi inquieterebbe, adesso mi sembra quasi normale. I gradini sono tanti ma resisto, in modo stranamente paziente, rincuorata anche dal fatto che la luce stia tornando.
Quello che mi stupisce è che arrivo al primo piano quando mi aspettavo che l’illuminazione fosse come quella del giorno, mentre la luce è poca. Alzo gli occhi e ora il soffitto mostra un cielo plumbeo: le nuvole sono alte e molto lontane; con la volta stellata di prima non mi sono resa conto della grandezza di queste illusioni - non so come definire altrimenti ciò che vedo a ogni piano della Torre.
Sobbalzo quando il mio sguardo torna sull’ambiente circostante. Sono nel mezzo di una pianura sconfinata, sulla linea dell’orizzonte i nuvoloni carichi di pioggia si fondono con il verde vivo dell’erba di altezza regolare, che mi arriva almeno a metà delle cosce. Mi giro e delle scale che mi hanno condotta qui non c’è più alcuna traccia: è la cosa che mi sorprende di meno. Il senso di essere in trappola fa di nuovo capolino nella mia testa ma non essere completamente al buio fa sì che non mi paralizzi dalla paura, fortunatamente.
Rivolgo di nuovo la testa al cielo per sentire qualche goccia d’acqua schiantarsi sulle mie guance o sulla fronte - o peggio nei miei occhi, quando ne arrivano più numerose. È questione di pochi secondi perché la pioggia diventi bella battente e antipatica e sono pronta a scommettere che tra poco inizierà un vero e proprio acquazzone.
Come previsto, diviene tanto fitta e violenta che non solo non vedo niente a un palmo dal mio naso, ma quasi fa male: ogni goccia mi colpisce con forza inaudita. Digrigno i denti per sopportare sia i mille ticchettii dell’acqua sulla mia pelle che per reagire a tutta quella che mi va negli occhi, e cerco di muovermi anche se lentamente. Non so dove andare, probabilmente mi toccherà aspettare che a Ho-Oh venga voglia di mandarmi un indizio, di segnalarmi la strada da percorrere per arrivare al secondo piano, ma star qui a infradiciarmi senza sapere dove andare a sbattere la testa è quasi peggio di ritrovarmi sola al buio e sprovvista di poteri. Ovviamente neanche adesso funzionano, lo sento con chiarezza: grazie al cielo non fa freddo, nonostante mi stia inzuppando.
Controllo che almeno la cintura con le mie Poké Ball ci sia, e quasi maledico Ho-Oh - non sia mai che lo faccia davvero! - quando mi tasto la vita e i fianchi senza conseguire risultati. Le tasche dei miei jeans neri sono vuote e tutto ciò che ho addosso è una maglietta bianca, un cardigan blu notte e un paio di scarpe da ginnastica. Non solo senza poteri, ma anche nella più completa solitudine… se me ne fossi resa conto al piano di sotto sarei certamente andata in crisi; ora invece sento una grande irritazione che potrebbe sfociare nella collera, se al Leggendario prende la fantasia di giocarmi un altro colpo basso.
Mi fermo - non che prima riuscissi a muovermi granché, con quest’acquazzone - per riordinare i miei pensieri e allo stesso modo le emozioni: cuore e cervello sono in conflitto fin da quando ho messo piede nella Torre. Direi che il primo dà proprio del filo da torcere all’altro, visto che ora sono di nuovo turbata dal mio stato d’animo turbolento e incoerente e che, se al piano di sotto non ci fosse stato l’aiuto di Ho-Oh, adesso sarei piegata in due dalle lacrime nell’oscurità più totale. Questa maledetta pioggia mi sta distruggendo e non riesco a concentrarmi.
Come faccio ad affrontare il diluvio a mani nude? Già mi è stato assegnato l’elemento agli antipodi dell’acqua, il fuoco; se non ho nessuna cinèsi né Pokémon su cui fare affidamento potrei rimanere… no, mi rifiuto di riavere i dubbi di prima: cerco di confinarli al piano di sotto per impedire loro di assalirmi. Così come, anche se grazie ad un aiuto, sono riuscita a superare l’oscurità del piano terra, sarò in grado di affrontare questa pioggia terribile. Devo solo capire come… no, non sono proprio in una situazione felice. Alzo di nuovo lo sguardo al cielo e mi copro gli occhi con le mani - i risultati ottenuti non sono quelli sperati ma riesco a vedere abbastanza bene le gocce infinite che precipitano dai nuvoloni grigi. Mi sembra di essere tornata al Bosco Smeraldo di qualche mattina fa, anche se in quell’occasione stavo morendo di freddo: almeno questo Ho-Oh me lo sta risparmiando.
I minuti passano e l’acqua negli occhi è sempre di più, perciò smetto di scrutare il cielo e, come ho fatto prima, mi siedo a terra. L’erba alta mi fa un po’ impressione così, la mia testa emerge appena da questo mare verde. Pensavo che ripetere lo stesso schema per entrambi i piani fosse la cosa giusta, cioè guardare in alto e ricevere l’illuminazione; ora mi sono seduta allo stesso modo, ma mi sembra che il tempo scorra inutilmente. Forse è solo una sensazione che ne stia passando più di quanto ci abbia messo al piano terra per trovare la soluzione, perché di sicuro essere flagellata dall’acquazzone un po’ mi spazientisce, un po’ mi mette in difficoltà. In seria difficoltà.
Provo a ragionare, sperando che almeno stavolta riesca a dare un senso compiuto ai miei pensieri. Ora come ora sono una comune mortale in una situazione schifosa, cioè sotto un diluvio tremendo in un luogo desolato, e non ho niente con me. Faccio qualche tentativo con le mie conoscenze degli elementi ora in ballo, acqua e fuoco - il secondo sono io, la prima è mia avversaria: esaminando quello che so spero di trovare una risposta alla mia domanda “come combattere l’acqua?”; però più ci penso meno mi avvicino ad un’eventuale responso. Quando il fuoco e l’acqua si incontrano, l’una l’ha vinta e dell’altro non rimane che fumo. Fiamme di grande portata possono rivelarsi indifferenti al cosiddetto oro blu, è vero, ma io ora sono una misera umana in balia del diluvio universale.
Be’, come non detto: è inutile usare la testa perché ogni strada che imbocco si rivela essere un vicolo cieco. Forse la risposta non devo cercarla con la mente ma con le emozioni che mi stanno dando tanti problemi - con il cuore, insomma, e anche l’istinto. D’altronde Ho-Oh è conosciuto dappertutto proprio perché legato al cuore, sede delle emozioni e dei sentimenti, e il suo tipo Fuoco lo rende massimo alleato dell’istinto. È l’esatto opposto di Lugia, l’altra faccia della medaglia: un tipo riflessivo e misterioso, silenzioso, che nell’immaginario collettivo è collegato all’anima. Lugia e Ho-Oh, anima e cuore, acqua e fuoco: cosa posso ricavare da queste considerazioni? Da qualche parte dovranno pur portarmi; non mi sembra, poi, che il mio Leggendario stia intervenendo nelle mie riflessioni.
Se piovesse un po’ di meno riuscirei pure a rilassarmi mentre mi dedico a questi collegamenti - forse sono privi di senso, non ne ho idea. Mi stupisce che il problema non sia più ritrovarmi in una pianura sconfinata totalmente da sola: è l’acqua, che è rimasta allo stesso livello di forza fin da prima, a irritarmi non poco. Non avrei niente da ridire nei confronti di una normale pioggia - anzi, ad essere sincera non mi è mai dispiaciuto questo tipo di tempo. D’altronde ho passato quindici anni e mezzo della mia vita senza l’influenza del Legame e dei suoi elementi, perciò perché mai dovrei essere stata contraria ai giorni di pioggia? Se solo adesso fosse un po’ di meno, quel poco che mi serve per concentrarmi decentemente e trovare una risposta agli “enigmi” di Ho-Oh…
Mi sembra di sognare quando l’acquazzone allenta la presa fino a scomparire nel giro di qualche istante. Non posso credere che il Leggendario abbia esaudito il mio desiderio di calmare almeno un po’ il diluvio, è impossibile che abbia superato la prova in questo modo; ma allora perché adesso posso proseguire? Se mi giro vedo una scala di legno, anche stavolta a chiocciola, che spunta a caso nella pianura e sale verso il cielo - è una visione piuttosto assurda. Mi alzo titubante, chiedendomi se non sia un inganno di Ho-Oh, ma quando salgo i primi scalini non accade niente di strano; anzi, i dintorni mutano e, prima che mi renda conto di come sia successo, mi ritrovo circondata da pareti di legno che direi appartengano alla Torre Campana stessa.
Non capisco perché mi abbia lasciata passare, ma forse è meglio che mi sbrighi ad arrivare in cima alla Torre e che ottenga presto la forma materiale del Legame: sarà direttamente Ho-Oh a spiegarmi il perché. Nel frattempo devo solo affrettare il passo e ricordarmi di mantenere la calma, qualsiasi ostacolo si presenti davanti a me nei prossimi piani: non devo farmi prendere dall’angoscia né tantomeno irritarmi. Devo restare con il sangue freddo e far lavorare la testa - Ho-Oh sarà anche il Leggendario del cuore ma non posso proseguire affidandomi a ciò che provo. O almeno credo: in tal caso non ho capito cosa posso farmene di istinto ed emozioni.
Ovviamente dopo qualche gradino sono di nuovo completamente asciutta, come se non fossi mai stata minuti interi sotto il diluvio. L’aria però si sta raffreddando a dismisura e la luce sta aumentando: ho già una mezza idea su quale potrebbe essere il prossimo scenario offerto dalla Torre e non mi piace per niente. Purtroppo, e direi anche puntualmente, le mie previsioni si rivelano esatte quando trovo gli ultimi scalini coperti di neve.
Il secondo piano è teatro di una bufera come non ne vedo da anni. A Nevepoli ci sono stati - e ci sono - spesso allarmi meteo in vista di questo tipo di tempo, anche se le tempeste bianche che hanno luogo nella zona della cittadina non sono niente in confronto a quelle del percorso immediatamente adiacente, che porta, prima di arrivare in città, al Lago Valore, dal canto suo piuttosto indifferente al cattivo tempo.
Mi guardo bene dal superare l’ultimo gradino per impedire alle scale di sparire almeno un altro po’: ho bisogno di riflettere sul da farsi prima di buttarmi nella bufera. Le uniche cose che mi vengono in mente sono quelle da fare in caso di un tempo meteorologico come questo, che fortunatamente non ho dimenticato nonostante gli anni passati lontana da casa: peccato solo che la prima cosa da fare sia trovarsi in un luogo riparato o meglio ancora chiuso, come la propria abitazione, insomma.
Qui di posti chiusi non ce n’è. E anche se ce ne fossero, la neve e il vento sono talmente forti che è impossibile vedere: davanti a me c’è solo una miriade di frammenti bianchi turbinanti e impazziti. Devo escogitare qualcosa: Ho-Oh non mi grazierà di certo per la terza volta di fila, da adesso in poi devo mettermi in gioco in prima persona una volta per tutte. Perciò faccio un respiro profondo e metto piede nella bufera: potrei rimanere quanto voglio sull’ultimo gradino prima del piano innevato, ma una soluzione non la troverei mai se esitassi ancora.
Certo non è per niente piacevole immergersi nella tempesta. Per un momento sono tentata di tornare indietro ma so che le scale sono già sparite: tanto vale proseguire, per quanto sia difficoltoso camminare. Il vento rende le mie gambe pesanti e in ogni momento mi spinge ad arrendermi, ma non posso cedere perché sento che ne va direttamente del mio futuro. Non credo di essere mai stata così determinata in vita mia. Tengo un braccio davanti agli occhi per non essere accecata - sia dalla luce spropositata che direttamente dalla neve - e stringo i denti, cercando di resistere al freddo. Mi sembra che stia cercando di consumarmi, tanto è forte.
Non ho mai sofferto così tanto le basse temperature ma non posso fare a meno di andare avanti: un lento passo dopo l’altro, con i piedi che affondano nella neve alta fino alle ginocchia. Ho male ovunque e mi stupisco di non essere ancora congelata… di non essere ancora morta. Tutto ciò che posso fare per sfogarmi è gemere, lamentarmi, senza riuscire ad articolare parole sensate. Non so spiegarmi dove trovo la forza per muovere le gambe, né tantomeno so dire come faccia il mio corpo a muoversi ancora. È un supplizio ma è stranamente sopportabile - solo in un certo senso: come se provassi dolore in terza persona e perciò spingessi il mio corpo a proseguire, senza soffrire veramente e fino in fondo, come invece dovrebbe essere. Dovrei arrendermi, per forza di cose, a questo spietato gelo divoratore; eppure vado avanti, combattendo senza alcun’arma, supplicando le mie membra di tener duro. Loro cercano di dissuadermi, di lasciarle in pace, ma una tregua sarebbe senz’altro la fine e non posso permettere loro di prevalere: perciò proseguono al comando della mia forza di volontà. E anche della mia paura di rimanere qui per sempre, che a sua volta ha potere sul mio volere. Sono queste le cose di cui Ho-Oh si “occupa” come Leggendario: le emozioni, i sentimenti - che risiedono nel cuore - e la volontà - l’elemento del fuoco.
Un suono leggerissimo prevale sui ruggiti della bufera. Si trova nella mia mente, non proviene dall’esterno, ma sono sicura che la fonte sia la Campana Chiara che tengo con forza in una mano. Mi fermo e improvvisamente la tempesta mi è indifferente: sto in piedi, non più piegata in due dal vento impetuoso, e nessun fiocco di neve pare avvicinarsi ai miei occhi. Sento di essermi riappropriata dei miei poteri, il fuoco, l’aria e la mente. Però non credo che adesso mi servano: non ho più freddo e la bufera sembra starsi calmando. Nel frattempo è come se il mio corpo fosse protetto da uno scudo invisibile che tiene a distanza il gelo e la neve: il vento mi frusta i capelli ma non mi fa male, ora è completamente innocuo.
Pian piano della tempesta non rimane più nulla. Un po’ di neve scende dal cielo, dalle nuvole bianche appena appena tinte di grigio, placida e tranquilla. Il panorama si sta rischiarendo e mi ritrovo in un paesaggio montano - sono proprio su una montagna. Mi giro e vedo un’entrata, o forse un’uscita, che non ho mai attraversato; quando torno a guardare davanti a me, certa che non sia lì che devo andare, trasalisco alla vista di una figura umana. È voltata di spalle e osserva, sull’orlo di una rupe - su cui mi trovo anch’io, la vista nebbiosa e turbolenta sottostante a questa passerella di roccia incredibilmente alta. Quasi ho le vertigini. Sotto di me, anzi, sotto di noi imperversa la bufera; siamo su un livello sopraelevato, più o meno al sicuro.
Mi avvicino alla persona che è veramente a un passo dal cadere nel vuoto. È un po’ distante e cerco di affrettare il passo, però non riesco ad essere veloce più di tanto. Ma a una decina di metri di distanza realizzo chi è e mi manca il fiato per l’incredulità.
«Rosso!»
Il mio grido lo raggiunge e lentamente inizia a voltarsi. Ma non vedrò mai il suo viso: mentre si sta girando la sua figura si frantuma in una miriade di frammenti bianchi. Altri fiocchi di neve, che inizialmente restano a vorticare veloci attorno a una luminosa nebbiolina bianca che si trova dove prima stava il Master. Poi una folata di vento disperde nell’etere la bruma e sospinge verso di me la neve, che mi sfiora senza attaccarsi ai miei vestiti o finirmi tra i capelli. Sono semplicemente basita. Non mi capacito di questa apparizione di Rosso.
Meccanicamente mi sposto dove si trovava lui fino a un momento fa. Guardo il mare di nebbia al di sotto della rupe: il vento laggiù soffia con veemenza e sento anche numerosi tuoni. Se facessi un passo in avanti basterebbe perché precipitassi. Questo è il Monte Argento, alto e impervio come poche vette in tutto il mondo, assolutamente precluso alla maggior parte della popolazione. Non posso credere che Rosso abbia vissuto qui per più di vent’anni e per giunta da quando era ancora un bambino. Dev’essere per forza un mito costruito intorno alla sua persona, leggendaria per il suo rapporto con i Pokémon e il suo talento come Allenatore.
Torno indietro, terrorizzata all’idea che ancora un passo e Rosso - o la sottoscritta in questi lunghi istanti - sarebbe finito nel vuoto. Non posso proseguire per la rupe perché le scale per il prossimo piano mi sbarrano la strada: sono un ostacolo a dir poco gradito, e quasi di corsa le salgo, terribilmente angosciata dai miei stessi pensieri. Immediatamente lo scenario del Monte Argento viene sostituito dal ben più piacevole legno delle pareti della Torre, mentre la scala si avvolge come al solito nella sua forma a chiocciola.
Non so cosa aspettarmi dal prossimo piano: non è stato per niente bello provare a immedesimarmi nella testa di Rosso, che per aver costruito la sua storia attorno a quel Monte dev’essere semplicemente pazzo; ma se in qualche modo che non riesco a immaginare è veramente riuscito a sopravviverci per più di venti anni, nonostante sia un umano normale che non è Legato a nessuno, allora sono ancor più sconvolta. Mi è bastata un’occhiata alle nuvole ruggenti e vorticanti da quella maledetta rupe per decidere che sul Monte Argento non ci andrò mai tanto presto. Ho paura che al terzo piano la prova sia ancora peggiore.
Vi metto piede praticamente ad occhi chiusi, un po’ per calmare il fiato e il cuore dopo la corsa fatta per le scale, un po’ perché sono turbata per quello che potrei vedere se li aprissi. Lascio che le scale scompaiano e aspetto che il coraggio di spalancare le palpebre arrivi; quando ho chiamato a raccolta tutte le mie forze mi decido a guardarmi intorno. Tutto mi aspettavo meno che lo spettacolo che si presenta tutt’intorno a me.
Sono praticamente nel mezzo di una giungla. È sorprendentemente silenziosa per essere una zona che dovrebbe pullulare di animali ma bastava già l’ambiente in sé, anche senza che fosse del tutto muto, per lasciarmi interdetta. Mi aspetto che da un momento all’altro spuntino da ogni dove insetti di dimensioni spropositate, che non se ne vedrebbero neanche nei film, ma per quanto attenda non succede nulla. Mi inoltro per l’unico sentiero presente, che finché è visibile sembra non biforcarsi, attenta a non toccare alcuna pianta di quelle che mi circondano. Gli alberi sono altissimi ma dalle fronde basse, dappertutto penzolano liane che non avrei mai creduto di poter vedere “dal vivo” - come se fossi veramente in una foresta.
Soffia un leggero, gradevole venticello in mio favore. Se mi giro di spalle, cambia direzione ed è nuovamente favorevole. Immagino sia una buona cosa ma mi mette anche un pochino a disagio: ho sempre paura che compaia d’un tratto un qualche coleottero mostruoso. Eppure il tempo passa, il paesaggio non cambia nonostante mi stia facendo una passeggiata che sembra non trovare mai la sua fine, e l’unico problema che incontro per la strada è rappresentato dalle fronde più basse di alcune specie di alberi che riescono a costringermi a piegarmi, sebbene la mia altezza non si possa certo dire invidiabile.
Dopo un po’ faccio l’abitudine a questo tipo di ambiente e mi rilasso notevolmente, senza essere più preoccupata per l’eventuale presenza di insetti terrificanti. La foresta è attraversata da svariati, limpidi torrenti più o meno grandi che, a meno che non siano fiumiciattoli, hanno una portata d’acqua piuttosto buona, e perciò sono presenti dei piccoli ponti di legno per attraversarli. Mi avvicino alla riva di uno e, accovacciata, metto dentro una mano per sentire se l’acqua è calda o fredda: con mia sorpresa è piacevolmente tiepida.
Quando inizio ad avere dubbi sull’effettiva presenza di un’uscita da questo posto, svolto un angolo e mi ritrovo davanti alla ormai familiare rampa di scale a chiocciola. Finora ho cercato di capire quale prova dovessi superare, non trovando alcun ostacolo, e perciò mi sono rapidamente distratta, dedicandomi semmai a studiare le infinite specie di piante incontrate per la mia strada. Le larghe fronde degli alberi impedivano a gran parte della luce del sole di arrivare al suolo e quei pochi raggi che riuscivano a filtrare irradiavano appena l’ambiente di una curiosa luce dorata. Salgo le scale senza esitazioni, sperando solo che, dopo questo piano di pausa, non ci sia una prova pressoché impossibile da dover superare entro la fine della giornata.
Lo scenario del quarto piano, quinto se considero il piano terra come primo, si rivela simile a quello del diluvio, e questa prospettiva non mi allieta. Almeno non mi trovo in una radura in cui è presente solo erba alta: il terreno è piuttosto variegato e ci sono parecchi alberi. Credo di trovarmi su una collina; guardandomi intorno confermo la mia ipotesi e noto anche che sono nelle immediate vicinanze di una catena montuosa.
Il primo suono che odo è il vento; dapprima si limita a sospirare annoiato, ma mi tocca farmi venire in fretta qualche idea su questo quarto piano quando inizia a sbuffare sempre più forte, sempre più rabbioso, annunciando una tempesta imminente. Non riesco più a riflettere quando alla corrente impetuosa si aggiungono dei profondi ruggiti provenienti dal cielo nero di nuvole.
Una luce accecante che arriva da quest’ultimo mi fa distogliere l’attenzione da tutto il resto. Lo spettro di un fulmine lampeggia una volta o due in tempo perché mi renda conto di quello che sta per succedere. Gli segue poco dopo il più spaventoso, possente e inibitore tuono che le mie orecchie abbiano mai accolto. Riecheggia nella mia testa e mi sembra che lo faccia con ancora più forza del suono che ho effettivamente sentito, tant’è che mi tappo, ingenuamente, le orecchie con le mani. Più che i nervi su questo piano saranno messi alla prova i miei timpani.
I minuti passano ma la pioggia che mi aspettavo non arriva, perciò inizio a credere che avrà luogo “soltanto” una tempesta di fulmini. Il cielo ne manda tanti e io continuo a tenere le mani sulle orecchie, ottenendo ben poco con questo tentativo di proteggerle. Non mi fanno paura le saette né le loro urla tremende, ma essere da sola in un luogo sconosciuto, deserto, e rischiare di beccarmene una in testa non è decisamente nelle mie prossime intenzioni. Il problema è che non c’è neanche un posto riparato, come durante il diluvio del primo piano e la bufera di quello successivo. Devo inventarmi qualcosa prima di essere colpita da un fulmine - di morire, ecco. Rabbrividisco, non per il vento neanche troppo freddo: semmai per l’inquietudine.
Corro giù dalla collina, rischiando di scivolare e di scendere di sedere a ogni passo, per ritrovarmi davanti agli occhi la stessa situazione, soltanto in pianura: tanti alberi, abbastanza bassi e dalle fronde ricche di fogliame, disseminati qua e là come in una coltivazione di ulivi. Non conosco queste piante, però. L’erba che ricopre tutto il terreno a perdita d’occhio è abbastanza bassa - mi arriva alle caviglie - e di un brutto colore giallognolo, grigiastro.
Guardando gli alberi mi viene un’idea che non mi attira per niente, come la maggior parte di quelle che mi sono fatta durante la mia permanenza nella Torre. Da qualche parte dovranno pur esserci le scale per il prossimo piano, non penso - non me lo auguro! - che Ho-Oh pretenda da me una battaglia contro i fulmini, perché con o senza poteri la mia condizione sarebbe a dir poco svantaggiata. Sarei folgorata e ammazzata in un istante, insomma.
Ma allora queste scale dove possono trovarsi, da cosa sono celate? La mia mente corre subito a questi alberi bassi e dalle fronde larghe e piene. Sapendo però il rischio che correrei a salire su un albero, su cui sarei molto più esposta che da terra, mi guardo ulteriormente attorno in cerca di un riparo che possa anche nascondere l’accesso al quinto piano. Corro intorno alla collina per un po’ in cerca di una grotta o qualcosa di simile, però è veramente troppo grande per osservarla tutta; non vale la pena sprecare tempo prezioso in questo modo, e le saette si fanno sempre più frequenti e minacciose, sfogandosi, anche se molto in lontananza, sulla terra stessa.
Sono costretta a tornare alla mia idea iniziale: le scale nascoste negli alberi. Mi appropinquo quatta quatta all’albero più vicino a me e mi arrampico, aiutata dai suoi rami bassi, ma poco dopo scendo a terra con un balzo silenzioso, non avendo avuto successo. Riprovo più volte e, al terzo o quarto tentativo, quando le mie orecchie sono piene di tuoni e gli occhi ancora non abituati al fulgore dei fulmini sul cielo nero, trovo una scala scavata nel tronco, del tutto simile a quelle salite finore. Felicissima di avere una via d’uscita, mi sposto dal ramo, arrivo sul primo gradino e salgo di corsa, impaziente di superare, poi, l’ultimo piano prima della prova sulla cima.
Ma con grande sconforto e delusione scopro di aver gioito troppo presto. Esco dalla scala e mi scopro su un altro albero della landa colpita furiosamente dai fulmini, in un posto completamente diverso da quello di prima. Sono anche più vicina alla tempesta e immediatamente brividi angosciati mi muovono rapidi le gambe per andare a cercare un altro albero. Almeno ho avuto conferma che il passaggio per il prossimo piano si trova in una di queste piante - magra consolazione se penso che di alberi da esaminare ne ho a centinaia.
Dev’esserci un modo per uscire senza provarli tutti, un criterio da seguire, un disegno da tracciare. Ma come orientarsi in una situazione del genere per scegliere gli alberi giusti? La prima cosa che mi viene in mente è creare di nuovo la costellazione della Fenice, ma a malapena ricordo com’è fatta; e in ogni caso mi è impossibile capire con estrema precisione la posizione in cui dovrebbe trovarsi l’albero ricercato. Mentre cerco di farmi venire un’idea continuo ad andare a tentoni. Le mie speranze si rianimano quando trovo un’altra scala; peccato che anche questa poi mi riconduca all’ennesimo albero, ancora più vicino alla tempesta di fulmini.
Il mio cuore si ferma per alcuni lunghi secondi quando una folgore accecante colpisce una pianta a neanche troppa distanza da me. Ero appena saltata a terra quando questa luce devastante ha sconvolto il mio campo visivo, e le gambe non mi hanno retto: mi ritroverei a mangiare erba se un fortunato riflesso istintivo non mi avesse fatto mettere le mani avanti. Appena ho il coraggio, sposto il mio sguardo dal terreno - le braccia mi tremano follemente per la paura, e per poco non vengono meno anch’esse - all’albero che è stato colpito. Una larga parte delle sue fronde sembra essere stata incenerita e che si sia volatilizzata senza lasciar traccia. Il legno è stato squarciato e la pianta è nettamente divisa in due metà fumanti; il tronco è tutto annerito e bruciato ma non ha preso fuoco.
E se il prossimo fulmine dovesse colpire un albero accanto al quale cerco riparo? Per me sarebbe certamente la fine. Mi alzo in piedi con grande difficoltà e lentamente cammino, tanto per fare qualcosa. Un secondo fulmine colpisce un’altra pianta e così si ripete per un paio di volte, sempre cogliendomi alla sprovvista e quasi facendomi pentire di essermi avventurata nella Torre Campana senza un minimo di preparazione in più. Sono sicura che nella base del Sentiero Ding-Dong ci sia una biblioteca in cui sono custoditi tutti i segreti della dimora di Ho-Oh, ma sono stata così arrogante e allo stesso tempo ingenua da credermi in grado di scalarla senza dover provare alcuna paura! Certo non mi sarei mai aspettata una struttura come questa, ma sono stata una sciocca a pensare che fosse una normale Torre. Mi chiedo se anche le Isole Vorticose siano così insidiose, nella realtà: mi sembra che Ilenia ne abbia parlato come dei luoghi piuttosto normali.
Una volta che ho ripreso a pensare senza essere del tutto terrorizzata dai fulmini, mi avvicino ad ognuno degli alberi colpiti da essi, favorita da qualche minuto di bontà del cielo che non vuole tartassarmi in ogni momento. Provo a collegare i punti della radura in cui le saette sono cadute in vari disegni, che però ancora non mi dicono niente. Aspetto, anche se spaventata, che qualche altro fulmine scelga la sua prossima vittima, e quando arrivo a sei alberi colpiti riprendo le mie congetture.
Ma è al settimo fulmine che capisco dove cadrà il prossimo, e prima che sia troppo tardi scatto verso l’albero che ho individuato come sicuro passaggio per il quinto e ultimo piano prima della cima. Vi salgo con un salto, insicura che l’aerocinesi mi risponda in un momento di agitazione e angoscia come questo; e mentre corro per le scale odo in lontananza una forte scarica elettrica, che mi fa rabbrividire, e una pungente puzza di bruciato mi arriva alle narici. Arriccio il naso per il fastidio e rallento il passo, certa di essere fuori pericolo.
Fortunatamente è così. La prossima prova che mi attende, vedo appena metto piede sul nuovo piano, è una tempesta di sabbia. Questa novità quasi mi rende sollevata, dopo le brutte sensazioni provate nella radura colpita dai fulmini. Il disegno che questi tracciavano era una specie di rappresentazione di Johto: sono convinta di essermene resa conto non perché sia un asso in geografia, ma perché questa regione non dovrebbe avere segreti per me - o almeno non ne avrà quando otterrò la forma materiale del Legame e sarò a stretto contatto con Ho-Oh. Le città che i fulmini hanno scelto di rappresentare sono Borgo Foglianova, Violapoli, Fiordoropoli, Amarantopoli, Mogania, Olivinopoli e Fiorpescopoli. L’albero su cui sono salita io era poco distante da quello che simboleggiava Mogania: era Ebanopoli.
Prima che mi addentri nella tempesta di sabbia, un brivido - l’ennesimo nel giro di pochissimo tempo - mi blocca e mi tiene, spaventata, ferma sui miei piedi. Ho la netta sensazione che non sia una casualità, o meglio, uno scherzo di Ho-Oh - sarebbe anche di cattivo gusto - il fatto che i fulmini abbiano scelto di colpire degli alberi che rappresentassero le città di una regione. Ho il presentimento che le saette, in qualche modo, simboleggiassero una terribile minaccia - rappresentata ovviamente dal Victory Team - che non troppo lentamente divorerà la regione. Johto può essere, inoltre, una sola parte di ciò che i Victory devasteranno. Cercheranno di prendersi il mondo intero, come le Forze del Bene hanno appurato fin dalla sua nascita.
Ho-Oh sta cercando di mettermi in guardia, è evidente. I Leggendari sanno qualcosa che le Forze del Bene non conoscono ma non ne fanno parola, se non con i loro Legati, che poi non hanno il diritto di rivelare il tutto ai loro superiori nell’organizzazione. Mi chiedo se anche il mio Leggendario mi metterà a parte di qualche segreto che poi sarò costretta a non svelare - cosa mi succederebbe se lo facessi? Probabilmente lui sfrutterebbe i suoi poteri in modo tale da cucirmi la bocca su questi argomenti, e perciò non ci sarebbe alcun pericolo di parlare troppo. Dev’essere così, altrimenti non mi spiego l’assoluto silenzio di Legati e Leggendari su faccende che potrebbero essere spiegate solo da loro, come la selezione di una nuova generazione di “prescelti” avvenuta ancor prima della nascita dei Victory. E chissà se anche i miei nemici sono in una condizione simile, di avere a portata di mano persone che ne sanno molto più di loro, su di noi del Bene, ma che non apriranno mai bocca su questo.
Sospiro e mi rassegno ad ignorare tutto questo almeno per qualche altro tempo. Mi troverò con Ho-Oh tra poco e immagino che prima o poi mi confiderà qualcosa di cui potrò parlare, al massimo, tra altri come me. Prima però devo pensare ad arrivarci, da lui: se resto ferma sull’ultimo scalino e non mi avventuro nella tempesta di sabbia, non giungerò mai a destinazione. Non realizzo ancora quanto sia effettivamente vicina al traguardo.
Inizialmente riesco anche a camminare nonostante il tempo, che mai in vita mia ho sperimentato; sono nel bel mezzo di un deserto pieno di dune piuttosto alte. La sabbia non è terribile come mi aspettavo: è evidente che il peggio verrà tra poco, e che prima di non riuscire neanche più a muovermi devo trovare un modo per superare la penultima prova per poi ottenere la forma materiale del Legame. Devo coprirmi già gli occhi, però, quindi l’unico strumento che mi rimane per cercare l’uscita è la mia testa, povera di idee e di immaginazione fin da quando ho messo piede nella Torre. Solo nel precedente piano posso dire di aver lavorato abbastanza bene, e forse al primo, peccato che - mi vergogno un po’ a pensarlo - non abbia ancora capito perché Ho-Oh mi abbia lasciato proseguire, se non ho fatto niente a parte pensare al rapporto tra acqua e fuoco e a quello tra Lugia e Ho-Oh.
La tempesta di sabbia si sta facendo sempre più forte e non so come combatterla. Sono ormai convinta che usare i miei poteri sarebbe scorretto perché dovrei farcela con le mie sole forze, non con l’aiuto del Legame, come se fossi ancora una normale ragazza che non può contare su niente e nessuno all’infuori di sé stessa. Gli unici mezzi che ho sono il bisogno di andare avanti e la volontà di farlo: come se non bastasse e dovessi dimostrarmi che le mie intenzioni sono ferree, riprendo a camminare, per quanto muova ogni passo con difficoltà sempre crescente. Mi ripeto più volte che devo farcela, devo proseguire per dar prova sia a me che a Ho-Oh di non volermi arrendere.
Ed è questa la chiave che fa apparire, a poca distanza da me, le tanto agognate scale. Ho-Oh mi fa questa grazia di poter superare il piano a tempo record. Ma proprio ora che devo dare il meglio di me, continuando sulla stessa lunghezza d’onda fiera e pronta, inizio a vacillare. Vorrei poter salire questi ultimi scalini con disinvoltura e sicurezza, le stesse con cui ho affrontato la tempesta di sabbia, ma dopo qualche gradino mi fermo. Le mie forze vorrebbero darsela a gambe per non affrontare l’enorme problema rappresentato da Ho-Oh, che dovrei incontrare tra pochissimo per la prima volta in vita mia.
Se fino ad ora volontà ed emozioni hanno collaborato e mi hanno portata fin qui, adesso il mio codardo stato d’animo sta ingaggiando una lotta senza esclusione di colpi contro l’altra mia comandante. È un duello terribile e per questo chiudo gli occhi - tattica che finora ha funzionato quando ho cercato di calmarmi - e li copro con le mani. Devo proseguire, per quanto la riunione con Ho-Oh mi stia terrorizzando; non capisco come abbia fatto finora a dormire sonni tranquilli senza essere divorata dalla paura di questa prova! Mi sento attirata dalla cima della Torre ma adesso vorrei semplicemente andarmene.
Riapro gli occhi e trattengo un’esclamazione stupefatta: mi trovo sì sulla scala per la vetta, ma è come se le pareti di legno fossero scomparse e la scala a chiocciola si arrampicasse nel vuoto. Attorno a me c’è il cielo e sono molto in alto rispetto alla città di Amarantopoli e alla zona del Sentiero Ding-Dong. Non credevo che la Torre fosse così alta né tantomeno che fossero già passate tante ore: è il crepuscolo. Devo averne trascorse almeno sei o sette qua dentro senza farci caso, ma molto più probabilmente il tempo della Torre Campana è diverso da quello del resto del mondo. Grazie al cielo non soffro di vertigini, perché anche così è davvero impressionante la vista di Amarantopoli da chilometri di altezza - e non sto esagerando.
Forse è questa novità che mi spinge a riprendere la salita. In un certo senso mi ha distratta dalle preoccupanti congetture che finora ho fatto sulla prova con Ho-Oh, una peggiore dell’altra. So che è tutta un’illusione, come ogni scenario che ho trovato per ciascun piano della Torre… o almeno credo. Di una cosa sono sicura: non mi sarei mai aspettata né una struttura del genere per la mia prova, né che fossi in completa solitudine e che l’unico avversario da affrontare, ogni volta, fosse un diverso tipo di situazione. La notte al piano terra, il diluvio al primo, poi la bufera, la foresta, il temporale e infine la tempesta di sabbia… diversi tipi di ambiente e di condizioni atmosferiche, in effetti. C’è da aspettarsi che l’ultimo piano simuli un’eruzione vulcanica o che ci sia un sole forte come nel deserto. È l’unico tipo di tempo che finora non ho incontrato e si sposerebbe bene con il fuoco di Ho-Oh.
Fuoco all’ultimo piano, perciò alte temperature e sole a picco. Al quinto la tempesta di sabbia… perciò la terra. Fulmini al quarto per l’elettricità, natura - quindi erba - al terzo, l’aria e la neve al secondo, l’acquazzone al primo e la notte al piano terra. Rosso per il fuoco, la terra arancione, giallo a simboleggiare la saetta, verde per le piante e poi azzurro, blu e, in un certo senso, viola per l’oscurità. I piani totali della Torre sono sette e rispecchiano più o meno lo spettro dell’arcobaleno, collegando ad ogni colore uno o più tipi Pokémon.
Ecco il segreto della struttura di questo luogo leggendario: avrei dovuto capirlo prima - magari ci sarei pure riuscita, se non fosse stato per il continuo sentimento di stupore che si rinnovava ad ogni piano, e anche ad ogni passo - visto che Ho-Oh è il Leggendario dell’arcobaleno. Faccio un respiro profondo: sono molto più tranquilla dopo essermi dedicata a un po’ di riflessione, che mi è mancata per tutto questo tempo. O meglio, non è che mi sia calmata; però sono riuscita a mettere da parte l’agitazione quel tanto che basta per riuscire a muovere le gambe, che fino a poco fa sono state preda di una leggera ma imbarazzante tremarella.
Guardo in alto mentre cammino: la piattaforma della cima sembra sospesa nel vuoto dato che le pareti attorno a me si sono mimetizzate con il cielo del tramonto. Ancora qualche dozzina di scalini e sarò lì; non mi sembra vero. Inizio a preoccuparmi dell’espressione con cui dovrò presentarmi a Ho-Oh, come se fosse la cosa più importante a cui pensare: dovrei essere sicura di me, magari anche un po’ arrogante, giusto per mostrargli che non ho paura di quello a cui potrebbe sottopormi come prova finale prima dell’acquisizione della forma materiale del Legame. Molto più probabilmente però sarò semplicemente terrorizzata o come minimo basita.
Alla fine tuttavia sono “soltanto” svuotata dalla stanchezza, sopraggiunta dopo i sei piani superati, e dalle troppe emozioni provate. Perciò l’aspetto indifferente e freddo che traspare è lo specchio di quello che ho dentro, cioè niente. E con un viso così apatico salgo gli scalini rimanenti e arrivo all’ultimo piano della Torre Campana.
La volta celeste è del tutto tinta di oro e rosso, come le foglie degli aceri rossi nel Sentiero Ding-Dong. Prima che arrivassi qui il cielo visibile dagli ultimi scalini era un normale tramonto. Tutta la cima della Torre rifulge di questi due colori caldi e meravigliosi; e così come anch’io devo essere tinta da essi, una persona che sosta davanti ad una sorta di altare qui sulla vetta è loro soggetta. I capelli biondi, leggermente ricci, sono pieni di riflessi di fuoco; un lungo mantello cremisi, con le maniche larghe e tutto decorato d’oro e di bianco, è rischiarato opportunamente dall’altro colore del cielo. La schiena del mantello, che si avvicina però a una vestaglia dal sapore orientale, presenta un motivo dorato dalla forma vagamente a cuore.
È una figura maschile, molto alta, ed è voltata di spalle. Contempla la costruzione che si erge fino al cielo: dalla base sembra sbocciare un enorme fiore in legno che mi ricorda vagamente il loto, sui cui petali ci sono rappresentazioni sgargianti di Ho-Oh circondato da altissime fiamme. Una colonna nasce dal centro di questo fiore e una serie di esagoni, sette per la precisione, si arrampica per tutta la sua altezza. Ognuno è ricoperto di diversi disegni e contrassegnato da un ideogramma risalente a chissà quale civiltà del Primo Mondo. Il primo sopra al loto di legno è avvolto da fiamme arcobaleno.
«È un peccato che tu sia arrivata quando la notte si appresta a scendere su di noi. I nostri poteri darebbero il meglio di sé in pieno giorno.»
Ha parlato con una voce virile abbastanza profonda, quasi baritonale, e non c’è bisogno di dire che è bella, semplicemente bellissima. Non è quella con cui Ho-Oh si presenta nei miei pensieri, che non è umana e sembra la sovrapposizione di una voce maschile e di una femminile - anche se quest’ultima è molto meno presente dell’altra. Eppure sono sicura che quest’uomo biondo altri non sia che la leggendaria Fenice, sia per le parole che mi ha rivolto che confermano la sua identità, ma anche perché già da prima sentivo che Ho-Oh è proprio lui.
Si volta verso di me, ma forse non vedrò mai il suo viso - proprio com’è successo con Rosso. Delle fiamme arcobaleno avvolgono il suo corpo impedendomi di vederlo frontalmente; dopo poco dalle spire di fiamme sorge, imponente, Ho-Oh nel suo aspetto di Pokémon, spiegando le importanti ali e cacciando un grido acuto che risuona per chilometri e chilometri. I suoi occhi rossi, dalla forma ed espressione umane, cercano subito i miei. Quando le fiamme si dissolvono, Ho-Oh fa qualche giro intorno all’altare fino ad arrivare alla sua cima, permettendomi di vedere bene il suo corpo forte, le zampe robuste con gli artigli d’acciaio e la coda piena di piume lunghissime, tutte dorate. È eccezionale; non riesco a staccare gli occhi, pieni di stupore ed ammirazione, da lui.
Indietreggio di un paio di passi quando Ho-Oh atterra davanti a me, conficcando gli artigli ricurvi e affilati nel legno antico del pavimento. È talmente grande che quasi si deve chinare, nonostante abbia già piegato il collo abbastanza lungo, per creare un fermo contatto tra le mie pupille e le sue. Il suo petto si muove velocemente quanto il mio e questo mi fa pensare che i battiti dei nostri cuori e i nostri respiri siano perfettamente sincronizzati, e che magari lo siano sempre stati anche prima che lui si rivelasse. Continua a tenere le ali spiegate; la loro apertura è impressionante, non credo esista un Pokémon, anche Leggendario, con delle ali così grandi e lunghe. Presentano gli stessi colori dell’Ala d’Iride ma sono piene di riflessi che comprendono tutto lo spettro dell’arcobaleno. Non riesco a pensare a niente: sono completamente occupata a ricambiare il suo sguardo finché lui non avrà piacere di distogliere le pupille strette dalle mie, altrettanto piccole a causa dell’emozione e della luce dorata che Ho-Oh stesso irradia. Non ho voce per dire niente.
La Fenice ripiega le ali e questo riesce a tranquillizzarmi un po’, vista l’apertura alare che, combinata con il resto del suo aspetto, mi ha tolto il fiato. Insieme a quest’azione si muove anche il cielo che riprende i colori di un normale tramonto invernale. L’unica cosa che io riesco a fare è inginocchiarmi a terra, tenendo in grembo l’Ala e la Campana che mi impediscono di congiungere le mani, come in preghiera. Chino il capo e aspetto che sia Ho-Oh a parlare, perché io non so proprio cosa fare.
“Alzati” dice. La sua voce si fa strada nella mia mente già svuotata; ora che non ha una forma umana non può parlare come ha fatto prima. Obbedisco e solleva anche la testa, riprendendo il contatto visivo che, se non fosse stato per me, sarebbe rimasto intatto.
«Ho-Oh…» mormoro semplicemente.
“È il momento della tua ultima prova. Finora per superare i primi sei piani è stato quasi sempre essenziale fermarsi a pensare, a meditare. È qualcosa che si avvicina molto alla natura di Lugia, esercitare la mente e riflettere prendendosi il proprio tempo. Sei piani della Torre Campana sono profondamente legati alla mia - alla nostra controparte, così come tutto il percorso delle Isole Vorticose fino alla vera dimora di Lugia è intriso della mia presenza, e i miei elementi sono strettamente necessari per proseguire: te ne accorgeresti se ti facessi raccontare nei dettagli dalla Legata di Lugia il suo percorso, e sarebbe ancora meglio se tu stessa le attraversassi. Ma ora è il mio turno, com’è giusto che sia, com’è anche per l’altra faccia della medaglia nell’ultima sala delle Isole. È il momento di affrontare il cielo di fuoco.”
Annuisco. Ho-Oh usa cielo e piano come fossero sinonimi. Allora adesso sono letteralmente - in senso metaforico proprio no - al settimo cielo. Dischiudo la bocca per sussurrare qualcosa in risposta, ma non trovo niente di appropriato da dire. Serro nuovamente le labbra e sento una specie di sbuffo di disapprovazione nella mia mente. “Certo, non è che finora tu abbia fatto granché, eh. In condizioni normali non ti avrei lasciata proseguire con così poco, avresti dovuto far lavorare molto di più il cervello. Tuttavia ho bisogno di te tanto quanto tu ne hai di me. Il tempo stringe e siamo tremendamente in ritardo.”
«In ritardo per cosa?» chiedo subito, per niente colpita dal commento piuttosto acido del Leggendario - è come se non l’avessi neanche sentito. Ma lui non risponde a questa domanda. Mi guarda con grave intensità e mi dissuade dal porla nuovamente, cosa che altrimenti avrei fatto. Abbasso lo sguardo, stanca di queste pesanti occhiate intimidatorie. «Allora, che devo fare adesso?»
“Cos’è stato richiesto alla Legata di Lugia?”
«Ehm… ha cominciato a danzare come fosse in uno stato di trance, senza rendersene conto, e ha utilizzato la sua Campana e l’Aladargento.» Mi mette un po’ a disagio il pensiero di dovermi mettere a ballare anch’io. «Quando ha finito si è ritrovata trasformata e poco dopo è arrivato Lugia.» Faccio un’altra breve pausa; Ho-Oh non sta battendo ciglio. «Devo… devo ballare?»
“C’è qualcosa che sai fare molto meglio” ribatte lui.
La sua risposta mi lascia lievemente interdetta ma non ci metto neanche un secondo per capire a cosa sta alludendo. E solo ora capisco da dove proviene veramente il mio talento per il canto. «Ma certo. Il leggendario canto della fenice» mormoro. «Sarà passato più di un anno dall’ultima volta in cui ho cantato qualcosa che non fosse una canzone casuale nella mia testa… e dire che negli ultimi tempi, proprio quelli di maggiore vicinanza a te, mi sono praticamente dimenticata di saper cantare.»
“Non si è mai immuni all’influenza del Legame, anche se questo non dovesse mai esplicitarsi per tutta la vita dell’umano Legato. Ti è stato detto dalla Legata di Articuno che il suo aspetto è fortemente cambiato dalla vicinanza con la forma materiale del Legame; a lungo andare questo succederà anche a te, in modo molto meno brusco. Ciò non toglie che il tuo Legame con me si sia manifestato fin da sempre anche se in maniera quasi del tutto insospettabile. La tua voce imita il canto di una fenice.”
«Capisco» sussurro, guardando la pavimentazione in legno con occhi vitrei. Dunque prima della mia ultima prova dovrò far sentire la mia abilità a Ho-Oh. So già che nessuno dei brani che conosco è adatto a questa situazione mistica - di certo non posso mettermi a cantare la prima cosa che mi passa per la mente. Se c’è in ballo il mitico canto della fenice vuol dire che dovrò farmi ispirare, esattamente come Ilenia all’improvviso ha cominciato a ballare per richiamare l’attenzione di Lugia. Devo farmi guidare dal mio cuore, che attraverso la mia voce avrà tante cose da dire a Ho-Oh.
È quasi senza rendermene conto che comincio a toccare le prime note. Vibranti ma ancora flebili, presto acquistano più forza e si arrampicano su un pentagramma immaginario, scrivendo uno spartito che probabilmente non ricorderò mai. La Campana Chiara inizia a rintoccare a tempo e altri strumenti invisibili si aggiungono al suo suono cristallino e dolce. Non ne conosco nessuno: vanno perfettamente d’accordo con la mia canzone, di cui non capisco alcuna parola. Canto senza sapere che lingua sia quella che arriva alle mie orecchie.
Non comprenderò mai il significato preciso delle parole, delle frasi intere, ma so dire con certezza qual è l’oggetto della canzone: me stessa. La mia storia entro certi limiti, perché gran parte del brano descrive a Ho-Oh i miei sentimenti per lui, per le persone che ho conosciuto, per il mondo in cui vivo e per quello in cui ho vissuto finché non sono stata chiamata in una nuova realtà. I miei pensieri, le mie idee, per quanto poco maturi alcuni - magari la maggior parte - possano ancora essere… non importa: riverso tutto ciò che ho nel cuore, più che nella testa, in questo canto incredibile, che non riesco ad ascoltare veramente, ma che so essere inimitabile se non da una fenice. Queste sensazioni mi fanno continuare con fierezza e sicurezza crescenti.
Non so quanto a lungo vada avanti. Il cielo non mi dà indicazioni perché da quando ho cominciato si è nuovamente colorato di rosso e oro, e poi sono talmente intenta in quello che sto facendo, con gli occhi chiusi per darmi maggiore concentrazione, che il tempo è l’ultima delle mie preoccupazioni. Mi fermo solo quando sento che Ho-Oh ha ascoltato abbastanza, perché altrimenti penso che potrei proseguire per giorni.
Lui si solleva di nuovo in volo e la corrente prodotta dai potenti battiti delle sue forti ali mi agita i capelli e i vestiti. Senza realizzarlo pienamente mi rendo conto di aver cambiato aspetto mentre cantavo per lui: finora davanti ai miei occhi, quando soffiava il vento, si agitavano ciocche castane leggermente ondulate, e i miei vestiti scuri erano abbastanza aderenti. Ora ho i capelli raccolti in una coda, salvo un unico folto ciuffo, abbastanza lungo e arricciato soprattutto verso le punte, e un abito sicuramente simile, come fattezze, a quelli di Sara, Ilenia e Luke. Le maniche larghe e lunghe sono rosse, con luminose decorazioni auree, collegate a una sorta di giacca, a maniche corte, bianca e con parti cremisi. Sotto indosso una semplice maglia verde mela a maniche lunghe. Ho una grande fascia simile a quella di Ilenia, però dorata ed elaborata con disegni che non mi soffermo a guardare; e poi c’è l’ampia gonna bianca, a frange, lunga fin sotto il ginocchio, coperta in parte da un’altra specie di gonna più lunga, dorata e con i bordi sempre decorati, che la copre dietro a partire dai miei fianchi. Indosso dei sandali blu, con i lacci che si intrecciano lungo tutto il polpaccio, e delle calze bianche abbastanza spesse. Credo di essere dimagrita.
Questa metamorfosi non mi fa batter ciglio, né mi stupisce la sensazione di aver del tutto cambiato la mia forma mentis e il mio stesso carattere. Sono decisamente più simile al Leggendario che mi sovrasta, mantenendosi fermo nell’aria battendo regolarmente le ali, e che mi scruta con il suo sguardo umano. Non mi sento in soggezione e non provo paura, segno lampante del mio mutamento. Penso di sapere già cosa mi aspetta con quest’ultima prova.
Ho-Oh non mi chiede se sia pronta né mi fa altre domande. Semmai caccia un grido, il suo secondo strillo, che mi fa soltanto preparare una posizione come d’attacco. Socchiudo leggermente le palpebre, sferrandogli un serio sguardo di sfida, che subito dopo viene sostituito da un sorrisetto quasi di scherno. È un modo per dirgli che può farsi avanti, e il Leggendario coglie la palla al balzo, dando il via alla prova del settimo cielo.
Batte le ali con ancora più forza rispetto a quanto abbia mai fatto finora, e oltre al vento che si è sollevato mi sembra che abbia tremato tutta la Torre e la terra stessa. Indietreggio di un paio di passi e cerco di ritrovare l’equilibrio, poi ricambio il colpo ricevuto con qualche rapido e ben assestato pugno, che colpisce il nulla, ma che sprigiona una corrente da far invidia a quella del Leggendario. Mi sento più forte, come se il mio corpo rispondesse meglio e più rapidamente perché duramente allenato; mi trovo anche più agile e veloce e al contempo più pronta a ricevere colpi e reattiva nel rispondere. Questa nuova forma sta facendo miracoli, per quanto, grazie agli allenamenti nella base del Monte Corona, fossi diventata una buona - ottima, a sentire più d’uno - guerriera.
Dopo un altro paio di botta e risposta a suon d’aerocinesi, viene il turno tanto atteso del fuoco: Ho-Oh scende a terra e, con un altro grido, spalanca le ali e molte piste di fiamme si fanno strada per tutto il piano. Spicco un balzo per evitarle e contrattaccare ma quelle si staccano dal pavimento e, afferrandomi per le caviglie, mi sbattono sul pavimento senza tanti complimenti. Il dolore si fa sentire ma, dopo un breve lamento e stringendo i denti, mi rialzo subito in piedi per vedere un’altra ondata di fiamme in arrivo.
Stavolta cambio tattica: appena si avvicinano cerco di comandarle io al posto di Ho-Oh e, in qualche modo, riesco a strappargli l’autorità su di esse. Con movimenti circolari le plasmo come argilla e, quando arrivano a toccarmi le mani, si trasformano in un paio di ventagli da combattimento. So già come usarli - esattamente come Sara mi ha raccontato di saper tirare con l’arco grazie al Legame di Articuno. Perciò, impugnandoli come si deve e maneggiandoli con sicurezza, inizio a sferrare una serie di colpi da cui prende vita altro fuoco arcobaleno e ventate d’aria, che Ho-Oh evita o neutralizza con le ali o con gli stessi suoi poteri.
È una battaglia senza dubbio lunga: andiamo avanti senza prevalere l’una sull’altro, probabilmente perché Ho-Oh non sta cercando di mandarmi al tappeto - una Legata novellina come la sottoscritta non può averlo davvero messo in difficoltà. E infatti sta man mano alzando il tiro, e allo stesso tempo io mi sto inevitabilmente stancando: ho maggiore resistenza e fiato rispetto a prima ma non ho mai combattuto tanto a lungo. Ho perso la cognizione del tempo ma ne sta passando tanto. Sono visibilmente più lenta, per quanto decisa a tenergli testa il più possibile, ma appena do prova di una forza ancora da scoprire del tutto, lui mi mette alle strette superandomi ancora. Alle lunghe diventa frustrante e i miei attacchi si caricano non di forza di volontà e di volontà di dar prova di quello che posso fare, ma di un bisogno quasi lacerante, poco sportivo, di non farmi mettere i piedi in testa.
Quando quest’atteggiamento si fa proprio palese, Ho-Oh mal lo sopporta e decide che è ora di finirla. L’ennesimo attacco di aerocinesi mi fa finire con il sedere a terra e sento un acuto, stringente dolore ovunque; sembra volermi bloccare con qualche altro mezzo ma non ho ancora intenzione di arrendermi. Prima che mi incateni al pavimento con il potere della mente o con dei lacci di fuoco, mi rialzo di scatto - soffocando i gemiti provenienti da tutte le mie membra - e creo di nuovo dei ventagli con qualche fiamma arcobaleno.
Se avesse un viso umano, il Leggendario mi mostrerebbe i denti, ringhiando, e socchiuderebbe le palpebre scagliando fulmini dagli occhi per intimidirmi. Mi sfugge un altro sorrisetto, stanco ma soddisfatto di non avergliela data vinta - non ancora, perlomeno. Purtroppo non posso dire quando resisterò ancora, sicuramente non a lungo. Sono le battute finali della battaglia, queste, e devo fare del mio meglio per dimostrarmi degna, agli occhi critici e severi di Ho-Oh, di possedere il suo Legame.
Descrivo ampi movimenti circolari con braccia e mani, stringendo i ventagli momentaneamente chiusi, per creare una serie di serpenti di fuoco - la stessa cosa che il Leggendario ha fatto prima con me, mettendomi in difficoltà; però le sue piste erano molto più grandi e minacciose. Le mie serpi fiammeggianti cercano Ho-Oh per afferrarlo e strattonarlo, magari metterlo in catene; non devono fargli del male, esattamente come finora lui non ha cercato di ferirmi seriamente. La Fenice non si lascia stupire e, dopo aver scansato più tentativi di attacco, mi strappa il comando delle fiamme. Immediatamente, senza darmi il tempo di prepararmi per reagire, spalanca il becco e dalla bocca fuoriesce una vampata di dimensioni colossali.
Le spire mi avvolgono e temo che non siano inoffensive: mi nascondo il viso con le mani, perdendo ovviamente i ventagli; soffoco uno strillo sperando di non bruciarmi niente. Ma a parte un calore terribile, direi quasi infernale, non mi sento toccata da alcuna lingua di fuoco, e se succede senza che io me ne accorga vuol dire che le fiamme sono innocue, in fin dei conti. Apro gli occhi spostando leggermente le mani al sopraggiungere di una nuova sensazione: non mi voglio nascondere da quest’attacco e aspettare che finisca. Devo, voglio reagire, voglio liberarmi dalla gabbia colorata ma anche odiosa in cui Ho-Oh mi sta tenendo prigioniera.
Spalanco le braccia quasi ringhiando per lo sforzo, investita da un’improvvisa ondata di, credo, rabbia - non so bene che emozione sia. Le fiamme si allontanano da me e si dissolvono nel nulla, estinguendosi davanti agli occhi impassibili e gelidi del Leggendario. Per l’impiego di energie che mi ci è voluto per far questo, cado a terra ginocchioni e metto le mani avanti per sostenermi. Ho il fiatone e non me ne stupisco. Mi sento prosciugata e svuotata di ogni risorsa; molte ciocche di capelli biondi e leggermente ricciuti sono sfuggite alla coda che le legava.
Faticosamente rialzo la testa, sempre ansimando, e vedo Ho-Oh atterrare vicino a me. Riabbasso il capo e bisbiglio: «Mi hai messo proprio alle strette… hai voluto sfinirmi, Ho-Oh…»
Nella mia testa lo sento intimarmi di fare silenzio, con uno “Shh” appena udibile. Il suo tono però è dolce: non ho mai percepito la sua voce farsi così paterna e calda, quasi premurosa. Mi copre con un’ala e il torpore scende su di me: mi stendo su un fianco, sul pavimento, e non riesco ad alzare gli occhi per vedere il suo sguardo, capire cosa sta facendo, perché le palpebre mi si chiudono e mi addormento all’istante.
  
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