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Autore: keska    01/04/2009    22 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Mi affrettai a scendere le scale copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Cambiai canale ancora, e ancora, e ancora. Tic, tic, tic. Fare zapping era diventata la mia nuova attività giornaliera. Mi lasciai scivolare meglio sulla poltrona, incrociando le braccia sotto il petto, imbronciata. Non che, comunque, avessi qualcosa di meglio da fare. E non che, comunque, questa situazione non fosse colpa mia. Ma se solo fosse passato un altro secondo di questo genere, il telecomando si sarebbe potuto frantumare volentieri contro il muro…

Sussultai quando suonarono alla porta. Una serie di imprecazioni provenne dalla cucina, dove mio padre provava a cucinare. Sollevai gli occhi al cielo, approfittando della sua distrazione per alzarmi io stessa a andare ad aprire.

Ci vollero solo pochi attimi perché mi sollevassi dalla poltrona. Le costole mi dolevano ancora, essendo stata dimessa da poco dall’ospedale, ma non era niente di insopportabile. Camminare era un lusso che potevo concedermi non appena me lo lasciavano fare.

«Ehi» mormorai, facendomi da parte per far entrare Edward, sottraendolo alla pioggia perenne di Forks.

Mi sorrise appena, ravvivandosi i capelli con una mano. Negli ultimi giorni era stato una presenza indispensabile per lenire la mia paura riguardo al ritorno del mio ex miglior amico. Ma, contemporaneamente, era stato buio e pensieroso come non lo vedevo da tempo.

Feci per sporgermi a baciarlo ma si tirò indietro, scrollandosi la pioggia di dosso. «Sono bagnato» fece con un sorriso di scuse, «perché non ti vai a sedere? Sei stata un po’ stesa stamattina? Lo sai, stare a riposo ti aiuta a guarire prima».

Sospirai, cercando di misurare il respiro per non accentuare il dolore. «No, Edward. Non sono stata stesa, perché non sono più in ospedale e supermalata come prima, e perché non ce la faccio più, a stare stesa».

«Mmm» mormorò, chinandosi al mio orecchio «qualcuno è di cattivo umore, qui… Brutta mattinata?».

Lo ignorai, continuando a trascinarmi fino alla mia poltrona. Appena in tempo per vedere la faccia di ammonimento che mio padre fece al mio fidanzato. Sollevai gli occhi al cielo, tentando malamente di sedermi. Mi sentivo un caso umano, come se stessero trattando con una pazza.

Edward venne subito in mio aiuto, facendomi sollevare una gamba e sorreggendomi affinché mi poggiassi allo schienale. «Ti serve un’altra coperta o questa va bene?» domandò, sistemandomela addosso.

«Questa va più che bene. Ne farei volentieri a meno, anche. Grazie».

«Bella» mi rimproverò mio padre «avanti, non essere sgarbata».

Sollevai un sopracciglio. Da quando andavano d’accordo? Cos’era, una naturale coalizione maschile contro l’ingestibilità delle donne?

«Potrei avere dei calmanti?» domandai allora, le braccia incrociate al petto.

Edward si crucciò, osservandomi. «Hai dolore?».

«Ehi Bells, me lo devi dire se stai male» fece mio padre, subito agitato, carezzandomi una guancia. «Carlisle mi ha dato tutta una lista di farmaci che devo darti per ogni cosa diversa. Che cosa senti?».

«Solo un po’ male al petto» risposi, lasciandomi andare nei cuscini e chiudendo gli occhi. …e la voglia di drogarmi piuttosto che stare ancora ad ascoltarvi.

«Dolore, dolore. Fammi controllare, va bene?» borbottò, correndo in cucina.

«Sì, sì papà. Controlla» cincischiai, gli occhi ancora chiusi.

Passò poco che Edward mi prese la mano fra le sue, stringendola e portandosela alle labbra. Sospirai, lasciandomi andare, languida, al suo tocco, l’unico in grado di calmarmi veramente. «Cos’hai?».

«Te l’ho detto, è solo un po’ di indolenzimento…».

«No» m’interruppe, chinandosi a baciare le palpebre chiuse e costringendomi a riaprirle. «Cos’hai?» domandò ancora, guardandomi negli occhi.

Mi morsi un labbro. «Dimmelo tu».

Tornò mio padre, portando con sé la lista delle medicine. Mi fece mangiare quello che aveva cucinato prima di lasciarmele assumere, come prescritto. Peccato che, nonostante si fosse applicato molto per me, la vera medicina da ingoiare fu il suo cibo. Per questo Edward, con parole e gesti dolci nonostante il discorso che tenevamo ancora in sospeso, m’invitò a mangiare a casa sua, quella sera, e propose come se fosse un’idea di Esme quella di cucinarci qualcosa finché non mi fossi rimessa.

«Voglio andare a riposare» mormorai, facendo per alzarmi. In realtà volevo solo una scusa per andare di sopra e poter finire il mio discorso in sospeso con Edward.

«Ti accompagno» disse lui, intuendo forse le mie ragioni, o piuttosto per puro spirito di cavalleria, visto che ultimamente si sottraeva sempre più spesso alle mie domande.

Mio padre si schiarì la voce, osservandoci improvvisamente agitato. «Posso portarti io, Bells» borbottò, squadrandomi, forse per soppesare il mio peso.

Edward mi trasse a sé, sollevandomi fra le sue braccia. «Tornerò immediatamente di sotto, capo Swan. Per me non è un problema». Mi allacciai al suo collo, socchiudendo gli occhi.

Mio padre storse le labbra, combattuto. «Portala su. E falle un po’ compagnia» cincischiò, lasciandosi malamente cadere sul divano, il telecomando finalmente di nuovo suo. Era come se avesse perso una decina d’anni della sua vita, per assistermi. In fondo, essere padre non doveva essere così facile. «Compagnia casta, ragazzo» lo minacciò, mentre intanto Edward mi portava su per le scale.

«Papà!» esclamai, nascondendo il mio volto rosso sul suo petto.

 

Edward chiuse le tende della stanza, riducendola alla penombra e facendomi capire che no, non mi aveva accompagnata nella mia camera per parlare.

Strinsi il palmo contro il lenzuolo. «Edward…» lo chiamai, stanca di essere così scontrosa, desiderosa davvero di capire quale fosse il suo problema «rimani con me, per favore».

Mi sorrise appena, sfregandosi le mani. Sospirò, e si avvicinò al mio letto, dapprima temporeggiando accanto ad una sedia, e poi risolvendosi per sedersi accanto a me sul materasso.

Lo strinsi con le braccia, lasciando che facesse lo stesso con me. «Dormi. Riposarti ti aiuta…».

«A guarire, sì, lo so» completai la frase per lui, appena un sussurro nella stanza.

Sospirò e annuì.

Deglutii contro il suo petto, chiudendo gli occhi. Anche se avessi voluto non avrei potuto mettermi a dormire, perché la mia mente pensava troppo. E non a mille cose e mille problemi, ma uno solo, tuttavia enorme: Edward.

Che fosse per una ragione o per un’altra, non era più lui, e questo era certo. Non potevo negare di aver pensato, e spesso, che non fosse poi davvero riuscito a perdonarmi. E per questo, per quanto egoistico fosse, mi ero di gran lunga pentita di averlo spronato a riconoscere il mio errore.

«A cosa hai pensato?» mormorai, nel silenzio della stanza, contro il suo petto, «vorrei sapere che cosa hai pensato mentre ero lì, dentro quella sala operatoria, senza sapere se ne sarei uscita viva e come. Tu pensi tanto, quindi qualcosa devi averla pensata».

«Abbiamo qualcun altro che pensa tanto qui, sbaglio?» scherzò, il sorriso premuto contro i miei capelli.

Scrollai le spalle. «Tanto tempo a disposizione e niente da fare. Allora? Cosa hai pensato?».

Sospirò. «Una parte di me pensava fondamentalmente che dovevo stare calmo, o le poltroncine della sala d’aspetto non avrebbero più avuto i loro braccioli…».

«E dai!» lo rimproverai, pizzicandogli un fianco, «dimmelo e basta».

Mi sorrise, facendosi più serio. «Ho pensato che dovevo fidarmi di mio padre, perché lui era il migliore, e ti avrebbe salvata. Dapprima ho fatto su e giù per la sala d’aspetto, troppo irrequieto per stare fermo, pur con tutto l’appoggio di mia madre e di Rosalie. Volevo distrarmi, perché non volevo guardare nei pensieri di mio padre, di uno dei suoi assistenti o gli infermieri per vedere…» s’irrigidì, stringendo con le mani i piedi che stavo sfregando contro le sue gambe «per vederti lì, su quel tavolo operatorio. Ma poi, ho capito che non ci sarei riuscito. Mi sono lasciato andare, e ho visto, passo per passo, e sentito i loro pensieri. Così mi sono rilassato, e ho cominciato a pensare normalmente, come se fossi anche io lì con te. Ero arrabbiato».

Trattenni il fiato, osservandolo. «Mi dispiace».

Scosse il capo, un sorriso sulle labbra. «Non fa niente. Vuoi che ti dica lo stesso?».

Annuii, stringendolo più forte e chiudendo gli occhi. Qualsiasi cosa.

Prese a carezzarmi i capelli con la mano. «Ero arrabbiato con Jacob per quello che ti aveva fatto. Credimi, ero furioso. E lo ero perché ti aveva fatto del male, ma non era questo il motivo principale. Ero afflitto perché anch’io, per quanto il pensiero fosse assurdo, avrei potuto fartene, molto più di lui. Certo non ti avrei mai abbandonata in quello stato, ma…».

«Edward» sussurrai, riaprendo gli occhi «tu non mi farai del male. Perché dovresti? Non lo farai».

Sospirò, scuotendo il capo. Abbassò lo sguardo sulla coperta, non facendomi scorgere le iridi ambrate nascoste dalle sue lunghe ciglia. «Ero arrabbiato anche con te» mormorò, nel silenzio della stanza, «perché ci dobbiamo sposare, e pensavo di dover essere informato se qualcuno ti schiaccia con la schiena contro una parete».

«Edward» lo chiamai «mi dispiace, lo sai. Avevo solo paura… solo paura che saresti andato da lui, violato un patto che non ti avrebbe più permesso di stare qui con me o vi foste fatti del male…».

«Se gli avessi fatto male» fece, con dolore, risentimento, quasi… gelosia.

Provai a prendergli il volto fra le mani, per costringerlo a guardarmi. Inutilmente. «Te, Edward, te. Avevo paura per te. Tutto questo, quello che è successo, non è passato senza lasciare traccia. Me ne sono accorta. Mai, mai ho amato nessun altro che non fossi tu. Mai. Non metterlo in dubbio, ti prego».

Annuì, silenzioso. «Lo so. Me lo hai detto. Non è questo, il punto. Il punto è che, nonostante tutto, ti avevo dato la mia fiducia, e tu non me l’hai detto».

«Ma ora sto bene».

«Ma se fosse stato più grave?» mi rimbeccò, voltandosi a guardarmi negli occhi «se fosse stato più grave, o se fossimo arrivati qualche secondo più tardi? Ogni secondo, ogni secondo in cui mi guardavi e dicevi, con gli occhi “ti prego, aiutami”, perdevo mille anni della mia esistenza. Lo capisci questo?».

Stetti immobile a fissarlo senza dire nulla, finché mio padre, forse preoccupato che da casta la sua compagnia diventasse non casta, chiamò Edward al piano di sotto. Mi lasciò con la promessa che se avessi dormito, quando mi fossi risvegliata l’avrei ritrovato la mio fianco.

E così fu.

 

«Ti rimarrà la cicatrice» mormorò, continuando a passare le dita sul mio petto scoperto.

Aprii gli occhi, ancora assonnata. Lo fissai senza parlare.

Mi sorrise, sollevandosi dal materasso per prendere qualcosa che era posata sul comodino. Una busta bianca.

Mi umettai le labbra, stropicciandomi gli occhi per riprendermi dal sonno appena passato. Feci per mettermi seduta, ma proprio quel movimento fu più difficile del previsto.

«Aspetta» fece, venendo subito in mio aiuto.

«Grazie» cincischiai, la voce ancora impastata dal sonno. Afferrai la busta che mi porgeva dalle sue mani. Era spessa, patinata. Una carta di quelle che mi sarei aspettata contenere uno dei nostri inviti di matrimonio. «Cos’è?» domandai, voltandola su entrambi i lati «un invito di matrimonio?».

Sorrise. «No, no, per quello ci penserà Alice, stanne pur certa. Se questa sera sei invitata a casa mia non è solo per farti rimpinzare, credimi. Ad ogni modo, aprila e basta».

Feci come diceva, e mi trovai dinanzi ad un’intestazione strana e inquietante.

Accademia delle Belle Arti”

Fissai il foglio spesso cercando di dare un senso a quello che leggevo. Un lungo e approfondito corso estivo, preliminare solo a tutta una serie di scadenze e esami che permetteva di entrare nelle alte sfere artistiche dello stato di Washington e, con un po’ di talento, di tutti gli Stati Uniti.

Perché?

Mi accorsi delle lacrime sin dal primo istante, da quando sfiorarono le guance fin quando arrivarono sotto il mento.

«Bella…» mi chiamò Edward, disorientato e preoccupato.

«Ti-ti vuoi sbarazzare di me?» chiesi, piano, la voce che mi tremava.

Aggrottò le sopracciglia, stupefatto della mia domanda. «Cosa? No. Certo che no».

«E allora… cosa? Vuoi che sia migliore di così, che faccia per forza una stupida università o un… corso di belle arti?» singhiozzai, fissandolo incredula «come ti viene in mente? Se il tuo scopo non è quello di allontanarmi allora perché non stai con me quando sono sveglia, non mi abbracci, non mi baci mai? Cos’hai, Edward? Cosa…» scossi il capo, asciugandomi il viso con la manica del pigiama. Abbassai la testa, osservando ossessivamente il mio copriletto. «Ti ostini a dirmi che sono malata, e può darsi che sia vero. Ma non sono stupida».

«Non sei stupida».

«No» ripetei, sollevando il capo, gli occhi rossi. «Non lo sono».

Mi fissò con insistenza, ricambiando il mio sguardo senza abbassarlo. Infine sospirò, sfregandosi le tempie con le dita. Scosse il capo. «Non posso dirtelo. So come andrà a finire, è inutile che te lo dica».

«Fallo decidere a me» ribattei. Ma non parlò, nonostante aprisse e chiudesse la bocca, senza lasciar passare aria. Strinsi i pugni sui fianchi, decisa a pensare il peggio di quello che potevo. Le lacrime premettero per uscire dalle ciglia e le arginai strenuamente, chiudendo la gola in un magone. Aprii la bocca. «Non riesci a perdonarmi» sussurrai, soffocando ogni sillaba nel pianto.

«Ma no» fece subito, prendendomi per le braccia «no, no Bella, non è affatto questo. Non è per te, tu non c’entri».

Singhiozzai, provando inutilmente ad asciugarmi il viso con una mano.

Si sporse nella mia direzione, agitato, raddoppiando la presa sulle mie braccia.

Gemetti, mio malgrado.

Mi lasciò andare immediatamente, tirandosi indietro e scuotendo il capo. «Di questo, Bella. Ho paura di questo» sollevò il viso, osservando attentamente la parete contro cui, quella notte, il mio ex migliore amico Jacob Black mi aveva scagliata. «Da quando è successo tutto, non faccio altro che odiarlo - beh, più di prima. Ma quest’odio mi logora, perché sono consapevole che, in fondo, ha ragione. Perché posso farti del male» mormorò, spostando ancora lo sguardo su di me, triste, afflitto. «E perché, per quanto tu dica che non ne senti l’esigenza, ti sto privando della possibilità di avere un figlio».

Sospirai, facendo per sollevare una mano.

Scosse il capo, troncando le mie parole sul nascere. «No, Bella. Non è qualcosa che puoi negare, mettere da parte, mettere a tacere. Lo conosco il tuo punto di vista, so cosa pensi. Ma questa volta non basta un cerotto, per curare questa ferita. Perché continuerò a pensarci, e pensarci, e pensarci. E non riesco a farlo cambiare».

Non dissi più una parola, ma spostai le mani ad accarezzare i suoi capelli. Pensavo. Riflettevo sulle mie capacità, su quello che avrei potuto fare per farlo sentire meglio. Ma non trovavo niente, perché lui aveva ragione. Non bastava un cerotto. «Cosa vuoi fare?» mormorai allora, il cuore in gola «mi vuoi… non mi vuoi più sposare?».

Sibilò, irrigidendosi. «Certo, che voglio sposarti».

Annuii, intimamente più rincuorata. «Era per quello, allora? Era per quello il depliant delle Belle Arti? Per convincermi a continuare la mia vita da umana?» chiesi, provando a capire.

Scosse il capo. «No. Non è per quello» sorrise amaramente. «Ho pensato che ti potesse piacere coltivare un lato umano di te, prima della trasformazione. Mi piacciono i disegni che fai ovunque, quando sei nervosa, e Alice mi ha dato conferma del tuo talento dicendomi che quando eri a Phoenix disegnavi. Allora ho pensato che non volevi andare al college perché non avevi ancora trovato qualcosa che ti piacesse davvero, e così… eccomi qui».

Sorrisi, ascoltando il suo discorso imbarazzato. «Mi dispiace per aver reagito così. Non dovevo. Sono solo… solo un casino. E tu… tu eri così strano…».

Rise appena, chinandosi a baciarmi le labbra. «Lo so. Sei davvero un casino».

«Ehi» protestai debolmente, senza nascondere il divertimento nella mia voce. Mi feci più seria, osservandolo dal basso, stretta nelle mie braccia.

Anche lui mi guardò più intensamente, carezzandomi la schiena con un palmo aperto. «Dammi solo un po’ di tempo, va bene? Non ho cambiato idea su niente. Ti amo come prima. Ma dammi un po’ di tempo, ti prego».

Annuii, immergendo il capo nel suo petto. «Grazie. Grazie per non aver cambiato idea».

 

«Ce la fai? Stai attento, per favore» Edward aprì velocemente la porta di casa, lanciandomi una rapida occhiata, «non ti sta facendo male, vero?» domandò ansioso.

Emmett mi sbatacchiò in tutte le direzioni, ondeggiando verso l’ingresso. «Sta tranquillo, fratello. Non te la sciupo» dichiarò ilare, lasciandomi cadere sul divano.

«Se potessi camminare non mi sciuperei affatto» dichiarai risoluta, sospirando.

 «E brava Bella!» esclamò ilare la mia amica, comparendo in un attimo nella stanza. Si piegò china su di me. «Così devi parlare. Edward continua a dirmi che stai male, che sei in fase di guarigione, che sei stanca - Edward, non farle segni».

«Non ho fatto nessun segno!».

«Ti vedo, lo sai – dicevo. Non è vero, giusto?» mi domandò, un’espressione perfettamente innocente «vero che sei perfettamente guarita?».

Disorientata la osservai, passando velocemente da lei allo sguardo ansioso del mio fidanzato. «Beh… certo, sono…».

«Perfetto!» esclamò, sollevandosi e battendo le mani. «Ho una cosa da amiche da fare per ragazze in ottima salute!».

Edward abbassò il capo, scuotendolo.

Avevo il sentore di essermi cacciata nei pasticci. Deglutii. «Beh, magari non sono proprio in perfetta salute. Emmett ha dovuto scortarmi qui dentro… Vero Emmett?».

Sorrise, sornione. «Beh, a dire il vero ho dovuto convincerla, non voleva neppure farsi portare. Sempre ad opporsi, fare l’indipendente…».

«Vero, Emmett?» sibilai fra i denti.  

Sollevò gli occhi al cielo. «Vero, vero».

Ma Alice non demorse. Mi osservò, un sorriso sul viso. «Non ti preoccupare. E’ un’attività rilassante per persone in discreta salute. Sarà divertente, vedrai. E» aggiunse, quando vide che stavo per ribattere «il qui presente Edward, il tuo fidanzato nonché amore della tua vita, ti aiuterà» completò splendidamente, arpionandosi al suo braccio.

Storsi la bocca in una smorfia. Sì, mi ero cacciata proprio nei pasticci.

 

«Okay, questo fa male» mi lamentai, torcendomi le dita. La bella Alice se n’era andata, lasciandomi con un mucchio di inviti da firmare a mano. Il fatto che ci fosse Edward con me non mi aiutava affatto, poiché avrei preferito usare il nostro tempo insieme in maniera molto più produttiva.

Fargli capire che non ero una bambola di porcellana, ad esempio.

«Mi dispiace. Vedrai, presto sarà pronto da mangiare e potremo fare una pausa».

Sollevai gli occhi al cielo, sconsolata. «Potrò fare una pausa. È inutile che fai finta di andare piano per me. Lo so che ci metteresti solo un nanosecondo» mi lagnai, querula, mettendo il broncio.

Mi sorrise. «Dai, non fare così. Sorridi» mi ordinò, chinandosi a baciarmi. Baciarmi sul serio. Mi occorse un istante, dopo il tempo che era passato da un bacio del genere. Espirai, stringendo le mani ai suoi capelli e spremendo le labbra contro le sue.

Si staccò, osservandomi. «Ehi, respira» scherzò, toccandomi appena il petto nel punto in cui mi doleva.

Annuii, spostandomi accanto a lui sul divano. Lo fissai intensamente, finché il sorriso sulle sue labbra non divenne una linea retta.

«Che c’è?».

«Non aver paura» mormorai, sollevando una mano a carezzarmi una guancia, «non aver paura, andrà tutto bene. Se è troppo, per te, ci fermeremo, ci riproveremo. Puoi dirmelo. Posso perdere fare l’amore con te. Non posso perdere te».

Sospirò, colpito. Annuì, abbracciandomi. «Non perderai nulla. Te lo prometto».

«Mmm» mugolai, accoccolandomi contro il suo fianco. Posai il capo contro la sua spalla, lasciando che lo baciasse. «Ho pensato, sai».

Mi accarezzò i capelli. «Ah. Di solito una frase che inizia così non porta mai nulla di buono» scherzò, smorzando un po’ il tono serio che aleggiava ora fra di noi.

Gli tirai una pacca leggera. «Dai, smettila. Ho pensato davvero. Potrebbe… piacermi, il corso di cui mi hai parlato».

Si bloccò, chinandosi ad osservarmi. «Davvero?» chiese, entusiasta.

Annuii. «Davvero. Pensi sul serio che… possa farlo? Non è perché ti aspetti qualcosa di più da me?» chiesi, muovendomi a disagio fra le sue braccia.

«No, no» fece immediatamente, posando le mani su entrambi i miei fianchi. «Ascoltami, fallo solo se ti va e se ti piace. Non devi dimostrarmi nulla. È solo per un semestre, solo per divertirti e imparare qualcosa di nuovo, se vuoi. Decidi in piena libertà».

Sorrisi, timidamente. «Mi piacerebbe».

Mi restituì lo stesso sorriso radioso. «Bene, perfetto» dichiarò ilare, tornando a stringermi forte fra le sue braccia. E speravo che non smettesse mai di stringermi così forte.

«Edward?».

«Hmm?».

«Tu sai riprodurre perfettamente la mia calligrafia, vero?».

«Guarda che vi ho sentiti! Firma e basta, Bella!».

Sbuffai, schiacciandomi un cuscino sul viso.

 

   
 
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