Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Hotaru_Tomoe    02/04/2016    4 recensioni
Sebastian Moran, deciso a vendicare la morte di Moriarty, entra in possesso di un dispositivo sperimentale che permette di entrare nei sogni altrui ed è deciso ad usarlo su Sherlock per distruggerlo, ma Arthur ed Eames cercheranno di impedirglielo.
[Crossover con il film Inception]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Mary, Morstan, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 9

Mentre aspettavano che il dispositivo wireless completasse l’elaborazione delle onde cerebrali di Sherlock, il piano dell’ospedale dove era ricoverato si fece sempre più affollato, e arrivarono anche Molly, la signora Hudson e Lestrade.
Quest’ultimo aveva un piccolo sacchetto di carta che consegnò a John, guardandosi attorno con circospezione.
“Spero che tu sappia cosa stai facendo.”
“Sì, e grazie ancora: so quanto ti sei esposto per me.”
“Mi ringrazierai dopo, quando questo incubo sarà finito. Posso sapere cos’è successo?”
“Mycroft ti spiegherà ogni cosa.”
Lestrade raggiunse il maggiore degli Holmes per essere ragguagliato, mentre John si rigirava il sacchetto tra le dita.
Arthur lo avvicinò: “È l’oggetto che hai scelto come totem?”
“Sì.”
“Molto bene, vai una stanza vuota e studialo a fondo, fin nei minimi dettagli, è importante. Sbrigati, non hai molto tempo.”
“Va bene” rispose John, ma poi esitò, come colpito da un pensiero.
“Cosa c’è?”
“Sherlock non sa di stare sognando, a lui nessuno ha spiegato le cose che state dicendo a me, e soprattutto non ha un totem. Anche se riuscissi a risvegliarlo, come posso convincerlo che questa è la realtà e che lui è sveglio per davvero?”
Il viso dolce di Mal si affacciò alla mente di Arthur, e gli strinse il cuore: certo, era stata una delle prime cose a cui aveva pensato quando si era reso conto delle condizioni di Holmes, ma non aveva detto nulla per non gravare John di un altro pensiero.
“Non voglio nasconderti che questo potrebbe essere un problema in futuro, ma affrontiamo una cosa alla volta, va bene? Intanto facciamolo risvegliare, e poi ci penseremo.”
John non era molto soddisfatto della risposta e una parte di lui avrebbe voluto chiarire subito, ma Arthur gli posò una mano sulla spalla: “Fidati di me: in questo momento sovraccaricare la tua mente di preoccupazioni non ti porterebbe nulla di buono.”
“D’accordo.”
John si fece indicare da un’infermiera una stanza deserta e lì aprì la busta, facendo scivolare fuori il proiettile con cui aveva ucciso Jeff Hope, il proiettile con cui aveva salvato la vita a Sherlock, e anche se il consulente investigativo l’avrebbe considerato oltremodo sentimentale, il dottore sperava davvero che fosse di buon auspicio, quasi un talismano portafortuna per poterlo salvare un’altra volta.
Studiò il peso del proiettile sul palmo della mano, contò le striature e passò l’unghia dell’indice su tre piccoli bozzi sulla punta, dovuti all’impatto con un corpo solido, osservò il modo in cui rotolava su una superficie piana, rallentando per via di una piccola ammaccatura alla base, dove il metallo rovinato graffiava la pelle e i vestiti, lo alzò in controluce per memorizzare il colore e i riflessi.
Mary entrò nella stanza senza bussare e istintivamente John nascose il proiettile nel pugno sinistro: Arthur si era raccomandato che non mostrasse il suo totem in giro con leggerezza e, per il suo istinto, evidentemente anche la moglie rientrava nella lista degli esclusi.
“Ah, eccoti, ti stavo cercando.”
“Mary, cosa ci fai qui?”
“Che cos’hai lì nella mano?”
“Niente.”
“Non mi sembra” disse Mary, nel tono conciliante di una mamma che vuole far confessare al figlio una marachella, ma John non era dell’umore adatto per scherzare: c’era poco tempo e doveva memorizzare il suo totem il più possibile.
“Cos’è, a me non è concesso avere qualche segreto?” sputò fuori, con più astio di quanto non volesse, ma ora non aveva tempo per le cortesie.
“È il tuo totem, non è così?” domandò lei, tornando seria.
“E anche se fosse?” John coprì il pugno chiuso anche con la mano destra: ovviamente Mary non poteva vedere quale oggetto vi tenesse nascosto, ma il suo istinto di soldato cercava di proteggerlo in ogni modo.
Mary gli si inginocchiò davanti e sospirò, assumendo un’aria triste: “John, sono preoccupata per te.”
“Non ne hai motivo.”
“Io dico di sì, invece! Ho parlato con la signora Hudson che mi ha spiegato il piano che avete in mente per svegliare Sherlock: è proprio necessario che vada anche tu?”
“Sì, sono quello che conosce meglio la psiche di Sherlock.”
“Non dovresti andare.”
“E perché mai?”
“Perché tu non sai nulla di sogni e di estrazioni, non sai come muoverti e comportarti nella mente di un’altra persona, non sai come potrebbe reagire alla tua presenza e potrebbe accaderti qualcosa, mentre loro sono due esperti, dovresti lasciare che se ne occupino da soli.”
“Non posso: la situazione di Sherlock è particolare” si morse la lingua prima di aggiungere “loro sono due perfetti estranei per Sherlock, non saprebbero mai dargli quella motivazione profonda che gli serve per risvegliarsi: solo io posso, solo io sono importante per lui”, perché questo avrebbe rivelato alla moglie ciò che veramente provava per Sherlock, e non era il momento, né il luogo per affrontare l’argomento. Certo, se tutto fosse andato per il meglio e Sherlock si fosse risvegliato, era un discorso che dovevano affrontare, ma adesso l’unica cosa che contava era provare a salvare Sherlock dal coma.
“Quindi il fatto che io sia preoccupata non conta niente per te? E a Edith non pensi? Se ti accadesse qualcosa…” Mary contrasse il viso in un’espressione angosciata, per spingerlo a cambiare idea.
“C’è un sistema di sicurezza: la mia attività cerebrale sarà monitorata, e in caso di pericolo imminente, una iniezione di un farmaco particolare mi risveglierà, quindi non c’è nulla da temere” la tranquillizzò.
“Non mi importa! Io sono tua moglie e ti sto chiedendo di non andare.”
“Ma perché?” insisté John, che proprio non comprendeva la sua reazione.
“Te l’ho già detto: è troppo pericoloso e tu non hai idea di cosa dovrai affrontare!”
John stava quasi per cedere, memore dei voti matrimoniali e delle sue responsabilità di padre e di marito, ma c’era qualcosa di strano nel comportamento di Mary, anche se all’apparenza sembrava solo incarnare la voce del buonsenso: di fatti mentre erano fidanzati e anche dopo il matrimonio, John aveva inseguito un uomo pronto a far saltare in aria mezza Londra, era entrato in un covo di tossici, aveva dato la caccia ad assassini armati. Diamine! Aveva addirittura dato la caccia a un assassino durante il loro pranzo di nozze, e mai, mai una volta Mary si era mostrata così agitata, gli aveva chiesto di tirarsi indietro o gli aveva impedito di seguire Sherlock su una scena del crimine, quindi perché lo stava facendo proprio ora, quando il suo aiuto per Sherlock era indispensabile?
Inoltre le obiezioni di Mary erano molto vaghe: insisteva nel dire che fosse pericoloso, nonostante le sue rassicurazioni, ma senza spiegargli effettivamente perché. No, decisamente qualcosa non quadrava, c’era dell’altro sotto la paura di sua moglie, pensò mentre stringeva più forte il pugno che nascondeva il suo totem, e lui era stanco delle sue continue bugie.
“Tu invece sembri saperne molto sul dream sharing: conosci i meccanismi dell’estrazione e sai cos’è un totem.”
“In passato mi è capitato di entrare nei sogni di qualcuno per lavoro - rispose Mary evasivamente - ma non è questo il punto.”
“No, hai ragione, non è questo. Allora cos’è, Mary? Qual è il vero motivo per cui non vuoi che io entri nella mente di Sherlock?”
“Potrebbe essere pericoloso per noi due: fidati delle mie parole e basta.”
John aggrottò la fronte, inizialmente confuso: quindi Mary temeva che nella mente di Sherlock lui trovasse qualcosa che avrebbe danneggiato il loro rapporto? Tuttavia, anche sforzandosi, John non riusciva a immaginare qualcosa di più grave dell’aver scoperto che aveva sparato al suo migliore amico.
Inoltre Sherlock era in coma da quasi tre settimane, non poteva aver scoperto nulla di nuovo su Mary, perché l’unica persona che era stata nella mente dell’amico in quel periodo era stata Sebastian Moran.
Oh.
La rivelazione scese su John come una cortina di acqua ghiacciata, che gli provocò un brivido di orrore, rabbia e nausea.
“Mio dio, tu conosci il colonnello Moran” esalò adagio, aggrappandosi al tavolo davanti a sé con la mano libera.
La donna non negò, strinse le labbra e fece una piccola smorfia seccata, come una persona che si accorge di aver fatto un passo falso a causa di un errore di calcolo: probabilmente non si aspettava che il buon John, quello un po’ stupido e cieco, arrivasse a fare quel collegamento. Poi tornò a guardarlo con espressione assolutamente neutra, come la prima volta che gli aveva rivelato chi fosse veramente, senza ombra di rimorso o di vergogna sul viso: in quel momento John realizzò che Mary non si sarebbe mai pentita del suo passato, non si sarebbe mai scusata con nessuno delle azioni compiute; per lei essere un sicario era stato solo un lavoro come un altro, una parte della sua vita e di chi era, tanto quanto il suo primo giorno di scuola o la festa per i suoi diciotto anni, e lui poteva anche chiudere gli occhi e far finta di non vedere il suo passato, ma non per questo esso sarebbe svanito.
E il suo passato includeva una frequentazione con il braccio destro di Jim Moriarty. Forse anche con lui in persona.
“Non andare, John” insisté ancora.
“Moran lavorava per Moriarty - ringhiò John con voce bassa - Questo piccolo dettaglio ti è sfuggito?”
“Avevi detto che il mio passato era solo affar mio e che non mi avresti fatto più domande. Avevi promesso!” lo accusò.
John esplose gridando: “Questo è diverso e tu lo sai bene! Moriarty è l’uomo che ha tentato di ucciderci in piscina, che mi ha fatto indossare un giubbotto imbottito di C4, è l’uomo che ha rovinato la vita di Sherlock, costringendolo a fare ciò che ha fatto. Come puoi chiedermi di ignorare i tuoi legami con lui?”
“Io ero una freelance, non ho mai fatto parte attivamente dell’organizzazione di Moriarty e Moran - obiettò Mary per placarlo - ho solo collaborato con loro in alcune occasioni.”
“Credi che questo cambi qualcosa? Dimmi Mary, quanto bene conoscevi Sebastian?”
“Cosa facevate tu e Sherlock nei vostri sogni?” chiese lei in tono aggressivo invece di rispondere.
“Tu sei… io non ho parole - mormorò John, incredulo - e non provare a cambiare argomento!”
“Se tu mi chiedi del mio passato, allora io ho il diritto di chiedere dei vostri sogni.”
“Questa non è una competizione.”
“No, infatti, dovrebbe essere un matrimonio.”
“Io e Sherlock non abbiamo mai fatto nulla di ciò che stai insinuando: se proprio ti interessa risolvevamo casi insieme, come quando abitavo a Baker Street, nient’altro.”
C’era molto di più, ma John non pensava affatto che lei avesse il diritto di sapere, non dopo che aveva tradito la sua fiducia per l’ennesima volta. E poi i fatti nudi e crudi erano quelli: tra lui e Sherlock non era accaduto nulla, nemmeno un bacio vero.
Tuttavia sua moglie non parve per nulla soddisfatta o rassicurata dalle sue parole e lo incalzò ancora: “E io? Io ci sono mai stata in questi sogni?”
“Tu sei già nella mia vita reale” obiettò John.
Mary piegò le labbra in una smorfia amara: “Ricordi quella vecchia canzone che dice ‘I sogni son desideri’? È proprio così: i sogni ci mostrano quello che vogliamo davvero, e allora dimmi John: dov’era la tua famiglia nei tuoi desideri?”
John non rispose, preso alla sprovvista perché non si era mai soffermato a considerare quel dettaglio, e la donna proseguì: “Non c’era, dovevo immaginarlo. Perciò, vedi, non possiedi alcuna superiorità morale che ti autorizzi a chiedermi di me e Sebastian.”
No.
No, al diavolo, John non si sarebbe più fatto manipolare da lei e dal senso di colpa, quello era troppo, e avrebbe tracciato la linea lì, ora, in quella stanza asettica e vuota che sapeva di medicinali e disinfettanti, e che in quel momento assomigliava in modo terrificante allo stato del suo matrimonio.
“Quante volte, anche dopo aver scoperto chi eri, ti ho parlato di Moriarty e del male che ha fatto a me e a Sherlock? Quante volte ti ho confessato gli incubi che mi ha provocato l’essere stato trasformato in una bomba umana? Quante volte hai avuto la possibilità di parlare, di spiegarti? Ma non l’hai mai fatto, e se fosse stato per te di questo non mi avresti mai parlato. Perciò sei tu quella che non ha alcuna superiorità morale. Anzi, tu non hai alcuna morale e basta.”
John uscì di corsa dall’astanteria e solo davanti alla stanza di Sherlock si ricordò di aprire il pugno sinistro: il proiettile aveva lasciato la sagoma impressa nella sua carne ed era molto più vero e reale di quanto non lo fosse mai stato il suo matrimonio.

Sherlock sentì il materasso abbassarsi sulla sua destra e il lenzuolo scivolare lungo la schiena, e un attimo solo la voce di John gli sussurrò all’orecchio: “Sei sveglio?”
“Mh.”
“Devo andare al lavoro - sospirò il dottore con la gioia di un condannato a morte - ma tu me lo stai rendendo molto, molto difficile.”
Lo baciò tra le scapole e sul collo, senza dar segno di volersi muovere e Sherlock sorrise, sempre ad occhi chiusi.
“Non sto facendo nulla.”
“Sei qui, e sei nudo, è sufficiente questo - replicò John, continuando a muovere le labbra sulle spalle e sulla schiena del suo compagno - e io inizio a temere che farò di nuovo tardi.”
“Ragazzi, ci siete?” La voce garrula della signora Hudson interruppe la magia e John si allontanò da lui sospirando: “Il destino complotta contro di noi.”
Sherlock sollevò la testa dal cuscino e lo baciò sulle labbra: “Resta: la signora Hudson sa perfettamente cosa facciamo.”
“Non è un buon motivo per offrirle una performance in diretta, poi non riuscirei più a guardarla negli occhi.”
“Guastafeste.”
“Mi farò perdonare stasera, ora devo proprio andare. Tu cosa farai oggi?”
“Ieri sera mi è arrivata una mail che sembra interessante, potrei iniziare a lavorare a un caso nuovo.”
“Quale mail? Quella del rugbista?”
“No, quella di Nina.”
Nina gestiva un negozio di abbigliamento frequentato soprattutto dalle drag queens di Londra e aveva scritto a Sherlock perché alcuni clienti erano stati vittime di aggressioni poco lontano dal suo locale e l’ultimo era finito in ospedale.
“Ehi, se vedi che la situazione si fa pericolosa, mi chiami immediatamente, d’accordo?”
“So badare a me stesso” replicò Sherlock accigliandosi.
“Non è che non mi fidi di te, lo sai - disse John arruffandogli i capelli e baciandolo un’ultima volta sulla fronte - ma voglio essere al tuo fianco in ogni momento. Ricordi? Siamo io e te contro il resto del mondo.”
“Lo so” mormorò Sherlock issandosi sui gomiti per baciarlo: nonostante fossero passati anni da quando stavano insieme, quel piccolo gesto gli dava sempre la stessa emozione.
“Ci sentiamo più tardi, allora” disse, e uscì dalla stanza.
Mentre Sherlock recuperava i vestiti puliti da indossare dopo la doccia, sentì John salutare la loro padrona di casa e scusarsi perché non poteva fermarsi per la colazione, mentre la donna lo invitava a prendere almeno un toast da portare via.
Quando Sherlock uscì dal bagno sbarbato e lavato, la trovò ancora in cucina, intenta a mettere via piatti e pentole che erano rimasti a scolare nel lavandino dalla sera prima.
“Non serve.”
“Se aspetto che le mettiate via voi, queste pentole finiranno per arrugginire nel lavandino” rise la donna.
“Siamo perfettamente in grado di badare a noi stessi” insisté Sherlock, poi si rese conto che non vedeva la signora Hudson da molto tempo. Da quanto per la precisione? Non ricordava, ma era compito di John tenere a mente quei dettagli insignificanti, avrebbe chiesto a lui.
“Come sta sua sorella?”
“Oh, molto meglio, grazie - rispose lei versandogli una tazza di tè - Volete che vi cucini qualcosa per stasera?”
“Forse saremo fuori per una indagine.”
“E dimmi - domandò lei mettendogli davanti due fette di pane imburrato - come vanno le cose tra di voi? Siete ancora nella fase luna di miele dopo tutto questo tempo?”
Sherlock a momenti si soffocò con il tè: John aveva ragione, era estremamente imbarazzante parlare di certi argomenti con la loro padrona di casa; borbottò qualcosa e distolse lo sguardo, ma probabilmente era arrossito, rivelandole tutto ciò che c’era da sapere, viste le dimensioni del sorriso che si allargò sul volto dell’anziana.
“Ora ti lascio in pace, buona giornata.”
“Anche a lei.”
Il detective prese il giornale del mattino e, letti i titoli delle notizie in prima pagina, il suo umore peggiorò di colpo: c’erano state rivolte e sommosse in molti Paesi balcanici e dell’area dell’ex Unione Sovietica, che minacciavano di irradiarsi fino al cuore dell’Europa.
La guerra e la politica estera non avevano mai suscitato il suo interesse, ma ora quelle notizie funeste lo lasciavano irrequieto: a volte aveva la strana sensazione che il mondo come lo conosceva stesse collassando attorno a lui e che tutto sarebbe potuto finire da un momento all’altro.

Mary era rimasta in piedi in astanteria, come paralizzata, ma poi si riscosse, decisa a fare un ultimo tentativo per fermarlo: forse, una volta sbollita la rabbia, John l’avrebbe perdonata di nuovo, se solo non avesse incontrato Sherlock nei suoi sogni e non avesse saputo i dettagli dei suoi trascorsi con Moran. Sì, la situazione poteva ancora essere recuperata, ma doveva essere più convincente e insistere sulla loro famiglia, su Edith: era stata stupida, non aveva fatto leva abbastanza sulla bambina.
Fece per uscire a cercarlo, ma appena fuori dalla porta trovò Mycroft Holmes che la guardò scuotendo appena il capo.
“Ho anch’io un vecchio adagio per lei: chi semina vento raccoglie tempesta.”
“Voglio salvare il mio matrimonio, devo cercare di fermare John a ogni costo e lei non può biasimarmi per questo.”
“E come intende fare, sparargli alle gambe, per esempio?”
“Quello che state facendo è completamente inutile - insisté Mary - se l’architettura del sogni di Sherlock è stata creata davvero da Moran, allora per lui non c’è più alcuna speranza: io l’ho visto all’opera e so quanto è abile, il tentativo di John non servirà a nulla e finirà per soffrire inutilmente.”
“E se invece ci riuscisse? Se il legame che lega il dottor Watson a mio fratello si dimostrasse più forte delle macchinazioni di quel mercenario?”
“In tal caso - sospirò la donna - farò quello che deve essere fatto: so riconoscere quando vengo sconfitta ed è il momento di ritirarmi, è uno dei motivi per cui sono ancora viva. In ogni caso non succederà: Sherlock è già morto.”
“Vedremo. Nel frattempo non vogliamo certo influenzare negativamente l’ambiente in cui si trova Sherlock, vero? I miei uomini la accompagneranno ovunque lei voglia.”
Due individui in abito scuro si materializzarono dietro a Mycroft e Mary strinse le labbra: “Se la mette così, aspetterò a casa.”
“Saggia decisione.”

Le due poltrone per Eames e John erano pronte, i dispositivi e le siringhe con il farmaco anche: Arthur e Molly sarebbero intervenuti immediatamente in caso di necessità, anche se la ragazza, una volta informata di cosa contenesse il farmaco, si augurava che non fosse necessario.
Greg si avvicinò a John e lo prese un attimo da parte: “Sicuro di volerlo fare? Ho parlato con Mycroft e la cosa è davvero folle.”
“Mai stato più sicuro in vita mia, e poi non c’è altro modo.”
“Va bene - gli posò una mano sulla spalla e strinse leggermente - riporta indietro quel disgraziato: Anderson è ormai sull’orlo di una crisi di nervi.”
“C’è una novità - disse Arthur con aria grave - poco fa Moran si è collegato, ora è nel sogni di Sherlock.”
Alle spalle di John, Mycroft sussurrò qualcosa ad Anthea e fece un cenno a Lestrade, e i due uomini abbandonarono la stanza.
“Meglio così - disse John stringendo la mascella con determinazione - Ho parecchie cose da dirgli.”
“La nostra priorità è Sherlock - gli ricordò Arthur - Moran può attendere.”
John mise mano un tasca e toccò un’ultima volta il suo totem, si sistemò il dispositivo wireless sulle orecchie, rabbrividendo quando i due cuscinetti metallici gli premettero sulle tempie.
Un ultimo sguardo e un cenno a Eames, e…
… i due si ritrovarono a Londra, in pieno giorno, in una strada con diversi pub e locali notturni, che in quel momento erano tutti chiusi, e dove il traffico era scarso.
“Questa zona della città non mi è familiare - confessò Eames - Tu sai dove siamo?”
“Soho. Siamo stati qui diverse volte a raccogliere informazioni per dei crimini avvenuti nel mondo delle drag queens. Però c’è una cosa che non capisco: mi avevi detto che col progredire del coma di Sherlock, lo scenario onirico si sarebbe disfatto, mentre qui sembra ancora tutto molto concreto - disse John, battendo il pugno sinistro su un muro - Non è affatto quello che mi aspettavo di trovare.”
“È un buon segno, sai? Significa che abbiamo ancora tempo e che la mente di Sherlock è molto forte.”
“È un gran testardo, lo so” mormorò John con affetto.
“Ora vediamo di scoprire dov’è: preparati, perché potrebbe volerci del tempo, questo posto è immenso.”
I due camminarono a lungo, guardandosi intorno nella speranza di individuare Sherlock, ma dopo un’ora John iniziò a perdere le speranze; a un certo punto sbucarono su una strada molto trafficata, sormontata da un ponte pedonale in ferro che la scavallava.
“Questo ponte non esiste nella vera Londra” osservò Eames.
“No: secondo Sherlock alcune zone della città erano progettate in modo illogico e nella sua mente le ha ridisegnate.”
“Buon per noi, è un ottimo punto di osservazione ed poco frequentato: saliamo.”
“Le proiezioni di Sherlock ti preoccupano?”
“Un po’: per ora si sono limitate ad osservarci, ma percepisco ostilità nell’aria.”
John si guardò intorno, spaesato: “Io non sento nulla.”
“È un’abilità che si acquisisce con gli anni, ma fidati di me quando ti dico che l’inconscio del tuo amico non è affatto contento di averci qui.”
Eames tirò fuori un binocolo dallo zaino e osservò la strada sottostante, finché un’imprecazione non gli sfuggì dalle labbra.
“Che succede?” volle sapere John.
“L’ho trovato.”
“Non sembri molto contento: Sherlock sta male? È ferito?” Senza troppe cerimonie John gli strappò il binocolo dalle mani, lo spostò fino ad individuare il detective e mormorò una bestemmia simile a quella di Eames.
Sherlock camminava tranquillo lungo la strada e stava benissimo, ma non era da solo: c’era un altro John al suo fianco.
Guardare il suo doppio gli provocò una strana vertigine, perché era lui, ma al tempo stesso era molto diverso da lui: il John che camminava con Sherlock aveva molte meno rughe sul volto ed i suoi capelli tendevano ancora al biondo castano, invece che all’argento come i suoi, i vestiti in qualche modo gli calzavano meglio, senza pieghe, il suo incedere era veloce e sicuro, il passo di un uomo che ha molta fiducia in se stesso.
Ma non era solo quello: Sherlock e John si guardavano e si sorridevano, le loro mani si sfioravano e, di tanto in tanto, si sporgevano l’uno verso l’altro per sussurrarsi qualcosa, occhi negli occhi, oppure si scambiavano un bacio leggero.
Sembravano davvero felici e innamorati.
Eames riprese il binocolo e li guardò di nuovo.
“Quello accanto a Sherlock è Moran camuffato?” domandò John mentre lottava contro la rabbia all’idea che il braccio destro di Moran avesse solo sfiorato Sherlock. Dio, se le cose stavano così lo avrebbe fatto a pezzi con le sue mani, dentro e fuori dal sogno.
“No, ne dubito: Moran sarebbe stato molto più accurato e meno lusinghiero dell’elaborare il travestimento. Inoltre il Colonnello è stato assente dalla mente di Holmes molto a lungo, mentre il tuo doppio sembra essere una presenza costante, a giudicare dalla loro… uh… familiarità.”
“Allora chi è quello?”
“Nessuno: con molta probabilità è una creazione dell’inconscio stesso di Holmes.”
“Ma in questo caso Sherlock non dovrebbe essere consapevole che è solo una illusione?”
Eames si morse le labbra: “Non è detto: nella nostra mente esistono diversi meccanismi di protezione e uno di questi probabilmente sta impedendo a Sherlock di riconoscere che il tuo doppio non è reale.”
“Protezione da cosa?”
“Da un trauma, da una delusione, da un grande dolore. Possono esserci diverse ragioni, ma io credo che sia stato uno di questi meccanismi a fornirgli ciò di cui aveva bisogno: te.”
John si voltò, accasciandosi contro la ringhiera del ponte: Sherlock doveva essersi sentito rifiutato quando non lo aveva baciato in quell’ultimo sogno e lo aveva lasciato solo, e la sua mente aveva cercato di proteggerlo da quel dolore, creandogli un John che lo amasse come lui meritava.
Non immaginava di avergli fatto male fino a quel punto e si odiò per quello; si coprì la bocca con una mano e chiuse gli occhi, in preda alla nausea, mentre Eames gli posò una mano sulla spalla e si sporse verso di lui.
“Non è il momento di crollare.”
“Lo so, ma…”
Una donna di colore passò loro accanto, spingendo un carrello della spesa pieno di cianfrusaglie e guardò John con occhi ostili e penetranti.
“Penso che abbiamo un altro problema” disse l’ex soldato tirando Eames per la manica, ma prima che questi avesse il tempo di alzare la testa, la donna estrasse dal carrello una mitraglietta e freddò entrambi: John si ridestò con un grido e la signora Hudson gli strinse la mano: “Va tutto bene caro, Molly ha detto che è l’effetto del medicinale, passa subito.”
“Cos’è successo?” volle sapere Arthur, inginocchiandosi davanti a Eames.
“Questa volta non ho sognato abbastanza in grande - disse con un debole sorriso - e la mente di Holmes ci è ostile più del previsto: credo che intuisca le nostre intenzioni di volerlo far risvegliare e ci combatte.”
“Capisco Eames perché è un estraneo - disse John con voce malferma - ma con me non si è mai comportato così. Perché mi ha ucciso? Non mi ha riconosciuto?”
“L’hai visto anche tu il perché: Sherlock ha già il suo John, ha quello che desidera da sempre e combatte per proteggerlo, perché noi vogliamo portarglielo via. Per quanto assurdo possa essere, in realtà l’inconscio di Holmes è convinto di star proteggendo proprio te, o meglio: voi due insieme.”
“Il suo John? Di cosa state parlando?” chiese Molly, spaesata, ma John la pregò con lo sguardo di non fare altre domande: non c’era tempo.
“Questo complica enormemente le cose - mormorò Arthur - non solo Holmes non ha una spinta per volersi svegliare, ma al contrario ha tutte le ragioni per voler restare addormentato: quel Moran ha fatto proprio le cose per bene.”
“Non è solo colpa di Moran” disse John mordendosi le labbra: era anche colpa sua e del suo abbandono se Sherlock si era lasciato trascinare così docilmente in quel sogno.
“Dobbiamo convincerlo che tu sei il vero John: sei pronto per riprovare?”
“Sì.”
John riposizionò il dispositivo wireless, e questa volta lui ed Eames si trovarono catapultati a Regent’s Park sul fare del tramonto.
“Ma quando siamo stati sbalzati fuori dall’altro sogno era pieno giorno” obiettò John, stranito. “Nella mente il tempo scorre in modo diverso dalla realtà” rispose Eames per tranquillizzarlo, ma quel repentino cambiamento non era un buon segno: era probabile che il loro ingresso nella psiche di Holmes avesse iniziato ad alterare l’equilibrio di quel mondo onirico.
Questa volta individuarono quasi subito Sherlock e l’altro John: erano seduti su una panchina, davano loro le spalle e il detective stava parlando animatamente di qualcosa, probabilmente di una indagine; ai loro piedi c’erano alcune buste della spesa di Tesco.
John trovò la cosa molto bizzarra: lui e Sherlock non erano mai andati a fare la spesa insieme, perché pensava che il detective non fosse assolutamente interessato ad una cosa tanto banale.
“Ma gliel’hai mai chiesto?” gli chiese la voce della coscienza.
No, non l’aveva mai fatto.
Realizzò in quel momento che dovevano essere tante le cose che Sherlock aveva sempre tenuto celate e sigillate nel suo cuore e che invece aveva potuto avere lì, in quell’Eden illusorio e precario, e si sentì quasi un mostro all’idea di privare Sherlock del suo mondo perfetto e della sua fonte di gioia: quando mai Sherlock aveva avuto un viso così felice e rilassato?
“Non di certo quando è tornato a Londra, ma quando vivevate insieme quel sorriso hai avuto modo di vederlo, John Watson” gli ricordò ancora la sua coscienza.
Sulla panchina, Sherlock si sporse verso John e l’altro lo baciò dolcemente sulla bocca, più e più volte, e inizialmente John provò un infantile moto di gelosia perché quell’altro si stava appropriando di qualcosa di prezioso che doveva essere per lui, ma poi si ricordò che quella era solo una proiezione della mente di Sherlock e abbassò lo sguardo per pudore, perché stava spiando i suoi desideri più profondi senza alcun permesso, lo stava violando esattamente come aveva fatto Moran.
“Se vuoi salvarlo, non è il momento di avere certi scrupoli” gli disse Eames, e John risollevò la testa nel momento in cui l’altro John appoggiava una mano sul petto di Sherlock e diceva ridendo: “Se non ci fermiamo, ci arresteranno per oltraggio alla pubblica decenza.”
“Che cosa facciamo, andiamo lì?” domandò John.
“Non così in fretta - Eames lo trattenne per un braccio - vedere due di voi contemporaneamente potrebbe causare un forte shock alla mente di Sherlock, e non devo ricordarti quanto instabile sia la situazione. Dobbiamo separarli in qualche modo, poi tu lo avvicinerai da solo e cercherai di convincerlo che sta sognando e deve risvegliarsi.”
Un istante dopo al fianco di John non c’era più Eames, ma una donna bionda dal forte accento russo.
“Ma che cazzo-”
“Una tata che ha perso il bambino al parco. Caro Dottor Watson vorrà aiutare” cantilenò.
Eames aggirò le due imponenti querce dietro le quali si erano nascosti, ma non riuscì ad avanzare ulteriormente, perché una grossa tigre gli si parò davanti e ruggì mostrando le zanne affilate.
“Non ci rendi le cose facili, Holmes” sospirò Eames un attimo prima di essere aggredito e dilaniato. Il suo corpo si dissolse sotto gli occhi di John, che fuggì via, trovando un precario rifugio in una cabina del telefono. Riuscì a respingere un primo attacco della tigre premendo contro la porta con tutto il suo peso, poi udì un sibilo e dall’alto gli cadde addosso un serpente dai colori bruni di circa due metri che lo morsicò sul dorso della mano destra, intorpidendogli l’intero braccio all’istante: era un taipan, il serpente più velenoso del mondo.
Tipico di Sherlock, pensò John mentre moriva una seconda volta, più seccato per il fallimento che spaventato.
“Dovete fermarvi per un po’ - disse Molly non appena John riaprì gli occhi - non possiamo rischiare una terza iniezione del farmaco a così poca distanza dall’ultima, è troppo pericoloso.”
“Ma il tempo potrebbe non esserci” mormorò Arthur guardando il monitor che controllava l’attività cerebrale di Sherlock.
“Lo so che è uno sforzo per il fisico, dottoressa Hooper, ma dobbiamo riprovarci” le rispose Eames, ma mentre posizionava il dispositivo sulla testa, la mano di John lo fermò: “No: questa volta vado da solo e non voglio che mi pratichiate l’iniezione per farmi risvegliare.”
John fu investito da un coro di proteste da parte di tutti, solo Anthea rimase in un angolo a scrivere imperterrita sul cellulare (e dove diavolo erano finiti Mycroft e Greg in un momento come quello?)
“Ascolta - disse John rivolto ad Arthur, che più di tutti si opponeva alla sua idea suicida - non sta funzionando perché la mente di Sherlock percepisce la presenza estranea di Eames, mentre se entro io da solo ho più possibilità di avvicinarlo senza venir aggredito dalle sue proiezioni.”
“Questo posso capirlo, ma perché rifiutare il farmaco?”
“Perché se io ho la sicurezza che qualunque cosa mi capiti posso risvegliarmi senza problemi, che ho una via d’uscita da una situazione scomoda, ripeterei lo stesso identico sbaglio che ho commesso in passato, abbandonando Sherlock in balia di Moran. Se è vero che la sua mente percepisce le nostre intenzioni, come può tornare a fidarsi di me se non metto in gioco tutto me stesso nel tentativo di salvarlo? E se fosse proprio questa la motivazione di cui ha bisogno per tornare indietro? Se fossi al suo posto, sapere che qualcuno è pronto a rischiare la vita per me, di certo mi darebbe la spinta per risvegliarmi.”
Arthur guardò Eames, cercando in lui un appoggio per dissuadere John dal compiere quella follia, ma con sua sorpresa il suo compagno si strinse nelle spalle.
“Io sono stato in quella mente, tesoro, e quello che dice John ha perfettamente senso.”
“Sei conscio del rischio che corri, John? Se nel sogno dovessi morire di nuovo, senza il farmaco ti attende la stessa sorte di Holmes, e non potremo aiutarti” spiegò Arthur.
John chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro: Sherlock aveva fatto di tutto per lui, quando era tornato a Londra aveva fatto un silenzioso passo indietro e lo aveva lasciato andare con la donna che aveva sposato e la loro bambina, aveva scelto di tacere e reprimere i sentimenti che provava per lui e tutto questo solo perché John fosse felice.
Forse Sherlock pensava di non poterlo avere, di non essere abbastanza per lui, di non poterlo rendere felice, ma si sbagliava: John toccò il totem dentro la tasca dei pantaloni, quel proiettile che era stato l’inizio della loro complicità, del loro legame, del loro… amore. Sì, ora John riusciva a pensare a quella parola nei confronti di Sherlock senza provare paura o sensi di colpa, e finalmente era pronto a mostrargli quando contava per lui.
“Lo so - disse con voce chiara riaprendo gli occhi e, prima di attivare un’ultima volta il dispositivo, si rivolse a Eames - Avevi ragione solo in parte: si fanno le cose più stupide per amore, ma anche le più giuste.”

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Hotaru_Tomoe