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Autore: AdeleBlochBauer    03/04/2016    1 recensioni
Se Valjean fosse stato presente quando Javert tentò il suicidio.
Un percorso morale e spirituale che, da qui, può scaturirvi.
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Una storia scritta qualche tempo fa, dedicata unicamente all'amore e alla gratitudine per Victor Hugo.
Non chiedo nulla e non ho nessuna pretesa: ma, forse, se hai amato I Miserabili quanto l'ho amato io, forse questo ti piacerà.
O, almeno, lo spero.
Grazie.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Javert, Jean Valjean
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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3. Gratia Plena


Era certo che il cammino di Javert non seguiva alcun tragitto.

Fu dunque solo un caso che si ritrovò nella direzione di Rue Saint-Denis? I resti della barricata suscitavano forse una particolare attrazione per lui? Era l'inconscio desiderio, naturale in chi è perduto, di ritornare nell'ultimo posto riconosciuto come sicuro? Si potrà obiettare che la barricata non era stata affatto sicura per Javert: era stato imprigionato, ingiuriato, immobilizzato per ore intere, minacciato fin dal principio di fucilazione certa.
Ma Rue Saint-Denis era, in effetti, l'ultimo posto in cui Javert aveva potuto riconoscere se stesso, il proprio ruolo e le proprie certezze. Dopo gli eventi della barricata, solo il caos. Era lì che era cominciato tutto: lì, fra i giovani combattenti e i muri di pietra, davanti alla pistola inesplosa di Jean Valjean, era avvenuto il crollo dell'assoluto nel fallace, dell'ideologia nel dilemma, dell'inflessibile nel nebuloso.

Erano passate solo poche ore dal massacro. Dal sangue ancora per strada, dai morti non ancora raccolti, esalava quel particolarissimo respiro, muto e torbido, della vita appena strappata.

Qui, Javert avanzava.
L'abbiamo detto: non seguiva nessuna direzione. Si accorse quasi per caso del posto in cui si ritrovava.

Quella strage non gli faceva alcun effetto. I denti digrignati dei cadaveri, le loro mani congestionate, gli abiti strappati e ricoperti di sangue: c'era abituato. Aveva visto molte rivolte, partecipato a molte sparatorie, ucciso molti uomini, vecchi e giovani. Non gli avevano mai smosso la benché minima pietà. Anche ora, quei volti così giovani, così rigidi e ancora contorti dalle smorfie di terrore, non lo turbavano affatto. Era gente, si diceva, che aveva cercato volontariamente la morte, in un atto peraltro di tradimento verso la patria e il Re.
Erano criminali.
Perchè averne pietà?
Quei ragazzi avevano deciso di scontrarsi contro una forza maggiore, implacabile, immensa e invincibile: lo Stato. Avevano perso, com’è giusto che sia, avevano pagato. Sapevano di non poter vincere: erano andati incontro alla morte a sangue freddo, per loro precisa volontà. Si erano scelti da sé questa sorte. Le loro ferite aperte, il loro sangue sparso e rinsecchito, la loro pelle ormai grigiastra: tutto questo era inevitabile, dal momento in cui si erano voltati alle leggi della società. Era quello che avevano voluto, era quello che avevano ottenuto.

Javert proseguiva, sempre impassibile, nel proprio passo. Avevano rotto un contratto con la società, ebbene, ecco a cosa ha portato. Le guardie che li hanno uccisi erano parte di una verità universale. I rivoltosi dovevano morire, volevano morire, e sono morti. E la loro fu, senza dubbio, una morte portata da un sistema in giusto ordine…
Una morte, per così dire, necessaria …
… E non c’è vita, neanche la più misera, che valga la pena sacrificare.”

Javert si arrestò.

Non poteva dire come le parole di Valjean lo avessero colto in quel modo, all’improvviso, senza una minima partecipazione da parte sua. Gli erano, come si suol dire, letteralmente cadute dal cielo.

Javert restò immobile, fissando il vuoto, per qualche istante.

All’improvviso, sentì un rumore.

Javert si riscosse dai suoi pensieri e mosse la testa, all’erta. Era una suono acuto e leggerissimo, che andava a tratti. Cercò di muoversi seguendo quello strano pigolio, facendo ben attenzione a non pestare qualsiasi cosa potesse fare il minimo rumore. Credette di individuare l’origine del suono in qualche grossa asse di legno a pochi metri da lui, ammassate l’una sull’altra, numerose e pesanti. Si avvicinò, chinandosi sulle travi. Il pigolio continuava, ora più nitido.

Era una voce, flebilissima.

“Aiuto.”

Javert afferrò le travi, l’una dopo l’altra, liberando un mucchio di detriti.

Fra i detriti, una bambina.

Doveva avere circa cinque anni, ma era minuscola.
Era ricoperta da stracci miseri, i capelli avvolti in un fazzoletto tanto piccolo che, tutto aperto, non avrebbe coperto il palmo di Javert. Era sporca di terra e tutta impolverata. Una grossa ferita le attraversava l’addome.

Ciononostante, appariva piuttosto serena.

Avendo sentito dei passi poco distanti da lei, aveva cercato di chiamare aiuto al meglio che poteva. Era contenta che l’avessero ritrovata.

“Buongiorno”, disse a Javert, candidamente, come se fossero entrambi alla luce del sole e quella fosse una normalissima conversazione di città, “voi chi siete?”.

Javert, in ginocchio, la prese, liberandola dalle macerie, e osservò attentamente lo squarcio che aveva sul petto. Era una pallottola che l’aveva colpita di sbieco, creando una lacerazione relativamente poco profonda, ma molto ampia. Sentì il polso della bambina, poi alzò la testa e si guardò intorno, calcolando mentalmente le distanze. Dopo qualche istante, però, il suo sguardo si posò di nuovo sullo stato della ferita, sulla pelle bianca e gelida e sul polso tanto debole della bambina.
Per lei non c’era speranza; aveva resistito quelle ore, ma era evidente che il cuore stava sforzando i suoi ultimi battiti. Anche cercare una cura, ormai –Javert ne era sicuro- comunque inutile per una ferita di quell’entità e in quelle condizioni, sarebbe valso almeno una decina di minuti: la bambina non aveva che due o tre minuti ancora da vivere.

“Voi chi siete?” ripeté lei, con la giusta ostinazione dei piccoli quando gli adulti non rispondono alle loro domande espresse con tanta chiarezza. “Non vi conosco, non penso… non vi ho mai visto qui… oh! toh!” fece lei, toccando con il ditino la redingote umida di Javert, “siete bagnato. Però non piove”. Vedendo che l’adulto continuava a non rispondere, limitandosi a fissarla, rinunciò a saperne l’identità e a fare commenti su quella stranezza di avere i vestiti bagnati nonostante fuori non piovesse. Voltò vagamente lo sguardo da una parte e dall’altra, poi chiese, con la medesima tranquillità di prima: “Dove sono mamma e papà?”.

Non c’era rimasto nessuno nella via. Una lunga distesa di corpi morti.

Javert fece per rispondere. Infine, non disse nulla.
La bimba non si arrese: “Allora, dove sono? Mi ricordo che mamma e papà erano preoccupati per i rumori di fuori… c’erano un sacco di botti, di là… poi qualcosa di grande è caduto. Non li ho più visti” constatò placidamente. “Voi li avete visti? Li riconoscete: mia mamma è molto bella, mio papà è anche lui molto bello. Poi ci sono i miei fratelli e sorelle, alcuni di loro sono buoni e altri non buoni come loro. Che freddo che fa!” disse all’improvviso, rabbrividendo. “Fa molto freddo, voi siete anche bagnato, dovreste sentirlo. Perché fa così freddo?”.

Javert continuava a tacere. In un gesto del tutto istintivo, la strinse più saldamente.

“È strano. Pensate che sia opera di Dio? Quando ho chiesto alla mamma cosa stava succedendo, e perchè erano tutti così preoccupati, mi ha detto che dovevamo affidarci a Dio, perché Lui è… onnopotente. È Lui che conosce il nostro destino e ci salva”. Guardò Javert, spalancando gli occhi, dubbiosa: “Cosa significa ‘onnopotente’?”

“Onnipotente. Può tutto” rispose finalmente lui, con voce un po’ roca.
“Ah, sì, può tutto. Sì, sì, è vero. Questo freddo è opera di Dio? Ah!... aspettate!... so chi siete!” fece lei, illuminandosi tutta, “mi hanno parlato di voi. Siete un angelo, no?”.
La piccola era entusiasta di questa intelligente conclusione. Era molto fiera di se stessa. Ma la sua vocina si faceva sempre più fioca.
“Siete venuto da parte di Dio per portarmi in Paradiso. Andrò in Paradiso, vero?” si preoccupò immediatamente, “spero di sì. Credo di essere stata abbastanza buona. A parte quando i miei fratelli mi facevano arrabbiare, ma ho sempre chiesto scusa. Però… non avete le ali. Ma forse, non tutti gli angeli devono per forza avere le ali. Allora? È vero? Siete un angelo?”.

Silenzio.

Il sangue dal petto della bambina scendeva sulle dita di Javert.

“Sì. Per questo sono qui.”
“Per portarmi in Paradiso?”
“Sì.”
“Anche mamma e papà sono in Paradiso?”
“Sì.”
“E i miei fratelli e sorelle?”
“Anche.”
“Oh! Che bello! E quando ci andrò? Manca molto?”
“No. Presto.”
“Bene! Sento ancora più freddo… Dio è buono, mi fa andare in Paradiso anche se non sono stata sempre buonissima… a voi posso dirlo, signor angelo. Sono tanto contenta che ci faccia andare in Paradiso tutti insieme! Menomale… ero un po’ spaventata prima, con i botti e tutto quanto… e poi non c’era più nessuno… ma menomale, davvero, che siete arrivato… menomale… la ringrazio, signor angelo.”
 
Fiat mortis.
   
 
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