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Autore: Mirokia    05/04/2016    1 recensioni
Lo vidi correre dietro il pallone nella direzione opposta. Diego bestemmiò ancora e gli urlò di fermarsi e Michele pensò che stesse impazzendo. Forse era così. Ma ero così cieco, così impotente, e fui l'unico a non urlargli di fermarsi. Pensai anche di correre con lui e farmi passare la palla, ma in fondo lo sapevo che voleva correre da solo.
[Storia di un "io" che si perde in un così chiamato "amore"]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 6



 

 


 

 

Quando la mattina dopo io e Loris ci scambiammo i panni per l’ultima volta, ero totalmente assente, lo sguardo vacuo che non vedeva altro che flash della sera prima, come fosse stato il sogno che quella notte non avevo fatto.
«Antonio è assurdo… ieri sera siamo finiti a parlare di letteratura e cinema! Non mi hai mai detto che fosse tanto acculturato!»
Loris stava dicendo qualcosa del genere e la sua voce arrivava ovattata alle mie orecchie, quasi anche lui facesse parte di un sogno da cui non sapevo se mi sarei svegliato o meno.
«Mi stai ascoltando?»
Non gli risposi e mi tolsi i pantaloni con movimenti lenti ed estenuanti.
«A quanto pare no» si diede la risposta da solo, poi sorrise tra sé e mi trascinò dal polso sino ai lavandini, ordinandomi poi di sciacquarmi la faccia. «Vi siete baciati?» chiese mentre mi lavavo lanciando acqua un po’ ovunque.
«Mh… Sì…» dissi senza mezzi termini, nella beatitudine più totale. Lui mi indirizzò una potente pacca sulla schiena.
«Lo sapevo che ricambiava!»
«Sì, ma fa’ piano».
«Capisco la gioia, ma è ora che ti svegli, bello mio. Le partite non si vincono da sole. Lo sai che non siamo venuti qui per coronare il tuo sogno d’amore, no?» un’altra pacca sulle spalle e Loris uscì dal bagno lasciandomi solo col mio fiatone, probabilmente dovuto ai pensieri ancora legati alla sera prima. Asciugai l’acqua che gocciolava dal mento col polso e poi mi diedi uno schiaffo abbastanza forte da farmi riprendere. Non potevo lasciare che un bacio pilotasse tutta la mia vita. Ma non era stato un bacio, quello, era stato un viaggio negli abissi più profondi e nei cieli più alti, su deserti sconfinati e nell’oceano infinito. Non era normale, tutto quello. Non ero normale io, non era normale lui.
Provai a mettermi con la testa sul gioco di quel pomeriggio mentre Claudio, saggiamente, si comportava come sempre. O almeno, così tentava di far credere.
Durante la colazione del quinto giorno, Ludovico sembrava non sentirsi particolarmente bene: aveva il capo riverso sul tavolo in legno, un biscotto che gli scivolava dalle dita e un rivolo di saliva che colava lungo il mento. Le labbra tremavano impercettibilmente e gli occhi erano aperti e fissi davanti a sé, alla stregua di un cadavere. Marco andò a scuoterlo per le spalle, guardandosi intorno nel caso arrivasse il mister e trovasse uno dei suoi giocatori in quelle condizioni.
«Che diavolo ha?» fece Loris, che probabilmente la sera prima era crollato nel letto ben prima di tutti gli altri.
«Io gliel’ho detto di non tirare tutta quella roba!» Nathan mise subito le mani avanti, ché tanto non era mai colpa sua, e Marco gli rivolse uno sguardo decisamente preoccupato.
«Non hai ancora capito che non devi dargli più niente?»
«Fatelo riposare, dovrebbe riprendersi a momenti» ribatté Nathan, a quanto pare sicuro di quello che diceva. Ma si sentiva dal tono di voce che sotto sotto se la stava facendo addosso.
«Abbiamo una partita questo pomeriggio!» intervenne Diego, la fascia da capitano già ben stretta al braccio.
«Reputi più importante una partita della salute di un tuo compagno?» domandò retoricamente Loris, preoccupato e mortificato tanto quanto Marco.
«Sinceramente? Sì» fece l’altro senza pudore, e buttò giù il caffè amaro. «Non è un problema mio se al coglione piace farsi di coca!»
«Ma non hai capito che ne è dipendente?»
«Aveva solo da andare a disintossicarsi da qualche parte senza rompere le palle a noi». Espressione immutata, tono di voce neutro e cuore di pietra, Diego continuò la sua colazione come se tutta quella situazione non lo tangesse. Aveva la testa sulla partita, solo su quella. «Abu, ovviamente giochi tu al posto suo. Fino alla fine del campionato».
Nicola, cugino di secondo grado di Ludovico, si alzò strisciando la sedia, pronto a suonarle nuovamente a colui che aveva ancora il coraggio di farsi chiamare capitano, ma quello gli indirizzò uno sguardo pungente e moderatamente convincente.
«Non ci provare, che questa volta la faccia te la spacco sul serio» si limitò a dire, e Nicola allargò le narici e si morse le labbra, ma un Simone che scuoteva la testa e lo guardava implorante lo convinse a desistere.
«Non è morto, vero?» domandò Sandro, che sembrava essersi svegliato solo in quel momento. Toccò il collo di Ludovico, ma il cuore era ancora lì che batteva, certo, a un ritmo impressionante, ma il battito c’era, e fece tirare un sospiro di sollievo a tutti.
«Nico, Loris, aiutatemi a portarlo in camera». Marco fece un cenno ai due chiamati all’appello e tutti e tre sollevarono Ludovico che sì, si reggeva in piedi e muoveva testa e braccia, ma non sembrava capire quello che stava succedendo attorno a lui. Mi alzai anche io e andai ad aprire la porta della camerata.
«Chiedo alla proprietaria e a sua figlia se possono stargli accanto quando non ci siamo. A mio padre diremo che ha avuto un altro attacco di diarrea, come la scorsa volta. Spero se la beva» dissi, pur di rendermi in qualche modo utile.
«Secondo me non la beve» Nathan espresse il suo parere, ma a quanto pareva a nessuno importava.
«Non ti permettere a tirare fuori altra roba in questi ultimi tre giorni» lo avvertì Loris, ma quello alzò le spalle.
«Quale roba? Si è finito tutto lui. Non ho più nulla» ed era tanto rammaricato da sembrare sincero. Claudio era rimasto a guardare il tutto con occhi sbarrati e respiro corto.


Era completamente assente in campo, quella mattina. Sembrava essersi alzato di buona lena, ma adesso puntava il suo sguardo apprensivo da una parte all’altra del campo, quasi stesse seguendo una palla invisibile. Aveva fatto bestemmiare Diego almeno cinque volte.
«Sembrava morto…» mi disse una volta negli spogliatoi. Si tolse i vestiti tanto lentamente che sembrava fossero ricoperti di aculei e gli stessero graffiando la pelle ad ogni centimetro.
«Ti sei spaventato?» chiesi mentre entrava in doccia e apriva l’acqua. Vederlo nudo mi faceva molto meno effetto adesso: era come guardarmi allo specchio. Non sentivo l’impulso di distogliere o, al contrario, di fissare lo sguardo in punti particolari del suo corpo svestito. Non ne avrei mai dovuto avere ragione, date le costole che si intravedevano e le scapole che spuntavano aguzze. Mi chiesi se non fossi io quello drogato.
«Mi ha fatto impressione…» mi diede le spalle e si infilò sotto l’acqua per poi stare lì sotto immobile, i pensieri che vagavano chissà dove. Sembrava che la visione del suo amico riverso sul tavolo l’avesse scosso nel profondo. Ma quanto profondo? Più del dovuto, realizzai. Restai a guardarlo con una spalla appoggiata al muretto e le braccia incrociate, non sapendo cos’altro dire.
«Muovetevi a lavarvi, merde umane, qui abbiamo tutti finito!» ci urlò Diego, poi se ne andò sbattendo il borsone contro la porta. Allora mi tolsi anche io i vestiti, ma più in fretta, e li appallottolai per poi lanciarli sulla panchina. Non avrei fatto carriera neanche nel basket, visto che planarono per terra.
«Da fuori sembri forte, ma non lo sei poi molto, vero?» dissi allora, senza scherno nella mia voce. Una semplice constatazione. Lui si passò una mano tra i capelli e scosse la testa.
«In realtà ci sono alcune cose che mi fanno particolarmente paura» si sciacquò la faccia e di nuovo passò a guardare il pavimento. Seguii la linea del suo collo giù sulla spina dorsale in bella vista fino al sedere, e la mia vista si offuscò un’altra volta, come se stessi nuovamente perdendo il controllo di me stesso ed entrando in una bolla in cui esistevamo solo io e lui.
«Vorrei che quando sei con me tu non avessi paura di niente» mi uscì dalle labbra, naturale e liscio come l’olio, come una frase imparata a memoria da una soap opera, senza modificare di un centimetro la posizione in cui ero. Un brivido interno mi percorse le membra quando Claudio finalmente si voltò a guardarmi, gli occhi commossi, le gocce d’acqua che s’appendevano alle ciglia lunghe e alle ciocche di capelli. Uscì dal getto d’acqua e venne ad abbracciarmi: ogni parte del suo corpo venne a contatto col mio, che si bagnò e fu come essere marchiato a fuoco. Un fuoco che non sembrava volersi spegnere così in fretta. Mi trascinò con lui sotto la doccia e stemmo lì in quella posizione per lunghissimi minuti, ad abbracciarci e a lasciare che l’acqua lavasse via ogni pensiero negativo. Claudio si incastrava a me esattamente come un ingranaggio nel suo macchinario, e con quel contatto il mondo sembrava fermarsi e ripartire a velocità allucinante nello stesso momento. Era tutto così silenzioso, eppure il cuore mi batteva nelle orecchie assordandomi.
«Funziona. Non ho più paura» disse quindi contro il mio petto, e potei giurare di sentirlo sorridere. Non potevo vederlo, ma lo sentivo. Il suo intero essere stava sorridendo e un’altra volta si stava fondendo col mio. Ma stringendolo più forte avvertii sotto i polpastrelli un formicolio che mi dava la sensazione di volermi guidare più giù, all’interno, oltre la pelle di spalle e schiena. Lì nel profondo c’era qualcosa che m’attirava e spaventava allo stesso tempo, come un vortice scuro pronto ad ingoiarmi con la promessa di portarmi in un posto più luminoso. Ad un tratto mi separai da lui, spaventato da quell’oscurità che sembrava adesso attanagliarmi gli organi interni, come un tumore appena nato.




Quando Loris disse a mio padre che Ludovico probabilmente si era beccato un’influenza intestinale, quello non fece la faccia di uno che se la beve. Disse che voleva vederci più chiaramente, che voleva indagare approfonditamente su quello che stava davvero succedendo in squadra. Disse che non ce la faceva più a tenere insieme degli elementi incompatibili come noi, sia nella vita privata che in campo.
La partita di quel pomeriggio, infatti, la vincemmo per un soffio, ai rigori. Molto probabilmente perché la squadra avversaria aveva addirittura più problemi di noi, o perché il loro portiere era due spanne più in basso di Loris. I nostri, a parte Diego, Abu e Michele, erano tutti distratti: chi perché preoccupato per le condizioni di Ludovico, chi per la rabbia che l’accecava, chi per un amore non corrisposto, chi perché aveva semplicemente la testa tra le nuvole. Si dà il caso che io appartenessi a quest’ultimo sottogruppo.
Mio padre ce la fece passare liscia perché avevamo vinto, ma ci giurò che se ci fossimo comportati nuovamente in quel modo, ci avrebbe fatto vedere i sorci verdi.
«Vi giuro che vi faccio squalificare per doping» fu l’ultima frase che disse prima di andarsene dagli spogliatoi sbattendo la porta. Calò il silenzio nella stanza, ed era una fortuna che i giocatori della squadra avversaria se ne fossero già andati tutti.
«…Lo sa» mormorò Nathan, più a se stesso che ai compagni.
«Lo sa?» gli fece il verso Diego. «Certo che lo sa! Hai un minimo di cervello o ti sei fumato anche quello?» ruggì, livido in volto, il sudore che gli lasciava strisce marroni sulle guance. Allargò le narici, digrignò i denti e poi mollò un calcio alla prima panchina che si trovò davanti, facendo prendere un colpo a Simone, che ci era seduto sopra. «Adesso rischio la squalifica per un paio di tossici!» mollò un calcio anche alle scarpe coi tacchetti, che poi raccolse insieme al borsone e, borbottando ancora in prima persona, se ne andò senza neanche finire di cambiarsi, probabilmente per evitare di dare inizio a una zuffa che difficilmente avrebbe avuto una fine.

Nessuno osò rivolgere la parola a Diego quella sera, ma quando qualcuno sollevò la proposta di andare a fare un’altra capatina all’albergo delle pallavoliste, fu il primo ad infilarsi le scarpe e ad appostarsi fuori dalla porta. Ludovico ci aveva fatto tirare un sospiro di sollievo quando ci aveva salutato distratto, disteso su un letto che non era neanche il suo, gli occhi sul Nintendo di Marco, in bocca una gomma.
«Ludo!» aveva urlato Marco, e l’altro s’era quasi soffocato con la gomma.
«Non sto giocando a Kingdom Hearts, lo giuro, stavo calcolando l’età del mio cervello!» si era giustificato interrompendo immediatamente qualunque cosa stesse facendo.
«Ne ha quattro di anni, il tuo cervello!» aveva esclamato Marco, per niente arrabbiato, ma con addosso un sorriso che partiva da un orecchio e finiva sull’altro. Poi era saltato sul letto su cui era disteso l’amico e l’aveva abbracciato così forte da impedirgli di dire una parola di più. Non vedevo un abbraccio così spontaneo da tempo.
«Ehi, piccioncini» aveva commentato Claudio, e Marco si era sollevato sbuffando.
«Certo che pensi sempre e solo a quello, tu».
«Sto solo ricambiando il favore».
«Zitto, ciuccia piselli» era intervenuto Ludovico e, dopo aver appallottolato la gomma in un fazzoletto, l’aveva lanciata a Claudio colpendolo dritto in fronte. Era quindi scoppiato a ridere, e l’altro l’aveva seguito a ruota, non riuscendo più a trattenersi.
«Avresti avuto una carriera migliore nelle freccette, molto probabilmente» si era permesso Loris, ma quegli altri l’avevano completamente ignorato e adesso Ludovico e Claudio scherzavano come vecchi compagni di scuola.
«Non credere che questa confidenza che ti do ti farà arrivare al mio pisello» Lo aveva avvertito Ludovico, e Claudio aveva assunto un’espressione da “Ma non dirlo neanche per scherzo!”
«Giuro che la prossima volta che hai la diarrea ti faccio sparire la carta igienica».
E gli animi si erano alleggeriti grazie a qualche altra battuta e risata. E anche grazie al fatto che Diego era troppo impegnato a pensare alle pallavoliste per fare caso a noi.
Mio padre ci fece un’altra delle sue raccomandazioni che non finiscono più, visto com’era finita la volta scorsa, ma sembrava che non a tutti andasse a genio l’idea di tornare in quel posto: Nicola disse di non volerci più mettere piede e tornò in camerata ancor prima che il mister finisse di parlare; Sandro ci pensò più volte, ma poi decise di stare anche lui in casa a fare compagnia all’amico, così come anche Simone. Dopo il discorso del mister, mi voltai verso Claudio e lo vidi stringersi nelle spalle a braccia conserte e addosso un broncio non indifferente. Inoltre gli occhi erano lucidi e venati di rosso e fissi davanti a sé.
«Io non ho intenzione di andarci» mi disse secco, l’espressione capricciosa tipica dei bambini. Ludovico si mise a capo del gruppo come sempre (e come se non fosse stato affatto male) e invitò tutti ad andare all’attacco.
«A me è venuto un mal di pancia assurdo. Se mi passa vi raggiungo».
Le parole rotolarono sulla mia lingua e poi fuori dalle labbra da sé, e non feci assolutamente nulla per fermarle.
«Se è diarrea, rido io, stavolta!» fece Ludovico, credendomi immediatamente sulla parola. Era così semplice, spontaneo e genuino che non credevo potesse essere il più grande tra di noi. Fu Diego, invece, a guardarmi come se avessi appena rifiutato un assegno da un milione di euro, mentre Michele rise sotto i baffi come se già sapesse tutto quanto. O magari fingeva, di sapere tutto quanto, perché lui era quello onnisciente. Infine fu Antonio a rivolgermi uno sguardo, del tutto diverso da quello che usava per minacciare chiunque senza aprire bocca. Pensai che avesse gli occhi lucidi, ma sperai che fosse un effetto della luce del lampione lì sulla strada vicina. Loris se ne accorse e andò ad avvolgere, con grande fatica a causa della differenza di altezze, il braccio attorno alle spalle di Antonio per poi portarselo via, e pensai che avrei dovuto ringraziarlo.
Nicola, Simone e Sandro erano entrati da un pezzo in camerata, e lì in giardino rimanemmo io e Claudio, lui ancora con le braccia conserte, io che rilassavo la faccia contratta per finta dal dolore intestinale. Quando mi voltai verso di lui, quello era ancora con lo sguardo fisso davanti a sé, quasi avesse visto un fantasma, quasi non si fosse accorto che io ero rimasto lì con lui. Ma,
«Perché sei rimasto anche tu? » mi chiese all’improvviso, occhi da spiritato che non volevano staccarsi dal punto indefinito davanti a sé. «Cos’è, ti faccio pena?»
«No… Volevo solo…»
«Ti faccio pena?!» urlò senza lasciarmi finire di parlare, e fu tanto repentino da farmi saltare il cuore in gola. Che stava succedendo? Perché Claudio mi stava guardando con le lacrime agli occhi e le mani che nonostante fossero già chiuse a pugno continuavano a stringere fino a probabilmente conficcare le unghie nella carne? Ma un pensiero andò anche a mio padre e agli altri in camerata, perché se avesse urlato ancora li avrebbe praticamente chiamati in soccorso.
«Shh! Perché stai urlando? Che succede?» gli domandai, pronto a coprirgli la bocca con la mano se fosse stato necessario. Ma lui vide la mano allungarsi verso il suo volto e si allontanò con un’espressione facciale sinceramente terrorizzata.
«Che stai facendo?» urlò ancora, e sembrò davvero che un depravato lo stesse aggredendo.
«Claudio, che cazzo succede? Spiegami!»
«Devi andartene, capito? Voglio stare solo!»
E detto questo con tono tra il minaccioso e il terrorizzato, si girò nella direzione in cui aveva già indietreggiato e prese a scappare nel boschetto alla fine della stradina in pietra. Rimasi imbambolato nella posizione di uno che sta cercando di fermare qualcun altro, la bocca spalancata e le sopracciglia aggrottate. Tanta era la sorpresa che nessun tipo di suono osò abbandonare la mia gola.
Cosa era appena successo?









***

   
 
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