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Autore: quirke    06/04/2016    0 recensioni
"E mi guardi di soppiatto, i capelli umidi di pianti nascosti, le scosse interne, i terremoti forti e silenziosi. Il tuo petto che vibra, le labbra che traballano e le mani che tremano.
Ma gli occhi fermi, mai a lasciarti scoprire di sfuggita, o le parole mai dette se non soffocate. Il corpo immobile, il passo veloce. La voce cristallina e i sorrisi forzati, la fronte imperlata e il cuore che balla, traballa ma non é mai contento."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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mi dispiace se sembra confusa, ma é la mia testa
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Via col vento

4
 

“Ti proteggierò dalle notti insonni
dalla sociopatia di tutti questi giorni
ti spiegherò i sentimenti
che ripiegherò nella stanza con te

 

Verso la fine di giugno si era completamente lasciata andare a lui, solo a lui però.
Come sempre aveva rifiutato ogni offerta da parte dei ragazzi. Hugo era ancora in coma ed i medici, le avevano detto, non erano poi così convinti di riuscire a salvarlo.
Si fidava di Nawar e quindi la droga non c’entrava proprio nulla, era il mondo là fuori ad essere crudele. A manipolare i giovani intrappolandoli in veicoli ciechi, lanciare contro di loro pregiudizi fino ad abbatterli e scioglierli come neve bruciata.
Quando erano rimasti da soli in piscina, il cielo delle sette e mezzo di sera si era fatto rossastro e caldo. Gli alberi fuori dalla vetrata riscaldavano i loro corpi, le nuvole chiare erano rare ed il cinguettio degli uccelli accompagnava i movimenti dell’acqua della vasca. Le luci fioche dell’edificio venivano abbattute dai raggi naturali, portando la struttura a risplendere di colori infuocati ed un po’ soffusi.
“Voglio provarci” Johanna era seria.
Qualcosa dentro la supplicava di provare, di non vivere preoccupandosi già di un domani disonesto.
Nawar non aveva obbiettato o chiesto spiegazioni, con delle veloci bracciate era arrivato al bordo piscina, aveva fatto leva sulle braccia graffiate ed era uscito. Dalla borsa aveva estratto il materiale e, vedendola impalata nell’acqua, le aveva fatto cenno con la testa di raggiungerlo.
Voglio provare ad entrarti dentro le vene. 
Quel voglio provarci era così vago ed aperto a tutte le interpretazioni possibili. Lei voleva provare a rischiare, a cambiare, ad essere più uguale a lui. Voleva provare ad avvicinarsi a Nawar, ed avrebbe provato tutto per riuscirci.
Quando sei così attratta da qualcuno, il tuo corpo passa in secondo piano, tu diventi una comparsa. 
“Finalmente” le sorrise quando si sedette di fianco a lui.
Le preparò una leggera dose con le labbra umide e l’acqua che gli rigava il corpo. Johanna strinse i denti, chiuse gli occhi e casualmente si fece più vicina a lui.
La sua gamba contro la sua, le braccia, la vita e Nawar, comunque, sembrò non accorgersene. Inginocchiato davanti alla sua borsa, ricoprendola e offuscando ogni sua azione.
Ci sono se ti perdi e c’è il buio, chiudi gli occhi, allunga una mano e ti stringo io. lo capisci quello che sono? Lo capisci che se ti volti indietro mi ci trovi, comunque, qualsiasi cosa accada, ma levigata? 

“Costringi chiunque a seguirti. Non va bene”
Johanna era sdraiata a terra, nelle piastrelle umide e fredde del piccolo parco all'esterno nonostante il caldo d’inizio estate. Gli occhi le bruciavano e la testa le girava. Scoppiò a ridere, trattenendosi il ventre a fatica.
Non si preoccupò di nulla. Spostò una mano e la batté a terra, di fianco a lei, invitando Nawar ad affiancarla.
Lui si alzò lentamente, traballò e si buttò prono. Un braccio, accidentalmente finì sul ventre di Johanna, ma non lo rimosse.
Era caldo. Nawar era caldo, delle stessa temperatura dell’acqua della doccia, delle guance di Johanna.
“E che ci posso fare io?” esclamò Nawar squillante.
Johanna non rispose, chiuse gli occhi e si rilassò. I brividi lungo la schiena li legò, con quel briciolo di coscienza che ancora possedeva, al marmo freddo che le colpiva direttamente la pelle nuda. 
Il braccio di Nawar le premette la pancia, lo sentì sollevarsi e prima che potesse chiedergli di rimanere, lui si era già inserito nei suoi bisogni.
Le labbra dapprima si sfiorarono, poi si strofinarono con cautela e riserbo. Nawar strinse la presa intorno al suo ventre e si avvicinò a lei. Arwa gli circondò il collo con le mani fredde, incurvò la schiena per sfuggire al marmo e cedere al calore che Nawar finalmente le riservava. Schiuse la bocca e Nawar si allontanò.
“Scusa" Nawar si rialzò vacillante, poi zoppicò fino ad una panchina lì vicino, “No” aggiunse soffusamente. 
Trascorsero una buona mezz’ora fermi nei propri spazi, sempre così troppo stretti. Johanna rimase sdraiata a terra ad ammirare il fogliame, forse a pensare ed a capire quale decisione prendere.
Nawar era seduto. Poggiava la schiena contro il muro ed aveva intrecciato le dita. Gli occhi erano attratti dalla rampa opposta, le labbra se le inumidiva continuamente per poi asciugarle con il dorso della mano. 
Magari qui sono di troppo, o troppo poco?
“Non fa niente, ci vediamo domani!” 
Johanna si rialzò esuberante e sorridendo. Lo salutò con un ampio sorriso e galoppò velocemente verso la sua borsa, l’afferrò e si diresse verso la porta.
Ma chi sta bene, le porte, non le chiude con così tanta veemenza, no?

A luglio quell’errore era stato dimenticato da entrambi, o così pareva. Johanna non aveva provato a fare più niente e durante i raduni sembrava più spensierata.
Hugo era morto ed Omar, terribilmente affezionato a lui, si era spento un po’.
Il rapporto tra lei e Nawar si era consolidato, non come avrebbe voluto lei ma si erano avvicinato così tanto da uscire di pomeriggio, una volta ogni tanto, a bere un caffè insieme. Un caffè spesso, e segretamente, condito con della polvere bianca che non era esattamente zucchero.
Nawar, quella sera, aveva esagerato con la roba e faceva terribilmente caldo, quindi si era tolto la maglietta e Johanna aveva sentito qualcosa, poi le mani cominciarono a pizzicarle.
E quando hai amato per davvero, con tutto il cuore, allora lo senti quel non so cosa, lo percepisci come vento tra i capelli, come le note stropicciate nelle tasche dei tuoi jeans preferiti, com’eravate voi non l’era nessuno. Lo senti, vero?
Cambiamo vita.
Johanna, in preda ad un attacco di euforia aveva chiesto di aggregarsi ad i suoi amici. Nel gruppo c’erano Adriana, che insieme a Thiago riuscivano sempre a saziare i bisogni di tutti. Noah ed Emily erano le peggiori hipster in tutta la città.
 Johanna aveva scambiato, sì e no, due parole con loro. Anche Nawar non riusciva a sopportarle. 
Omar e Nathan erano i più vivaci ed alzavano il morale a tutti, ma l’ultimo era così maleducato e testardo da aver litigato almeno una volta con tutti i ragazzi. Johanna si era tenuta piuttosto lontana.
Noah aveva ridacchiato sommessamente, come a prenderla in giro. Ricevette un’occhiataccia da parte di Omar, che le sorrise e le porse una canna già accesa, ma ancora nuova.
Johanna rivolse un’occhiata veloce a Derek, che la stava già osservando e si inumidiva continuamente le labbra.

“Prendiamo il Bulli di Thiago”
“Sì cazzo! E ce ne andiamo da questa merda di città”
L’aria che si respirava negli spogliatoi era nauseante e pesante, numerose cartine erano confusamente buttate a terra e Thiago si accese l’ennesima canna.
“A Berlino cazzo!”
“A Madrid, è meglio là. E’ così elegante, e gli spagnoli attizzano”
“Magari è solo per i matrimoni gay legalizzati, frocietto!”
Tutti scoppiarono a ridere e Johanna si unì, trovandosi completamente a suo agio.
“Cazzo, ce ne andiamo adesso. Chi non ha le palle che rimanga qua a marcire. Vaffanculo tutto!”
Tutti erano accalcati nel furgoncino, dove Thiago guidava da schifo e faticava a lasciare aperti gli occhi per più di due minuti consecutivi.
Le ragazze, dietro, cantavano a squarciagola totalmente eccitate e fatte. Omar dava le indicazioni stradali a Thiago, sempre sbagliate. Nathan, appollaiato tra le ragazze, cercava di trarre beneficio da top così scollati.
Nei tre sedili dietro il guidatore, Nawar e Johanna si erano sconnessi da tutti gli altri, come se in tutta quella marea di gente ci fossero solo loro. Si rivolgevano occhiate che l’altro faticava ad afferrare, le mani strette non sapevano come muoversi, la schiena ritta era contro il sedile e c’erano dieci centimetri di distanza tra i loro corpi. 
Dopo una brusca curva, Nawar sfiorò la sua gamba coperta da un paio di calze, dove una gonna scozzese a vita alta arrivava a metà cosce.
Stanchi dell’attesa, Nawar allungò una mano verso il suo ginocchio e la aprì, con il palmo della mano graffiato a rimuginare sugli spigoli aguzzi di Johanna. Nawar aprì la mano, estendendo il suo desiderio e il suo dominio.
Lei non se lo fece ripetere due volte e ci incastrò le sue dita scheletriche, trovandoci finalmente tutta l’aria che quella lunga apnea le aveva sottratto. Si girò verso di lui e gli occhi rossi e lucidi la colpirono profondamente. Distese l’altra mano e gli accarezzò la guancia ispida.
Era un settembre piuttosto caldo. Il buio avvolgeva le strade francesi e la superstrada che da poco avevano imboccato. La brezza entrava delicatamente dai finestrini posteriori abbassati e le ruote sfregavano l’asfalto rapide e consumate. Le ragazze si erano alzate in una sonora risata e Thiago era finalmente riuscito a baciare Noah.
Nawar e Johanna strinsero la presa e si lasciarono andare, i polmoni raggrinziti si congiunsero ed i loro corpi deboli si lasciarono inebriare dal dolore provocato dalle esagerate quantità. Ma erano lì, insieme.

Si accostarono in una stazione di servizio tra tante, e Nawar fu il primo a balzare giù dal furgoncino.
“Nessuno mi prenderà cazzo, nessuno!”
Quando le luci le erano sempre piaciute, quando avrebbe preferito riuscire ad aprire gli occhi sotto l’acqua solo per vederlo trattenere a stento una rumorosa risata per la sua espressione, non li so aprire gli occhi, quando avrebbe voluto solo fermare il tempo ed averne il più possibile per rimettere a posto le cose, allora era già troppo tardi.
Tu te ne stai lì, da bravo egoista ti leggi il tuo giornale, ordini un caffè non dando la possibilità ad un altro organismo di scrivere il suo primo amore e nel mentre hai già messo un piede nell’asfalto ed ucciso un altro organismo, ma non te ne importa, vai avanti, c’è solo il tuo diario. E’ solo un po’ orribile.
Johanna lo sapeva, io lo so, e magari anche tutti voi, che si stava impegnando arduamente per dare un bel finale al suo diario, per annotarsi i brividi dei suoi baci e non dimenticarli più. Ma i ricordi sono niente, non servono proprio ad un cazzo se non c’è lì accanto a lei Nawar, se tu non ci sei. Tutti lo sappiamo.
Aveva chiuso gli occhi, Johanna. 
Nawar li spalancava, erano rossi, i rami che sporgevano oltre il guard rail tremavano contro la luce ed il ronzio fievole dei lampioni. Rossi e vivaci, i suoi occhi, lanciarono un accumulo di scuse a Johanna che sembrarono così vuote. 
Cenere nel fuoco, occhi che si spegnevano e la cassa toracica che si accendeva ad un nuova emozione che Johanna non era capace di trattenere. Allora urlò.
Urlò così forte che le costole le si piegarono, il diaframma si bloccò improvvisamente replicandole la vita di Nawar che si piegava verso l’esterno, formando l’angolo più tagliente che avesse mai visto. Le si lanciò addosso, la graffiò.
E si ripeté ancora quella scena, sempre più lentamente, dimostrandole quando impotente, effettivamente, fosse lei.
Stiamo sulle ferrovie, i menti poggiati su quelle mani che bruciano, bruciano, e questi treni veloci come razzi, mi stai attraversando con le tue manie, le tue ambizioni, i miei muri crollati già da un pezzo, e mi trapassi, non mi sorpassi, e le illusioni che ti ho disegnato nei polsi piccoli passano.
Testardo. Nawar era una grandissima testa di cazzo ma le sue braccia sarebbero dovute essere più grandi per proteggerlo da tutto.
La bocca di Nawar si strinse, i fari posteriori della macchina che lo aveva appena sorpassato con tutti i suoi problemi gli illuminò il viso di un rosso povero ed ingiusto. Le sue mani grandi, e le solite birre comprate a poche monete, che gli si incastravano  erano inerte ed aperte, con ogni sofferenza che se ne volava via con la leggera brezza gelida.
Quando Johanna chiudeva gli occhi, allora sentiva il sapore del cloro impossessarsi della sua pelle come quelle labbra fini. Invece, se li riapriva, galleggiavano, in quei respiri trattenuti e tesi, solo ricordi e rimorsi che s’alleggerivano di giorno in giorno.
Le rose erano rosse ed il cuore di chi stava male giaceva inerte e silenzioso sopra il suo petto, era la peggior morale a cui avesse mai assistito.
Non era questione di esistere o di andare avanti ma di sopravvivere ai ricordi marci.
Johanna strinse le mani a pugno e serrò gli occhi, lasciando galleggiare quei ricordi che fungevano da pagine girate e dimenticate.
I funerali servivano solo a dimostrare quanto in realtà fossimo soli, come la solitudine che di giorno in giorno, ci sta abbracciando tutti. 
Se ne andranno tutti lasciandoci con sconforti e continui disagi che ci pressano il petto, che ci piegano ed i pezzi mancati delle nostre esistenze si disperdono con tutte le nostre sicurezze, mai avute e comunque deboli.
C’è chi stava male, ma noi stiamo sempre peggio.
Tre settimane in ospedale dopo, Johanna era ancora rannicchiata su uno sgabello scavalcando ogni barriera, approfondendo la frustrazione e il dolore, scavando la mano di Nawar inerme con i suoi pensieri.
Avrebbe voluto rimpiazzarlo.

 

 

 

 

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smoke, grunge, and cigarette image
 
  
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