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Autore: Hotaru_Tomoe    08/04/2016    3 recensioni
Sebastian Moran, deciso a vendicare la morte di Moriarty, entra in possesso di un dispositivo sperimentale che permette di entrare nei sogni altrui ed è deciso ad usarlo su Sherlock per distruggerlo, ma Arthur ed Eames cercheranno di impedirglielo.
[Crossover con il film Inception]
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro, personaggio, John, Watson, Mary, Morstan, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 10

John aprì gli occhi su Harcourt Street.
Perfetto, non era lontano da Baker Street, poteva essere lì in una decina di minuti; si guardò attorno con circospezione, studiando le reazioni delle poche proiezioni di Sherlock che gli passavano accanto: fortunatamente per ora lo stavano ignorando; aveva materializzato una pistola, nascosta nei pantaloni, ma sperava ardentemente di non doverla usare subito, o raggiungere Baker Street sarebbe stata un’impresa titanica.
Mise le mani in tasca, abbassò la testa nel tentativo di passare inosservato e, nel farlo, notò una piccola crepa nell’asfalto. Si inginocchiò, sfiorandola con le dita, e d’improvviso ebbe paura perché Sherlock aveva sempre tenuto quel luogo onirico in perfetto ordine, anche nei primissimi sogni che facevano insieme: non c’erano rifiuti per terra, né erbacce che crescevano sui marciapiedi, né graffiti sui muri, né altri elementi di degrado, e il fatto che ora ci fossero, non era un buon segno. Lui non era un esperto di dream sharing, certo, ma quello poteva significare solo che la sua mente era al limite.
Arthur ed Eames avevano ragione: il tempo di Sherlock stava per scadere e lui doveva risvegliarlo prima che fosse troppo tardi.
Scegliendo strade laterali e poco frequentate per non attirare l’attenzione dell’inconscio di Sherlock, riuscì a raggiungere il retro del 221B senza che un vaso di fiori precipitasse da un balcone ammazzandolo e senza essere divorato da una fiera; attraverso le tende di organza verdi della finestra al piano terra, vide la signora Hudson affaccendata ai fornelli e si sentì in qualche modo tranquillizzato.
La donna era sempre stata una figura materna per Sherlock nella vita reale e forse era così anche per quel frammento della sua coscienza: se l’avesse avuta come alleata sarebbe stato più facile convincere Sherlock a tornare indietro.
Bussò, entrò in cucina e fu investito dall’appetitoso odore del brasato di manzo, così simile a quello vero che John dovette mettere mano al proiettile in tasca, per accertarsi di stare sognando davvero: era liscio e privo di striature, quindi no, non era sveglio.
“John, che piacevole sorpresa” cinguettò allegra la donna.
“Buongiorno signora Hudson, sa dov’è Sherlock?”
“So solo che è uscito, io è da stamattina che sono in cucina.”
“Non importa, lo aspetterò di sopra.”
“Se ti fermi altri dieci minuti il brasato sarà pronto e te ne darò due porzioni: fosse per voi vivreste solo di cibo d’asporto.”
“Ah, grazie.”
“Nel frattempo sii gentile e sgombera la lavastoviglie, vuoi?”
“Er… va bene.”
John preferì non irritarla e la assecondò: aprì lo sportello, prese i piatti e iniziò a sistemarli nella rastrelliera sopra al lavello.
“Signora Hudson, lei sa perché sono qui?” provò a chiedere, per tastare il terreno.
“Non è solo per il brasato?” domandò la donna alle sue spalle.
“No, e io credo che lei lo sappia - finiti di sistemare i piatti, John si chinò nella lavastoviglie e prese una padella di acciaio - Non le sarà sfuggito che sono diverso dal solito e la verità è che-”
Riflessa sul fondo della padella vide la donna balzargli addosso brandendo un grosso coltello da cucina e si scansò all’ultimo istante, ma venne ferito lo stesso sopra al rene sinistro e sibilò per il dolore; la donna caricò di nuovo e John non ebbe il tempo di estrarre la pistola, ma la colpì in volto con la padella mettendoci tutta la forza che aveva. La signora Hudson barcollò all’indietro tenendosi il viso tra le mani, ma quando le abbassò non era più la loro padrona di casa.
Era Sebastian Moran.
“Tu! Lurido bastardo…” sibilò il medico, cercando di colpirlo ancora con la padella, ma Moran lo caricò a sua volta, fendendo l’aria col coltello a poca distanza dal suo viso; John usò la padella a mo’ di scudo, ma il Colonnello gli afferrò il polso, torcendolo così forte che il medico fu costretto a lasciarla cadere e, allo stesso tempo, dovette preoccuparsi di bloccargli l’altra mano, quella che reggeva il coltello. Il Colonnello scalciò più volte, cercando di fargli perdere l’equilibrio, allora John lo centrò in pieno viso con una testata e finalmente Moran fece cadere il coltello, che scivolò lontano.
I due lottarono, colpendosi e sbattendosi a vicenda contro i ripiani ed il tavolo della cucina, dove Moran immobilizzò John per alcuni istanti, prima che l’ex soldato lo allontanasse da sé con un calcio poderoso che mandò Moran a sbattere contro il mobile alle sue spalle; l’uomo urtò con il gomito una bottiglia d’olio che si rovesciò sui fornelli ancora accesi, provocando una fiammata che lo investì in pieno. Nel frattempo John riuscì finalmente a estrarre la pistola e sparò tre colpi in rapida successione, uccidendolo, e la figura di Moran si dissolse all’istante.

“Merda, Watson mi ha fregato, è riuscito a sbattermi fuori!”
Moran sbatté con forza un pugno contro il muro, mentre Freddie cercava di calmarlo quel tanto che bastava a sfilargli il laccio emostatico.
“È un problema?”
“No, no, quello che sta facendo Watson non servirà a nulla: la mente di Holmes è troppo deteriorata, Watson non riuscirà a farlo risvegliare.”
“Vuoi che dica ad Alan di andare su in reparto a controllare come procedono le cose?”
“Sì, sì, ma è come dico: quella mezza tacca di Watson non manderà all’aria i miei piani, ormai è tardi, Holmes è già morto, praticamente.”
Freddie prese il telefono per chiamare l’altro mercenario e Moran andò alla finestra, guardando i passanti: tra questi, un uomo in particolare attirò la sua attenzione: era fermo in mezzo al marciapiede, dava le spalle al palazzo, aveva capelli neri perfettamente curati, indossava un elegante completo Westwood scuro e fumava una sigaretta, reggendola tra pollice e medio, scrollando indolente la cenere con l’indice, esattamente come faceva…
“Jim!”
Moran aprì la finestra, si affacciò, urlando forte: “Jim!”
L’uomo non si voltò, ma gettò a terra il mozzicone, schiacciandolo sotto la punta della scarpa di vernice e si allontanò.
“Aspetta!”
Moran si precipitò giù dalle scale e spalancò il portone, guardandosi intorno: non poteva essere andato troppo lontano. Infatti l’uomo era arrivato solo fino in fondo alla via e procedeva con passo tranquillo, lo avrebbe raggiunto subito.
“Jim, sono io! Ce l’ho fatta, ti ho vendicato, ho ucciso Holmes per te.”
Moran si mise a correre, ma per quanta forza imprimesse alla sua falcata, non riusciva ad agguantare l’uomo che camminava serafico lungo la strada, che si srotolava all’infinito tra alti palazzi tutti uguali.
“Jim, aspettami!”

Mycroft si risvegliò, si sfilò il dispositivo e lo soppesò tra le mani: “Apparecchiatura interessante, ma il signor Stan aveva visto giusto: è troppo pericolosa e non dovrebbe esistere - fece un cenno ad uno degli uomini che erano con loro - Distruggete tutto.”
“Sissignore.”
Lestrade radunò alcuni documenti e li porse all’assistente di Mycroft: quando il colonnello Moran si era immerso nel sogno di Sherlock, i tecnici dell’MI5 era riuscito a tracciare il segnale ed individuare il suo nascondiglio e, una volta giunti lì, Mycroft aveva usato uno di quegli strambi apparecchi per accedere alla mente di Moran prima che si svegliasse: l’ex Colonnello credeva di essersi risvegliato, ma in realtà si trovava in un altro sogno, come in un perverso gioco di scatole cinesi. Non che fosse particolarmente addolorato per lui.
“Cosa gli accadrà ora?” domandò l’ispettore.
“Moran resterà intrappolato nella sua mente e inseguirà l’ombra di Moriarty senza mai raggiungerlo finché la sua mente non crollerà. Sempre che non gli scoppi il cuore prima” disse Mycroft con noncuranza.
La stessa sorte che il Colonnello voleva riservare a Sherlock. Poco ortodosso, ma Greg non ebbe nulla da ridire: dopotutto quella non era un’indagine di polizia e in pochi minuti sarebbe stato come se loro non fossero mai stati lì.
“Non potete farlo - protestò Freddie, che era stato ammanettato e bloccato a terra - Tutto questo è illegale.”
“Voi - proseguì Mycroft rivolto ai suoi uomini, come se nemmeno l’avesse udito - cercate di rintracciare gli altri complici di questo mercenario il prima possibile: vorrei chiudere la faccenda entro sera.”
“Sarà fatto.”
“Mi ascoltate? Chi siete? Chi vi dà l’autorità per fare una cosa del genere?” Freddie fu fatto alzare e prese a scalciare invano mentre veniva trascinato via: le sue grida riecheggiarono lungo le scale e poi si spensero quando venne caricato su un anonimo furgone bianco.
“E ora?” volle sapere Greg.
Mycroft sfilò il cellulare dalla tasca e lesse l’ultimo messaggio di Anthea: “Non possiamo fare altro che riporre la nostra fiducia nel dottor Watson.”
“Va bene: torniamo in ospedale.”

Esausto, John uscì di nuovo nel cortile esterno, incurante del fuoco nell’appartamento della signora Hudson, e si esaminò la ferita: non era mortale ma di certo non era piacevole e sanguinava parecchio; ci premette sopra uno straccio recuperato dalla cucina per bloccare l’emorragia, quando udì dei passi alle sue spalle e si voltò, sperando fosse Sherlock, e invece si trovò faccia a faccia con se stesso.
Il suo doppio vacillò solo alcuni istanti, poi si ricompose e mostrò pochissima sorpresa nel vederlo, come se avesse immediatamente compreso la situazione, e prima che John potesse aprir bocca, raddrizzò le spalle, serrò la mascella e sibilò: “Vattene!”
“No, non ci penso nemmeno” rispose John con fermezza avanzando di un passo verso di lui, e la sua controfigura ne mosse uno di lato: camminarono in circolo e si studiarono, come due lupi maschi in lotta per il territorio, pronti a saltarsi alla gola al minimo cenno di ostilità. John sapeva di essere in svantaggio per via della ferita, ma aveva la pistola con sé; comunque voleva provare prima a ragionare con l’altro se stesso, che era una proiezione della mente di Sherlock, non un nemico come Moran.
“Tu sai chi sono” affermò con sicurezza.
“Sì, quindi?”
“Quindi sai anche che io sono reale e tu no.”
“Questo non ha alcuna importanza.”
“Invece ne ha molta.”
“No, perché io sono colui che rende felice Sherlock ed è tutto ciò che conta.”
John incassò il colpo e deglutì, poi scosse la testa con forza.
“Sherlock in realtà si trova in un letto d’ospedale: è in coma e sta lentamente morendo, ormai gli resta pochissimo tempo.”
Per la prima volta l’altro sembrò esitare.
“No… non è vero, non può essere. Sogno o meno, questa è la nostra realtà, noi siamo qui e siamo felici. E tu vuoi solo distruggerci.”
“Ti sbagli, e tu lo sai: questo è un incubo che sta per concludersi nel peggiore dei modi, se Sherlock non si risveglierà.”
John raccolse un giornale da terra e lo porse alla proiezione mentale di Sherlock.
“La guerra è alle porte - recitò - ma non è così: nella realtà non c’è nessuna guerra vicino al Regno Unito, è la mente di Sherlock che si sta disgregando, e questo è il motivo per cui questo mondo sta svanendo, e Sherlock con lui.”
“Ci penso io a proteggere Sherlock, da tutto e da tutti” ribatté l’altro con fierezza.
John gli rivolse un sorriso amaro: “Non dubito che queste siano le tue intenzioni: vi ho visti insieme e so che lo rendi felice, purtroppo lo stai anche facendo sprofondare sempre più verso il punto di non ritorno e io non posso permettere che accada. Infrangere la felicità di Sherlock è l’ultima cosa che vorrei fare, ma devo farlo.”
“Però è una cosa che ti riesce molto bene” sibilò l’altro.
“È questo che Sherlock pensa di me? Se è così, non posso biasimarlo - mormorò John - Nondimeno, lo salverò lo stesso, a costo di farmi odiare.”
“Lasciaci in pace, ti supplico - protestò il suo doppio - Io lo amo e lui ama me!”
A John si formò un groppo in gola e la sua voce tremò quando riuscì a parlare di nuovo: “Lo so. Sono stato uno stupido a non vedere quanto Sherlock mi ami, ma ora ho capito e sono qui per salvarlo: lui è la cosa più importante della mia vita e non lascerò che si spenga così. E se tu lo ami davvero come affermi, devi permettermi di salvarlo. Non vuoi che muoia, vero?”
L’altro chiuse gli occhi per lunghi istanti e John lo incalzò ancora: “So che dentro di te hai capito come stanno le cose, che questo mondo è solo un sogno e che lui è in pericolo: fai parte della mente di Sherlock, sei troppo intelligente per non aver compreso.”
Il suo doppio annuì appena e riaprì gli occhi: aveva preso la sua decisione.
“Va bene, ti credo. Cosa devo fare?”
“Mi dispiace: tu devi sparire, perché finché sei qui, Sherlock non mi ascolterà.”
John sollevò la pistola e gliela puntò addosso, ma la proiezione mentale non mostrò paura, né provò a scappare, e l’ex soldato si ritrovò a pensare che Sherlock gli dava molto più credito di quanto meritasse: al posto suo sarebbe stato terrorizzato.
“Ti prego - disse il suo doppio - salvalo.”
“Lo farò.”
Svuotò il caricatore contro il finto John, che cadde a terra morto, ma non si dissolse.
Un attimo più tardi un grido disperato e bestiale risuonò alle sue spalle e una violenta scossa di terremoto fece tremare terra e cielo.
“John! John!”
Sherlock arrivò di corsa, ma invece di fermarsi vicino a lui, lo spinse di lato e si buttò sulla figura stesa a terra, mentre attorno a loro si scatenò l’apocalisse: il sole, fino a quel momento caldo e brillante nel cielo, si oscurò come durante un’eclisse, la temperatura dell’aria precipitò ed il cielo da azzurro divenne bianco accecante; lontano, dalle parti di Canary Warf, gli alti grattacieli presero a collassare su se stessi l’uno dopo l’altro con boati tremendi, a partire dallo Shard e la distruzione avanzò veloce verso di loro.
“Cosa cazzo succede?” imprecò John, poi realizzò: maledizione, che idiota era stato! Eames si era raccomandato di non scioccare Sherlock per non infrangere l’equilibrio della sua mente, e invece aveva finito per traumatizzarlo nel peggiore dei modi.
La fine era imminente.

Nella stanza d’ospedale di Sherlock tutti guardavano impotenti il monitor dell’attività cerebrale del detective, che stava raggiungendo inesorabilmente il punto critico, così come quello di John.
Arthur distolse lo sguardo e scosse appena la testa. “Ormai…”
“Forse siamo ancora in tempo a somministrargli il farmaco per farlo risvegliare” suggerì Molly: era terribile restare lì e vederli morire entrambi, senza poter fare nulla.
“No” rispose la signora Hudson con voce ferma.
“Ma…”
L’anziana sorrise e prese la mano di Molly tra le sue: “So che difficile non intervenire, ma se lo facessi John non ti perdonerebbe, questo lo sai.”
“Sì” sospirò la ragazza abbassando gli occhi.
“E poi sono sicura che alla fine John ce la farà.”
Arthur scosse la testa, stringendosi nelle spalle: “Temo sia troppo tardi, signora.”
“Voi non lo conoscete - replicò lei - sarebbe capace di riportarlo indietro sano e salvo dall’inferno.”

“John! John, guardami. Ti prego...”
Sherlock aveva raccolto il corpo inerte tra le braccia, lo cullava come se fosse un bambino e i suoi occhi pieni di lacrime erano opachi e spenti; a John si strinse il cuore nel vederlo così sofferente e per un attimo esitò, poi si ricordò perché era lì e si inginocchiò davanti a lui, cercando di catturare la sua attenzione, ma invano: per Sherlock era come se lui non esistesse.
“Sherlock, non sono morto, sono qui davanti a te. Maledizione, guarda me, non lui!”
Ma il detective sembrava non aver udito le sue parole e continuava solo a ripetere: “John, John, John” con il viso sprofondato nei capelli biondi dell’altro, senza dar segno di averlo sentito.
John si sedette a terra con grande fatica per via della ferita che stava ancora sanguinando, incurante dei palazzi di Londra che crollavano al suolo sollevando dense nuvole di polvere grigiastra, incurante di quello spaventoso bianco accecante che li stringeva sempre più d’assedio. Doveva fare in modo che Sherlock si ridestasse da quel torpore a qualunque costo, solo quello contava.
“Sherlock - gli toccò delicatamente la spalla, ma Sherlock lo allontanò bruscamente, stringendo l’altro John ancora più forte - Quello non sono io: sono io il vero John, sono vivo e sono qui” disse con veemenza l’ex soldato, battendosi più volte il pugno sul petto.
“Perché - domandò con voce tremula - perché hai dovuto ucciderlo? Lui era tutta la mia vita.”
John serrò le labbra e ricacciò indietro le lacrime che minacciavano di inumidirgli gli occhi davanti a quella confessione struggente.
“Mi dispiace. Dio, mi dispiace Sherlock, in un modo o nell’altro finisco sempre per farti del male - mormorò il dottore chinando il capo sul petto - e non ti biasimo per esserti costruito un mondo perfetto con accanto qualcuno che ti merita, ma purtroppo nulla di tutto questo è reale, è solo un sogno; sei stato vittima del dream sharing per mesi e stai ancora dormendo. Lui - indicò il cadavere del suo doppio - alla fine l’aveva capito, perciò so che puoi capirlo anche tu.”
Finalmente, per la prima volta, Sherlock lo guardò in faccia, ma i suoi occhi mancavano ancora della consueta lucidità.
“Lui era tutta la mia vita” ripeté atono.
Doveva pensare a qualcosa, e alla svelta, perché il tempo stava per scadere. Doveva esserci un modo per fargli capire che lui era quello vero! John abbassò gli occhi su quel cadavere, così simile ma così diverso da lui: magro, asciutto, atletico, senza segni dell’acne sulle guance e senza borse sotto gli occhi, praticamente perfetto, e gli venne un’idea: si sbottonò la camicia e mostrò a Sherlock la cicatrice sulla spalla.
“Afghanistan: questa ferita ha messo fine alla mia carriera militare e allo stesso tempo mi ha permesso di incontrarti. Ora guarda la sua spalla.”
Siccome Sherlock non si muoveva, lo fece lui ed aprì i bottoni della camicia del John morto e la strattonò: la pelle della sua spalla era sana e liscia.
“Questo - disse John indicando il cadavere - è come mi vedi tu: perfetto, senza difetti. È lusinghiero ed è molto più di quel che merito, ma non è reale. Quello non sono io, io sono qui davanti a te, con tutti i miei casini e le mie cicatrici, ma vero.”
Catturò una mano di Sherlock tra le proprie e la strinse forte, sollevato dal fatto che almeno l’altro avesse smesso di respingerlo, mentre sbatteva le palpebre più volte, le labbra strette per la concentrazione.
D’improvviso, tutti quei piccoli dettagli fuori posto e le note stonate che aveva sbrigativamente accantonato, troppo concentrato sulla sua nuova felicità, gli tornarono in mente con forza: John che sembrava sempre leggergli nel pensiero, che era perfetto in ogni casa facesse, che minimizzava ogni suo dubbio sulla veridicità di quella realtà, Mycroft che inizialmente cercava di metterlo in guardia su qualcosa e poi scompariva nel nulla senza farsi più sentire, le strane assenze della signora Hudson, lo scorrere del tempo che sembrava troppo accelerato…
Dream sharing... tutto quel mondo, tutti quegli anni di felicità accanto a John erano dunque solo un’illusione? Non c’era nulla di vero?
A giudicare dal repentino collassare di ogni cosa attorno a loro, sembrava davvero di sì: Sherlock si aggrappò al rigore della scienza, alla logica che tante volte gli era venuta in soccorso durante i suoi casi e dovette concludere che sì, nulla di tutto ciò che stava succedendo sarebbe mai stato possibile nella realtà.
Ma allora qual era la realtà? Quando era iniziato quel lunghissimo sogno?
C’era una specie di blocco nella sua mente, ma se provava a forzarlo, una fitta di dolore gli attraversava il cranio.
Eppure doveva farlo, era vitale che lo facesse, gli suggeriva una voce spietata dentro di lui, la voce della sopravvivenza: doveva ricordare cose che aveva dimenticato.
No, non le aveva dimenticate, le aveva accantonate in un angolo buio, come se non esistessero.
Perché le aveva nascoste?
“Perché fanno male.”
Un dolore che nulla aveva di fisico prese a pulsare forte tra stomaco e cuore.
Sì, era così: le cose che si rifiutava di vedere facevano ancora più male della scoperta che quel mondo era esistito solo nella sua testa.
“Ti prego, Sherlock - insisté John accarezzandogli il dorso della mano - devi ricordare la tua realtà, che non è questa.”
“Farà male.”
“Perché farà male?”
“Perché John non vive più con te. Lui ora sta con…”
“Con…”

“Mary…” mormorò piano, sbattendo le palpebre, e i suoi occhi si fecero più lucidi e attenti.
John strinse le labbra e annuì: “Sì, è mia moglie.”
“Edith.”
“Mia figlia, è nata da poco.”
Sherlock allungò una mano e gli sfiorò con circospezione la cicatrice sulla spalla, mentre John annuiva insistentemente: “Sì, sono io, Sherlock.”
“La signora Hudson era strana, diversa, e non c’era quasi mai qui” proseguì il detective.
John fu enormemente sollevato nel vedere che la mente di Sherlock stava rapidamente mettendo a fuoco tutti i dettagli incongruenti di quella storia, perché significava che stava tornando in sé.
“Lo so, lei non era una proiezione della tua mente come tutto il resto, John incluso, era Sebastian Moran, il-”
“Il braccio destro di Moriarty: io e Mycroft credevamo fosse morto.”
“Purtroppo no, ed è stato lui a volerti intrappolato qui, per ucciderti senza apparire coinvolto.”
“Oh, è stato molto astuto a usare il dream sharing, è una tecnologia con cui ho poca familiarità.”
“Fin troppo.”
Finalmente il cadavere del suo doppio si dissolse, ma John non poté rallegrarsi, perché la rovina li aveva raggiunti e ormai del mondo dei sogni di Sherlock non restavano che poche strade e qualche palazzo, tutto il resto era stato fagocitato dal terrificante bianco che avanzava implacabile.
“Dobbiamo andarcene, Sherlock - gli disse con urgenza - devi risvegliarti con me, oppure morirai, perché sei addormentato da troppo tempo e la tua coscienza sta svanendo.”
Non c’era davvero più tempo, ma a Sherlock pareva non importare, e sottrasse la mano dalla presa di John, scavando dentro di sé alla ricerca di altri dettagli.
“Cosa c’è Sherlock?”
“Per un po’ sei stato qui davvero, però.”
“Sì, all’inizio Moran ha cercato di far cadere in coma anche me, ma mi è stato spiegato che il collegamento era instabile, e alla fine lui ha scelto solo te come bersaglio.”
Sherlock annuì: “Sì, ora ricordo ogni cosa. L’ultima volta in cui sei stato qui davvero è stato quando ho provato a baciarti, non è così?”
Ormai tutto gli era tornato alla mente: la realtà, la sua vera vita, la nuova vita di John, tutto, compresi i più dolorosi dettagli.
John si morse le labbra e gesticolò impaziente con le mani: “Sì, lo so, parleremo anche di questo, parleremo di ogni cosa quando ti sarai svegliato, ma ora dobbiamo andare, presto!”
John gli porse la mano, ma Sherlock non la prese, scuotendo appena la testa; alle loro spalle, anche l’ultimo palazzo rimasto in piedi, il 221B, collassò, e loro rimasero su una lingua di cemento sospesa nel nulla: l’ultimo frammento della coscienza di Sherlock.
“Lasciami qui e risvegliati da solo. Io voglio restare e provare a ricostruire questo posto in qualche modo” disse con voce calma e pacata.
“Sei impazzito? - urlò John - Non puoi! Non lo capisci che stai morendo? Non riuscirai a ricostruire un bel niente: se non ti risvegli adesso la tua mente cederà, e nemmeno io mi risveglierò più.”
“Per questo ti sto dicendo di andartene, ti lascio libero.”
“Non puoi farmi questo, Sherlock: hai giurato che non te ne saresti più andato, che per me ci saresti stato sempre - John agitò la mano nella sua direzione per convincerlo ad afferrarla, mentre anche i bordi di quella zolla di terra dove si trovavano presero a sfaldarsi - Hai promesso, so che te lo ricordi.”
“Ma io qui ero felice, noi due eravamo felici - sussurrò Sherlock senza guardarlo - Lui… lui mi ricambiava. Cosa c’è per me dall’altra parte del sogno?”
Non credeva di farcela: dopo aver visto e vissuto come avrebbe potuto essere la loro vita insieme, non pensava di avere dentro di sé la forza di fingere che andasse tutto bene e tornare ad essere solo il miglior amico di John, il supporto della famiglia Watson che li guardava da lontano e che li incontrava ogni tanto quando non erano troppo occupati.
No, dopo quel sogno, quella vita immaginaria così perfetta accanto a John, la realtà gli appariva insopportabile, e ancora non si era risvegliato: era certo che in breve sarebbe ricorso di nuovo alle droghe per annebbiare la mente e ovattare il dolore, fino a restare ucciso da una overdose.
Meglio lasciar andare John e finirla lì, subito, senza troppi rimpianti, invece che trascinare la sua esistenza per qualche tempo ancora: non ne vedeva il motivo; lasciarsi andare nell’oblio ora non sembrava nemmeno particolarmente doloroso, era la scelta migliore per tutti.
“Io. Ci sono io dall’altra parte - John deglutì, prese coraggio e alzò la testa di scatto, attenendo che Sherlock tornasse a guardarlo negli occhi - Io ti ricambio.”
Per un istante Sherlock fu tentato di credergli, perché gli occhi di John sembravano spaventosamente sinceri, ma poi scosse la testa: “No, tu vuoi solo che non muoia, perché il tuo istinto di dottore ti porta a voler sempre salvare vite.”
“Non è questo!”
“Oh, capisco. In questo caso ti dico che puoi andartene senza alcun senso di colpa: tu non c’entri, sono io che ho deciso di restare qui di mia spontanea volontà.”
“No, no Sherlock! Ti sto dicendo la verità, io ti ricambio.”
“Così tanto che all’idea di baciarmi ti sei talmente spaventato da esserti svegliato.”
John gli afferrò bruscamente la testa tra le mani, strattonandolo: “Ero spaventato, sì, ma dalla forza dei sentimenti che provo per te, ero spaventato perché se ti avessi baciato sapevo che non sarei stato più capace di fermarmi: quella notte volevo prenderti lì dove eravamo, tra i magazzini del porto, incurante che qualcuno potesse vederci, volevo gridare al mondo che eri mio! Ero spaventato perché in quel caso il compromesso che avevo faticosamente costruito sarebbe crollato e non sarei più stato capace di nasconderti ciò che provo e starti lontano.”
“Ma tu hai già una famiglia ed è ciò che volevi da sempre!”
“Già, bella famiglia - John piegò le labbra in una smorfia di amarezza - tu non puoi saperlo, ma ho scoperto un altro aspetto dell’edificante passato di mia moglie: è stata in combutta con Moran e con Moriarty. O meglio: ha collaborato con loro, per dirla con sue parole, come se questo rendesse la cosa meno grave - rise senza allegria, poi lo guardò con dolcezza, accarezzandogli gli zigomi con i pollici - E poi ha anche cercato di dissuadermi dal venirti a salvare, probabilmente perché aveva paura che scoprissi i suoi trascorsi. Ma comunque, fin dal primo momento in cui mi ha mentito e ha tentato di ucciderti, Mary per me è diventata un dovere, non la amo più, non è ciò che desidero davvero.”
“Credo che tu sia solo confuso” mormorò Sherlock, ma a quelle parole la stretta delle dita di John attorno al suo viso si fece quasi dolorosa.
“Confuso? Non sono confuso, non sono mai stato così certo di qualcosa in vita mia. Credi che altrimenti avrei accettato la possibilità di morire qui con te?”
“Cosa intendi dire?”
“Che non ho nessun paracadute: ho lasciato istruzioni perché non usino alcun farmaco per risvegliarmi in caso tu muoia, pertanto o ci risvegliamo tutti e due, o moriremo qui insieme, perché senza di te io non vado da nessuna parte!” esclamò quasi con ferocia.
“John…” Gli occhi di Sherlock erano pieni di stupore mentre sillabava adagio il suo nome.
“Ti prego Sherlock, ti prego - appoggiò la fronte sulla sua - non lasciarmi: risvegliati con me, torna da me, torniamo a casa! Ciò che voglio davvero è solo questo.”
Gli premette forte le labbra sulla bocca in un bacio disperato, mentre un’ultima scossa di terremoto disgregava il terreno sotto di loro.
E poi fu solo bianco.

   
 
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