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Autore: lauretta02    12/04/2016    2 recensioni
Martina, 20 anni. Jorge, 22 anni.
Lei, cieca. Lui, grande osservatore.
Lei gli insegnerà ad ascoltare. Lui le insegnerà a vedere.
E insieme impareranno ad amare.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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MARTINA'S POINT OF VIEW.

Mi rigiro nel letto per l'ennesima volta. È quasi l'alba, ma io non ho dormito quasi per niente, la mente troppo occupata per riuscire a chiudere occhio. Occupata a rivivere l'incidente di tre anni fa. Occupata a pensare ad un modo per tranquillizzare mia madre. Occupata a ripensare all'incontro non proprio fortunato con il ragazzo della metropolitana.
Scendo dal letto e cammino tranquillamente fino al bagno, stando rasente alla parete, sfiorando il muro familiare con la punta delle dita. Vivo con Mercedes da quasi due anni, ho avuto tempo di abituarmi a quella casa. Di abituarmi al parquet, ai quindici scalini ricoperti di moquette, al cassettone in salotto - al quale all'inizio andavo sempre a sbattere.
Ci si abitua a tutto, prima o poi.
Tiro un sospiro e regolo la temperatura dell'acqua della doccia, per poi buttarmi sotto il getto d'acqua tiepida. Cerco il mio shampoo all'albicocca e il bagnoschiuma alla vaniglia portandomi davanti al naso un flacone alla volta, sorridendo fiera quando finalmente li trovo.
Ci vuole pazienza, ad essere ciechi. Davvero molta ma molta pazienza.
Non so quanto tempo passo sotto la doccia, ma tornando in camera mia avvolta in un asciugamano, sento una voce canticchiare dalla cucina, segno che Mercedes si è svegliata. Sorrido, alzando lo sguardo al cielo, anche se ovviamente non posso vedere.
Ho continuato a farlo anche dopo l'incidente. Era una delle mie espressioni più carine a dire il vero, mi sarebbe dispiaciuto disfarmene solo perché non posso più vedere.
Recupero a tentoni l'intimo dal cassetto del comò. Ne saggio la consistenza tra pollice e indice. È l'unico modo che ho per riconoscere i miei vestiti. Ho tra le mani un completino di pizzo... passo a sfiorare l'etichetta. Mia madre ci ha ricamato sopra l'iniziale del colore. Su ogni mio capo di abbigliamento. È stata adorabile, bisogna ammetterlo.
«Pizzo nero», borbotto tra me e me, indossandolo.
Passo all'armadio. Riesco a recuperare senza troppa fatica un paio di jeans scuri, aderenti, un paio di converse bianche e due camice. Le sfioro, ancora attaccate alle stampelle, senza però riuscire a capire che camice siano.
«Hai intenzione di aiutarmi?», chiedo con un sorriso appena accennato, sentendo la presenza della mia migliore amica sulla soglia della mia camera da letto. La sento ridere e avvicinarsi. La sento frugare nel mio armadio, alla ricerca di qualcosa. «Mechi, andiamo...», le dico ridendo.
«Mettiti questi», mi dice lasciandomi un bacio su una guancia e mettendomi tra le mani una canottiera bianca e un cardigan celeste, di flanella. Adoro la mia migliore amica. Il celeste è il mio colore preferito - o almeno lo era - e in più adoro quel cardigan, è un regalo del mio migliore amico, Facundo.
Facundo Gambadé soprannominato Facu. Castano con alcuni riccioli, occhi castani. Da quel che mi ricordo, ovviamente. Alto più o meno quanto me, muscoloso il giusto e - sempre da quello che mi ricordo - un gran bel culo.
E se devo fidarmi di Mercedes , ha davvero un bel culo, ancora adesso.
È il nostro vicino di casa, era il mio vicino quando abitavo ancora con i miei ed è sempre stato il mio migliore amico, da quello che mi ricordo, nonostante sia più grande di me di tre anni. È una specie di fratello maggiore che non ho mai avuto, mettiamola così.
Mi infilo con calma i vestiti che mi ha recuperato Mechi, e scendo le scale tranquillamente. Ormai non è più un problema fare le scale e muovermi in quella casa. Mi sono abituata. Certo, all'inizio era un trauma, penso di essere caduta da quelle scale un centinaio di volte, forse di più. Ero frustrata, piangevo in continuazione dal nervoso. E ovviamente ero piena di lividi, anche se non li posso vedere.
Mechi è stata la mia ancora di salvezza, anche in questo senso.
Mi tira su da ogni caduta, cucina per me, mi aiuta a vestirmi se non trovo qualcosa. All'inizio mi aiutava a fare la doccia, o almeno a trovare shampoo e bagnoschiuma. Mi aiutava a fare le scale, usciva con me quando volevo uscire, mi accompagnava dappertutto. Non voleva che venissi presa in giro, intimoriva chiunque mi rivolgesse uno sguardo compassionevole... è la migliore amica ideale, quella che tutti vorrebbero come propria.
«Mechi, io esco», dico aprendo il secondo cassetto del mobile all'ingresso e recuperandone il mio bastone bianco. Quello apposta per i ciechi, per capirci. Un attimo, e sento il rumore dei tacchi della mia migliore amica muoversi veloce verso di me, come se mi stesse correndo incontro. Sospiro, quando sento le sue mani sulle spalle. «Non puoi impedirmi di andare a fare un giro», le dico con un sorriso.
«Posso, e lo sai».
Sbuffo, smettendo di sorridere. «Vado solo a prendere un po' d'aria, Mercedes», le dico ruotando gli occhi. Altra espressione facciale che mi è rimasta da quando vedevo. Sento la mia migliore amica sorridere, e la sento avvicinarsi per darmi un bacio su una guancia. Sento il suo odore riempire l'aria intorno a me, e so di aver vinto.
Posso uscire un paio d'ore senza che mi stia col fiato sul collo.
«Grazie, mamma», le dico con un sorriso uscendo di casa, seguita dalla sua risata.
Due passi. Tre scalini. Quindici passi lungo il vialetto.
Sento il rumore di uno skateboard. Un rumore a cui ormai mi sono abituata. Il figlio dei vicini. Penso che ci viva su quello skateboard. E so per certo che è caduto anche oggi. Lo sento dall'odore di sangue che mi fa storcere il naso. «Ciao, Tini!», mi saluta superandomi sulle quattro ruote di quell'aggeggio che tanto ama. Gli sorrido e lo saluto con la mano, continuando poi per la mia strada.
Giro a destra. Quindici passi e c'è una buca.
So la strada a memoria ormai.
So come arrivare alla fermata della metro, solo seguendo i rumori e gli odori. So che i gradini da scendere per arrivare alla metropolitana sono ventisei. E so che gli ultimi due sono rovinati sulla destra. E una volta scesa sottoterra, sempre sulla destra si posiziona Carlos, un ragazzo che suonas il violino.
«Buongiorno, mora», mi saluta quando poco meno di un'ora dopo gli passo davanti. Senza intoppi. Sorrido, prendendo qualche moneta dalla tasca del cappotto. Due sterline, le sento sotto le dita, ormai allenate. Allungo la mano e le lascio cadere nella custodia del violino. «Grazie piccola, cosa ti suono?».
Scoppio a ridere. Mora. Piccola. Adoro quel ragazzo, sul serio.
Anche se non l'ho mai visto.
«Radioactive, ti va?», gli chiedo inclinando la testa da un lato. Lo sento scrocchiare le dita, per poi iniziare a suonare quello che gli ho chiesto, mentre ricomincio a camminare, ridendo spensierata.
Amo quella canzone.
La musica mi ha salvata. Quando ho smesso di vedere, e praticamente anche di vivere per un periodo, lei c'era. Pensavo di aver perso tutto, ogni possibilità. Poi ho imparato ad ascoltare. È stato quello che mi ha salvata, ascoltare.
I'm waking up, i feel it in my bones
Love to make my systems go
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age
Whoa, whoa, I'm radioactive, radioactive...

Ogni singola nota. Ogni fruscio, ogni minimo rumore. Il vento tra le foglie, la distinzione tra una camminata sul prato, sulla sabbia o sull'asfalto. Riesco a sentire i treni arrivare da un paio di chilometri di distanza. Riesco a riconoscere i passi di Mercedes, Facundo, Xabiani o Lodovica.
Riconosco centinaia di rumori, suoni e odori.
A volte, è come se ancora vedessi.
Sento ancora Carlos suonare il violino, e accompagnarsi con la sua splendida voce, mentre il mio treno si avvicina. Un chilometro. Settecento metri. Duecento metri. E la gente che si avvicina al binario, che quasi mi schiaccia.
Finché non sento un profumo familiare arrivare alle narici, e una mano mi prende il gomito. «Buongiorno, tesoro... Mechi?», mi chiede Lodovica prendendomi direttamente a braccetto. Sento l'aria spostata dal treno in arrivo scompigliarle i capelli, e mandarmi addosso il suo caratteristico odore di ciliegia e cannella.
«Mi ha lasciata uscire da sola, un miracolo», scherzo sorridendo appena.
Lodovica scoppia a ridere, mentre il treno si ferma proprio davanti a noi. Lasciamo che la gente intorno a noi salga sul treno, poi Lodo mi tira leggermente per il gomito, spingendomi a camminare. Quattro passi, come al solito. E poi... «Gradino», mi sussurra Lodo, come da programma.
Sorrido, annuendo appena e salendo sul treno.
Mi lascio condurre lungo la carrozza. E per la prima volta da quando sono diventata cieca, sento qualcuno alzarsi e cedermi il posto. «Grazie», mormoro stupita. Ma non faccio nemmeno in tempo a sedermi che sento un odore poco conosciuto arrivarmi alle narici. Poco conosciuto, ma allo stesso tempo familiare.
Odore di tabacco. Odore di uomo. Odore di spinello, mascherato dalla gomma da masticare alla liquirizia e dal dopobarba alla menta. Sorrido, riconoscendo quell'odore, nonostante il giorno prima il proprietario di quell'odore mi abbia trattata di merda.
Il ragazzo della metro.
Quello con le mutande dello stesso colore della camicia, per intenderci.
È lui, ne sono più che convinta. Soprattutto quando lo sento prendermi la mano e aiutarmi a sedermi. Sorrido, e sento anche Lodovica sorridere, mentre scuote la testa e probabilmente alza anche gli occhi al cielo. Io dal canto mio sto cercando di immaginarmi l'espressione del ragazzo che mi sta davanti e che mi tiene ancora la mano, senza aver l'intenzione di lasciarmela, tra l'altro.

***
JORGE'S POINT OF VIEW.

Avevo fatto le mie ricerche, da bravo ragazzo che non aveva mai aperto un libro in vita sua. Mi ero attaccato alla connessione Internet dei vicini per cercare di capire qualcosa in più della condizione della ragazza della metro.
Poteva essere cieca dalla nascita. O essere diventata cieca a causa di una malattia, o un incidente. Wikipedia era stata molto utile, lo ammetto. Ma, riguardo la bionda...
Qualcosa mi diceva che fosse diventata cieca.
Nonostante l'avessi vista una volta sola, quella ragazza di cui nemmeno sapevo il nome, si comportava in modo normale. Come una persona vedente, per intenderci. Sbatteva le palpebre, ruotava gli occhi e alzava gli occhi al cielo.
E beh, io non sono mai stato una di quelle persone che ascoltano la gente. Ma sono sempre stato bravo ad osservare le persone. Da quei dieci minuti in metropolitana ero riuscito a capire un mondo, di quella ragazza.
I suoi capelli, erano di un moro naturale con un biondo dorato sulle punte, ed era probabile che li avesse lisciati, visto che sulle punte erano leggermente ondulati, verso l'interno. Il suo colore preferito doveva essere il celeste, visto il bracciale che indossava, e il cappotto color carta da zucchero. Doveva avere un rapporto speciale con quella che pensavo fosse la migliore amica, quella che senza tante cerimonie mi aveva mandato a quel paese il giorno prima.
La mora rideva come ridono tutti. Rideva per le piccole cose, compresa la descrizione che le aveva fatto la mora di come ero vestito. Sapeva ridere, nonostante quello che passava, non vedendo...
E stranamente quando quella mattina scendo le scale della metro sulle note di Radioactive, spero vivamente che sia uscita, spero di poterla incontrare, di farmi perdonare per il mio comportamento da stronzo.
Solo che non so perché voglio che quella bellissima ragazza mi perdoni.
Tantomeno riesco a capacitarmi del mio stesso gesto, quando, una volta trovato un posto a sedere, la vedo arrivare con un'altra ragazza che la tiene sottobraccio. E mi alzo, cedendole il posto.
Non l'ho mai fatto per nessuno, mai in tutta la mia vita.
Mai, in ventidue anni, mi sono sacrificato per qualcuno, se escludiamo mia sorella Cielo e mia madre. Le prendo una mano e la aiuto a sedersi, senza che il magnifico sorriso che ha sulle labbra scompaia nemmeno per un istante.
Sorride, ma proprio non riesco a capirne il motivo.
Quella ragazza mi confonde.
E le sto per lasciare la mano, quando la sento stringere appena, come a trattenermi accanto a sé. Come se il fatto che l'abbia fatta cadere a terra il giorno prima non fosse mai accaduto. È incredibile.
«Sei il ragazzo di ieri, giusto?», mi chiede mentre la sua amica si allontana di qualche metro, per andarsi a sedere. Annuisco, ma poi mi ricordo che non può vedermi, e mi viene da ridere, non riesco a trattenermi. «Hai annuito, vero?», mi chiede unendosi alla mia risata. È ancora più bella quando ride, non riesco a smettere di guardarla.
«Sì, scusami... non sono abituato», le dico passandomi una mano tra i capelli, e lasciando l'altra mano tra le sue. Sento le sue dita, scorrere sulla pelle della mia mano, e arrivare fino alla base del pollice. «Che stai facendo?», le chiedo mentre il treno si ferma.
Lei lo ignora, come se sapesse che non deve scendere a quella fermata.
«Hai un tatuaggio, qui?», mi chiede, mentre miracolosamente il posto accanto a lei si libera, così posso sedermi. Senza lasciare che le sue mani smettano di stringere la mia. Sento le sue dita fresche passare diverse volte sul contorno del mio tatuaggio, come se stesse cercando di capire cosa rappresenta.
«Sì, è una colomba», aggiungo con un mezzo sorriso. Altra fermata, e la vedo incrociare le caviglie, per poi lasciarmi la mano. «Mi dispiace per ieri», provo a dirle, imbarazzato. Io, in imbarazzo? Oddio, che sta succedendo? «Ero incazzato e...».
«Tranquillo, ci sono abituata», mormora lei passandosi una mano tra i capelli mossi.
«Posso fare qualcosa per farmi perdonare?», scherzo, osservando la sua reazione. Scoppia a ridere, scuotendo poi la testa con un sospiro. La ragazza con cui è salita si avvicina, per poi posarle una mano sulla spalla e abbassarsi per sussurrarle qualcosa in un orecchio. Qualcosa che non riesco a sentire, dato lo stridio dei freni del treno, che si sta fermando di nuovo.
«Okay, Lodo... io scendo alla prossima», dice all'amica mentre il treno inchioda, facendola quasi cadere dal sedile. Metto velocemente un braccio intorno alla sua vita, tirandola a me per non farla cadere. «Ti sei già fatto perdonare, quando prima mi hai lasciato il posto», mi dice posando una mano sulla mia, mentre la sua amica scende alzando gli occhi al cielo.
Sorrido, ma non so che dire, così rimango in silenzio finché il treno non fa per fermarsi e lei si alza in piedi, tirando fuori il bastone per non vedenti. La guardo avvicinarsi alle porte e scendere, con un altro paio di persone.
Allora mi accorgo di non averle nemmeno chiesto come si chiama.
«Ehi!», le urlo prima che le porte si richiudano, prima che il treno riparta. È anche possibile che io non la riveda più. Anzi, in realtà è più che probabile. La sento ridere e la vedo scuotere la testa, mentre si gira velocemente verso di m
e facendo svolazzare i boccoli mori e biondi.
«Mi chiamo Martina», la sento dire, un secondo prima che le porte si chiudano.
   
 
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