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Autore: Life In Fangirling Motion    13/04/2016    5 recensioni
Dal testo:
"Per un momento gli balenò in testa un'idea. No, non un'idea, giusto uno sprazzo, un minuscolo puntino luminoso, tremolante, instabile, effimero e che svanì all'istante, lasciandosi dietro una scia baluginante di incredulità per anche solo aver pensato una simile follia. Perché, in quel momento di caos totale dove ogni singola certezza che aveva dato per scontata si stava sfaldando sotto i suoi piedi, costringendolo ad indietreggiare fino all'orlo del baratro, Mika aveva pensato di abbandonare l'ultima cosa che gli restava: Andy."
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Andy Dermanis
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Think it's love we're making?

 


 

All these years of trying,
if I said I'm happy I'd be lying.
Think it's love we're making,
but if this is love then watch me die on you.


 


Si svegliò nel cuore della notte.
Vertigini, tremori e sudori freddi gli sconquassavano il corpo e gli incollavano alla schiena la vecchia t-shirt di cotone sgualcita, rendendola soffocante.
Gli stilizzati numeretti rossi della sveglia digitale sul comodino gli facevano notare con il loro lampeggiare costante che era riuscito a raggranellare sì e no 15 minuti di sonno.
Non che fosse propriamente riuscito a dormire, in realtà. Piuttosto si era limitato a girarsi e rigirarsi nel letto ormai sfatto, finché non era caduto in un dormiveglia ricco di incubi che lo aveva reso solo più spossato ed esasperato di prima.
Era distrutto.

Erano ormai settimane che Mika non riusciva a farsi una buona notte di sonno ristoratore e i pochi minuti in cui la stanchezza prendeva il sopravvento sul suo corpo e sulla sua mente stremati, erano infestati da quell'incubo continuo che non gli dava tregua fino a che i pallidi raggi del sole mattutino non irrompevano timidamente nella sua stanza, filtrando attraverso le persiane socchiuse.
Il sogno era sempre lo stesso: lui, solo, al centro di una stanza dalle pareti di un bianco nitido, accecante, fastidioso.
Si girava intorno spaesato, senza sapere dove fosse o come fosse finito lì.
Chi lo avesse fatto finire lì.

La consapevolezza inconscia, tipica dei sogni, gli diceva infatti che non ci era arrivato per caso; era stato rinchiuso in quella stanza sconosciuta ed inospitale, che lo faceva sentire così a disagio, da qualcuno. Solo, non sapeva chi fosse.

Aveva pensato, nel sogno, quanto quei muri di una luminosità così intensa gli ricordassero la sua vecchia camera, quand'era ragazzino. Per sfuggire alle prese in giro dei suoi amici ed omologarsi a loro, aveva tappezzato tutte e quattro le pareti di foto, disegni, immagini, poster e scritte. Non erano rimasti appesi che per 5 minuti, giusto il tempo di uno sguardo. Poi era impazzito. Aveva strappato tutto con una foga animale e, straccio insaponato alla mano, si era messo a sfregare l'intonaco alla ricerca di quel bianco candido, puro e privo di imperfezioni, che gli infondeva un senso di pace che aveva quasi dello spirituale.
Era come il preciso click dell'ultimo tassello di un puzzle complicatissimo, che finalmente viene abbracciato senza alcuna forzatura dalle punte tonde e dalle perfette insenature delle altre tessere.
Ma il muro che si trovava davanti quando chiudeva gli occhi, era l'esatto opposto. Le pareti sembravano fatte di materia inconsistente, tanto il colore così omogeneo e cangiante ne confondeva bordi e angoli. La perfezione che da bambino gli provocava benessere al limite del metafisico, sotto le coperte diventava concretamente insostenibile, nauseabonda quasi.
Quella in cui era imprigionato era una gabbia meravigliosa, vuota ed apparentemente infinita.
Claustrofobia nello spazio aperto.

Ecco che poi, però, qualcosa cambiava.
Ciò che all'inizio sembrava solo una percezione ottica dettata forse dalla prospettiva così ingannevole, a poco a poco diventava una consapevolezza terrificante: un centimetro dopo l'altro, le pareti iniziavano ad avvicinarsi sempre di più tra loro.
La stanza, fino a quel momento dalle sembianze infinite, si stava restringendo in tutto il suo volume.
E lo faceva a vista d'occhio.
Nel sogno Mika annaspava, si gettava disperato contro le pareti, battendo i pugni in un angoscioso tentativo di sfondarle, di trovare un'uscita, di chiamare aiuto.
Ma dalla sua bocca spalancata in un urlo straziante, non usciva alcun suono.
Più si agitava, più la stanza rimpiccioliva, tanto da costringerlo prima in ginocchio e poi supino nel giro di pochi minuti.
Il soffitto gli veniva incontro a sempre maggior velocità, il bianco neon gli confondeva i sensi e gli faceva sbattere ripetutamente le palpebre, inumidendo gli occhi fino a farli quasi lacrimare.
Avrebbe potuto semplicemente chiuderli, lo sapeva. Sarebbe finito tutto più in fretta, forse non si sarebbe neanche accorto delle costole che si incrinavano, delle vertebre che scricchiolavano le une sulle altre, degli organi trapassati mortalmente da acuminati frammenti ossei.
Ma un istinto primordiale di sopravvivenza, o forse solo il puro masochismo di vedere in faccia la penosa morte che avrebbe dovuto subire, lo istigava a tenere le palpebre spalancate, sguardo traboccante terrore, mentre le pareti si comprimevano a sempre maggior velocità intorno al suo corpo già rannicchiato.
I muri si avvicinavano sempre di più.
Le ginocchia gli premevano dolorosamente contro lo sterno.
Il soffitto era arrivato a sfiorargli il naso.
Il bianco lo fagocitava.
Stava per essere schiacciato.

Poi, di colpo, ogni volta che iniziava a sentire l'osso del collo piegarsi in avanti in una posizione innaturale, a pochi secondi dall'essere spezzato... il pavimento cedeva.
Iniziava allora una caduta nel buio, il vuoto più assoluto intorno a sé. Riusciva solo a percepire l'aria che gli sferzava graffiante la faccia e gli faceva pizzicare gli occhi, le proprie braccia mulinare alla cieca cercando appigli che non avrebbero trovato, il cuore che batteva all'impazzata nel petto, un grido disperato bloccato in gola
E, sempre più in lontananza, il bianco innaturale di quel minuscolo puntino che era stata la sua prigione.
Si sentiva come Alice che cade nella tana del Bianconiglio, ma con la pietrificante consapevolezza che sotto di sé non avrebbe trovato alcun Paese delle Meraviglie.
Senza bisogno di guardare – e comunque incapacitato a farlo dalla paura pietrificante – Mika sapeva in cuor suo che ad attenderlo non ci sarebbe stato altro che un pavimento di sottili, affilate, aguzze punte di ferro arrugginito.
E l'impatto si avvicinava ogni secondo di più..


Era a quel punto che, ogni notte, si svegliava.
Si rizzava a sedere e, madido di sudore, cercava di calmare il respiro affannoso emulando il regolare alzarsi ed abbassarsi del petto di Andy, che dormiva tranquillo vicino a lui.
Se c'era una cosa che era sempre riuscita a farlo riprendere un pochino da intensi momenti di agitazione come quello, era osservare i tratti rilassati, le labbra dischiuse e il lento respiro ritmico del suo amante addormentato.
Ultimamente passava spesso l'ora del lupo, appena prima del crepuscolo, a guardarlo riposare in religioso silenzio.

Anche in quella fredda notte di Novembre, le cose non andarono diversamente.
Era stata la solita giornata ordinariamente improduttiva, in cui aveva compiuto come un automa le azioni più quotidiane.
La stessa sfiancante insonnia che lo lasciava solo la notte con i suoi pensieri.
La stessa galoppante depressione nascosta dietro un sorriso tirato su cui appoggiarsi, un Valium preso di nascosto e un "è solo stanchezza, sono in ospedale da ieri notte" a cui gli era più comodo fingere di credere.
L'unica nota diversa in quell'accozzaglia di giornate tutte uguali che iniziavano a confondersi tra loro, fu quel particolare risveglio notturno, dopo aver ripetuto lo stesso terribile incubo per l'ennesima volta.

Aveva appena distolto lo sguardo, sfinito e sconsolato, dai numeri lampeggianti della sveglia, rassegnandosi all'ennesima nottata che avrebbe passato insonne.
La quinta questa settimana.

Si riavviò i capelli all'indietro, lasciando incurante che qualche riccio sudato gli ricadesse sull'ampia fronte, solcata da premature rughe di stress.
Portò il dorso della stessa mano a massaggiarsi gli occhi stanchi per levarsi di dosso quel velo di torpore che ancora lo avvolgeva, cosciente del fatto che tanto non sarebbe riuscito a riaddormentarsi per quella sera. Sospirando pesantemente si sistemò meglio a sedere sul materasso, con le spalle e la nuca poggiate alla spalliera, le lunghe gambe incrociate e le braccia mollemente abbandonate sul grembo. Poi, approfittando dell'argentata luce di luna piena che si era infiltrata negli spiragli nelle persiane, si voltò verso Andy, portando a termine quel rituale di auto–rilassamento di cui il greco era a sua insaputa l'ispirazione.
Il giovane era addormentato a pancia in giù, con la schiena che si sollevava ritmicamente scandendo il suo respiro, il viso rivolto verso il lato del letto di Mika, un braccio sotto il cuscino e l'altro abbandonato a una ventina di centimetri dal proprio naso.
La bocca leggermente dischiusa e la guancia premuta contro il cuscino, aveva un'espressione di pura serenità (non perfettamente specchio del suo aspetto un po' meno curato del solito, visti gli avvenimenti delle ultime settimane che avevano coinvolto lui quanto – o quasi – il resto della famiglia Penniman), che faceva a pugni con l'agitazione sempre più crescente nel petto di Mika.
Solitamente la vista del cameraman addormentato lo tranquillizzava come fosse un sedativo; perché allora era l'effetto contrario che stava sentendo in quel momento?

Il riccio si costrinse a sgombrare la mente e semplicemente a seguire il respiro regolare del ragazzo di fianco a lui, inspirando ed espirando profondamente, ad occhi chiusi e polmoni aperti.
Nulla.
Quella sensazione di simbiosi che solitamente lo faceva sentire così protetto e al sicuro, in quel momento non solo lo infastidiva: lo ripugnava.
Percepiva un peso proprio sulla bocca dello stomaco, un blocco in gola che non gli permetteva di respirare, un senso di nausea e malessere generale dilaganti. Si sistemò meglio sul letto, muovendo il bacino alla ricerca di una posizione più comoda, che non riuscì a trovare in nessun modo.
Talmente era sottomesso a quella sensazione di panico ed apnea, che la pungente paura di aver perso la sua unica fonte di idillica tranquillità non lo sfiorò nemmeno.

Non poté reggere quella connessione un secondo di più.
Senza neanche lanciare un ultimo sguardo al più giovane, che continuava a dormire ignorando la tempesta che si stava iniziando a scatenare sia fuori, per le strade di Londra, che dentro la sua stessa casa, Mika sgusciò fuori dal letto e, strascicando i piedi sulla moquette, raggiunse il soggiorno.
Fece per accendere la luce, ma poi cambiò idea.
Per quanto da diverse settimane a quella parte la notte fosse sinonimo di angoscia e frustrazione, il giorno lo era dieci volte di più. La luce del sole portava infatti con sé continue visite in ospedale, conversazioni con medici che facevano mille pronostici sempre diversi, ma tutti categoricamente inevitabili, sguardi silenziosi e ricchi di significato scambiati con i suoi parenti.
E poi, chissà cosa poteva significare per lui, per la sua famiglia, per sua sorella, una nuova alba. Il fatto che si fosse risvegliata da un'operazione apparentemente riuscita, poteva voler dire tutto come poteva non voler dire niente. Bastava un attimo, una complicazione dell'ultimo minuto, e quella miracolata ripresa che aveva fatto piangere di gioia tutta la famiglia qualche settimana prima sarebbe stata vana.
Quindi Mika preferì camminare a tentoni al buio – approfittando dei lampi che ogni tanto squarciavano il plumbeo cielo londinese rischiarando il suo soggiorno – piuttosto che accendere la luce e anticipare di diverse ore l'ineluttabile inizio di un nuovo giorno.
Rischiò di inciampare, vicino al caminetto ormai spento, nella cuccetta di Melachi, altra abitante di quella grande casa che si faceva cullare beatamente dalle braccia di Morfeo, senza un solo pensiero al mondo.
Non che anche la cagnetta, seppur relativamente nuova in quella pazza famiglia in cui era finita, non si fosse accorta che qualcosa non andava. Ogni volta che i due padroni tornavano a casa, esausti dal lavoro e in continua tensione, pronti a trasalire appena squillava un telefono, la piccola "regina" zampettava timidamente verso di loro e, percependo la stanca tristezza di cui erano impregnati, cercava di lavarla via a suon di lappate.
Per qualche attimo ci riusciva anche.
Poi succedeva qualcosa: che fosse una telefonata, uno sguardo di troppo o un pensiero cupo, la mano che per un momento si era persa ad accarezzare quel morbido pelo rosso, si ritraeva di colpo.

Piegandosi sulle ginocchia, i piedi nudi a contatto con il parquet e il blando tepore delle braci a riscaldargli lievemente il viso, Mika cadde nuovamente nell'incantesimo della sua cagnetta, accarezzandola e beandosi del suo corpo caldo che incamerava aria per poi rilasciarla qualche attimo dopo.
L'ennesimo lampo, seguito da un tuono fragoroso e rimbombante, illuminò momentaneamente la stanza permettendo a Mika di sollevarsi in piedi e raggiungere il divano verde al centro della stanza.
Ci si lanciò sopra a peso morto, raccattando una coperta di lana e gettandosela sulle spalle per combattere il freddo penetrante di quella notte di tempesta.
Puntò lo sguardo sull'ampia finestra di fronte a lui, divenuta una cascata d'acqua piovana che distorceva la vista di Londra oltre il vetro. Le gocce scese dal cielo a tutta velocità e spinte con violenza dal vento furioso, sembravano appigliarsi disperatamente al vetro e usare tutte le loro forze per non scivolare giù. Inutile.
Seguendo il percorso dell'ennesima goccia che andava incontro al proprio inevitabile destino, Mika sospirò pesantemente, distogliendo lo sguardo.

Non ce la faccio più.

In quel momento di solitaria riflessione, la rassegnata stanchezza che aveva cercato di ignorare per settimane, rispingendola con forza nel proprio intimo, tornò irreversibilmente a galla.
Era come il magma che ribolle nelle profondità di un vulcano, fino a quando la pressione non diventa tale da spingere la lava incandescente su per chilometri, eruttando con un possente scoppio.
Mika si sentiva esattamente così.
Ormai aveva perso conto dei giorni in cui, per far fronte alle questioni pratiche più urgenti da sbrigare e per sostenere moralmente la propria famiglia – da bravo fratello maggiore – si alzava ogni mattina ed infilava una maschera sorridente.
Era diventata la sua seconda pelle, aveva imparato a tenerla su anche per tutto il giorno.
A primo impatto gli era venuto spontaneo: svegliarsi nel cuore della notte sentendo qualcuno bussare alla porta, correre per la strada in pigiama, stringere una mano sempre più fredda e debole cullato dall'ondeggiare ritmico delle 4 ruote sulla strada e dal suono lamentoso di una sirena lampeggiante.
Poi, quando il suo cervello aveva smesso di pompargli adrenalina nelle vene e quell'effetto di forza sovrumana era iniziato a scemare, si era fatto piccolo piccolo, annichilito dalle pareti accecanti del reparto intensivo e si era rivelato più fragile di tutti gli altri.
Ma ormai era troppo tardi: il ruolo di punto di riferimento e sostegno morale gli era già stato assegnato, e non poteva tirarsi indietro. Quindi, a fatica, si era creato quella facciata di ottimismo, pragmaticità, calma, risolutezza ed efficienza.
Era diventato una macchina.
Si era aspettato di cedere dopo qualche giorno, crollando tra le forti braccia di Andy o peggio, tornando un moccioso impaurito e singhiozzante e andando a nascondersi dietro le gonne della madre (la quale aveva accusato il colpo più di tutti e, da donna forte ed autoritaria qual era, era passata all'essere distrutta ed inconsolabile, invecchiando di 10 anni in una settimana).
Ma invece era riuscito ad arrancare, attento a non mostrare il minimo accenno di debolezza agli occhi di nessuno. Non si era permesso di allentare un po' la presa nemmeno con il proprio compagno, nascosto nella quieta intimità della loro casa.
Temeva che se lo avesse fatto non sarebbe più riuscito a riprendere in mano il controllo della situazione e tutto sarebbe andato a rotoli. Già si immaginava la chiamata di sua sorella maggiore che, voce rotta dal pianto, gli dava l'annuncio che tutti si aspettavano di ricevere da un momento all'altro, ma che nessuno sarebbe mai stato pronto per ascoltare.
In più, era in qualche modo restio a farsi vedere debole e vulnerabile dal greco. Neanche in passato era mai stato un grande amante delle relazioni lagnose, ricche di sentimentalismi e confessioni intime a cuore aperto; ma – nonostante non avesse avuto il tempo, né la forza, di aggiungere alla sua lista un altro preoccupante pensiero di cui occuparsi – ultimamente il rifiuto per tali manfrine era diventato viscerale.
A stento lui e Andy si guardavano ultimamente, figurarsi l'intrattenere conversazioni profonde ed angosciosamente tristi che si sarebbero inevitabilmente trasformate in un penoso piagnisteo.
Mika si era infatti accorto dell'attento sguardo indagatore del cameraman e del suo premuroso occhio di riguardo nei suoi confronti (la situazione si era enormemente acutizzata nelle settimane successive all'incidente, ma in realtà andava avanti già da qualche mese); il che lo portava ad evitare qualsiasi conversazione o contatto visivo più lungo del normale per evitare un confronto al quale non avrebbe retto. Di conseguenza, era finito con il creare un muro trasparente tra sé e il suo compagno, il quale, lo sapeva, era solo preoccupato per lui.
Il più grande infatti – a distanza di settimane e anche dopo che le condizioni mediche della sorella maggiore erano tornate stabili e in un certo qual modo promettenti – non era riuscito a sfogarsi per l'accaduto con un bel pianto liberatorio e il greco temeva, a ragione, che si stesse tenendo tutto dentro, rischiando di esplodere da un momento all'altro.
Il momento dell'esplosione era evidentemente giunto.

Mika non riusciva più a ragionare, tanta la confusione che aveva in testa.
Le cose più belle della sua vita lo stavano abbandonando contemporaneamente, senza un perché, senza un singolo, minuscolo indizio preventivo a metterlo in guardia prima che la tempesta si scatenasse, rinchiudendolo nell'occhio del ciclone.
Era un sadico gioco del domino, un tremolante castello di carte che sarebbe crollato – re, regina, fante, quadri, fiori, picche e cuori, uno dopo l'altro in una cascata da Casinò – fino alle fondamenta.
La partita era iniziata qualche mese prima.
La prima puntata, già alta persino per gli scommettitori più avventati: la sua carriera.

Di ritorno da un impressionante ed ispirato tour – scenografie alla Tim Burton, esibizioni sconvolgenti e sold out ad ogni tappa – Mika si era ritrovato con un boccone amaro ed indigesto da dover buttare giù: non riusciva più a scrivere.
Era successo esattamente come quando era a scuola e semplicemente, puf, si era dimenticato come leggere, come scrivere, persino come riconoscere le note.
Solo che stavolta non era il tenere in mano una penna o sillabare correttamente, il problema. Era la capacità di creare musica, di mettere insieme parole slegate tra loro in una sinfonia mai udita prima, la capacità di estrapolare la magia dalle cose più banali.
Era stato tagliato fuori da quello stesso mondo meraviglioso che si era costruito per sopravvivere, perdendocisi dentro. Il suo universo di colori sgargianti era coperto da una cortina di nubi sempre più fitta e scura, e ormai riusciva a vedere solo in bianco e nero.
Quando si sedeva al piano le sue lunghe dita non andavano più da sole, spontaneamente, ad accarezzare i tasti bicolore come un amante che sfiora il corpo del suo amato, conoscendolo alla perfezione ma scoprendolo sempre nuovo.
Si sentiva piuttosto come un quindicenne intimorito ed impacciato, alla prima esperienza.
Premeva gli eleganti tasselli d'avorio con la punta del polpastrello, timido, quasi dovesse chiedere il permesso per far uscire quel suono che, una volta sprigionato, lo infastidiva per quanto stonato.
E quando Ian – il suo manager – lo pressava, cercando di spremergli fuori quanti più dettagli possibili sul suo prossimo capolavoro in progress, lui proprio non ce la faceva – da perfetto codardo qual era – a dirgli che in realtà il suo pianoforte non aveva più emesso una sola nota da settimane.
In un momento di crisi, qualche tempo prima, aveva rivelato a Yasmine del suo blocco dello scrittore, facendosi rassicurare come un marmocchio caduto dalla bici e sbucciatosi un ginocchio, da frasi come "vedrai che passerà presto, è solo una cosa momentanea".
Ma il tempo era passato, le bugie e false promesse alla sua etichetta, moltiplicate, e ancora il cantante non era riuscito a sedersi davanti agli 88 tasti senza che un'incontrollabile angoscia gli si espandesse nel petto fino a farlo desistere dai suoi buoni propositi.
Non era più riuscito a mettere insieme due parole o due accordi da più di 6 mesi. I suoi faticosissimi tentativi di creare qualcosa avevano prodotto solo tanta frustrazione e disperazione accumulate, e Ian iniziava a spazientirsi chiedendogli insistentemente quando il suo prossimo album – o almeno un abbozzo – sarebbe stato pronto.

Ora, testa tra le mani e membra tremanti dal freddo e dall'agitazione, Mika iniziava a pensare che non sarebbe mai successo.
Aveva cercato di restare positivo per mesi, ignorando quella paura sorda che gli si era instillata nel cervello, espandendosi come gas all'aria aperta.
Ma ormai era ridicolo ed inutile negare l'evidenza: i suoi 5 minuti di gloria erano finiti.

Quella carriera che aveva lottato tanto per costruirsi era già giunta al termine, seguendo lo stesse triste percorso della stragrande maggioranza dei recenti artisti pop: singolo in vetta alle classifiche mondiali, stadi pieni come un uovo per il primo tour, ragazzine in visibilio, incassi da record che ripagavano a malapena le spese affrontate per arrivare fin lì, e poi l'inevitabile declino.
CD invenduti, centinaia di sedie vuote nei palazzetti, qualche sporadica apparizione in un programma tv del mattino presto guardato solo da ubriaconi, vecchietti e camionisti, l'orecchiabile motivetto della sua ormai tramontata hit, mandata per l'ultima volta in una radio di serie D prima di cadere definitivamente nell'oblio.
Lui se l'era giocata bene e il successo lo aveva seguito anche per un secondo album; ma nessuno in Inghilterra ricordava già più il suo nome, in America la sua musica non aveva attecchito fin dall'inizio e, anche sulla scena europea, erano ormai apparse nuove stelle nascenti che l'avevano surclassato.
Era finita.
Di lì a poco il suo manager avrebbe scoperto che quelle che gli aveva rifilato negli ultimi mesi non erano altro che balle, e la sua etichetta lo avrebbe scaricato senza pensarci due volte.
Avrebbe deluso i migliaia di fans che si era creato in giro per il mondo, abbandonandoli dopo averli illusi con i suoi testi dorati che tutti i sogni possano realizzarsi. O forse anche loro si erano già dimenticati di lui? Era stata solo una moda passeggera, il capriccio di chi voleva sentirsi normale in confronto a quel pazzo in vestiti improbabili e melodie bambinesche che saltava ridicolmente sul palco?
Come avrebbe potuto reggere lo sguardo di sua madre, dopo che aveva fatto sacrifici giganteschi per fargli studiare musica, per supportarlo quando falliva, per aiutarlo a rialzarsi, per spalleggiarlo nelle sue battaglie, per spingerlo quando ne aveva bisogno? Anche se forse non se ne sarebbe nemmeno accorta, devastata dal dolore insormontabile di una madre che soffre per la propria figlia.

E che cosa avrebbe fatto dopo?
Avrebbe dovuto trovarsi un lavoro normale, lui che era sempre stato un fallito senza speranza, un teppista mancato nascosto dietro due fossette infantili, un ragazzino stupido le cui uniche opzioni erano la galera o la colorata, scintillante ed estrema esagerazione del palcoscenico.
Sarebbe dovuto tornare a lavorare in quello squallido bar a pulire tavoli appiccicosi per il resto della sua vita?
E tutti i capitali investiti nella creazione dei suoi album, dei suoi tour, promozioni, pubblicità, viaggi, hotel..?
Aveva messo da parte un bel gruzzoletto, con il quale si era illuso di fare la bella vita, ma tutto ciò che guadagnava con le vendite dei dischi finiva o nelle tasche dei proprietari dell'etichetta discografica, o come fondo cassa per le sue magnificenti, imponenti, straordinarie scenografie. Che non gli sarebbero servite più a niente.
Fare musica era sempre stata l'unica cosa in cui era stato bravo, o almeno così credeva.
Sua madre gli aveva sempre detto di trovare il suo maggior talento e puntare tutto su quello; e lui lo aveva fatto.
Ma se avesse sbagliato?
Se in realtà non era poi così bravo come, vanaglorioso ed illuso dalla sfavillante luce della fama, aveva creduto di essere?
Se per tutto quel tempo non fosse stato altro che un fenomeno da baraccone, messo sulla ribalta per suscitare risa e pietosa compassione, a sua insaputa?
Se i bulli che lo avevano tormentato avessero avuto ragione fin dall'inizio, dicendogli quanto fosse stupido,
inutile,
strano,
sbagliato.

Ancora seduto sul divano del soggiorno, circondato solo da qualche indefinita sagoma immersa nel buio pesto, Mika prese a tremare violentemente, gli occhi che guizzavano disperati da una parte all'altra, il respiro corto e rapito, battiti accelerati e sudorazione abbondante.
Attacco di panico.
I sintomi erano gli stessi di quando era bambino e, costretto ad andare a scuola, doveva lottare contro la voglia di piangere di fronte a tutti all'ennesima crudele poesia, piena di cattiverie sul suo conto, che la maestra gli faceva leggere ad alta voce.
Cercò di regolarizzare la respirazione, ma sentiva i polmoni andare in fiamme alla minima boccata di ossigeno che si negava.
Iniziò a contare, lentamente, fino a dieci.
Poi all'indietro.
Poi saltò i numeri pari.
Poi i dispari.
Poi provò con le somme, le sottrazioni e le moltiplicazioni, finché una fitta acuta alla tempia non lo costrinse a smettere.
Neanche quei metodi insegnatigli anni prima da un occhialuto psicologo dell'infanzia ed entrati a far parte della sua personale superstizione, lo poterono aiutare in quel momento.
Ogni singolo aspetto della sua vita era stato messo in discussione, dalla sua famiglia fino alla sua più grande passione, e l'unica cosa che sapeva per certo in quel tornado di dubbi radicati fin dentro le viscere, era che non avrebbe retto un altro giorno in quella situazione.
Niente più ospedali, maschere, sorrisi forzati, scadenze, pressioni, finzioni, tristezza, paura..
Voleva solo andarsene e ricominciare tutto daccapo, voltarsi e correre via (ignorò la voce maligna che gli ricordò quanto fosse rimasto lo stesso ragazzino codardo che scappava terrorizzato dai bulli), premere RESET e riniziare: nuova vita, nuovo corpo, nuova personalità, cervello, ricordi, anima, cuore.
Già, cuore..

Per un momento gli balenò in testa un'idea. No, non un'idea, giusto uno sprazzo, un minuscolo puntino luminoso, tremolante, instabile, effimero e che svanì all'istante, lasciandosi dietro una scia baluginante di incredulità per anche solo aver pensato una simile follia. Perché, in quel momento di caos totale dove ogni singola certezza che aveva dato per scontata si stava sfaldando sotto i suoi piedi, costringendolo ad indietreggiare fino all'orlo del baratro, Mika aveva pensato di abbandonare l'ultima cosa che gli restava: Andy.
Proprio lui, che in una vita assurda, precaria e sconvolta completamente da un giorno all'altro dall'ebbrezza della fama, era stato il suo unico punto fermo e la sua rassicurante àncora per ben 3 anni.
Forse era quello il problema.
3 anni.
36 mesi.
1095 giorni.
Era un sacco di tempo. Specie per uno come lui.
Dopo una relazione così lunga e promettente, riusciva a percepire dei cambiamenti. Più che cambiamenti, in realtà, conferme. Piccole sfumature, implicazioni, come granate gettate a caso o per sbaglio, lontano, di cui nessuno poteva sentire lo scoppio se non sotto forma un indefinito e vago rimbombo. Che però faceva tremare Mika da capo a piedi.

La sua famiglia, la famiglia di Andy, i loro amici, e anche loro stessi in primis, ormai sentivano come se un futuro per quella coppia così apparentemente ben assortita fosse ovvio. Non era più semplice abitudine alla presenza del greco (o viceversa, in casa Dermanis), ma piuttosto una sorta di calcificazione spontanea ed inevitabile del loro status di fidanzati. Non Fidanzati, con la "F" maiuscola, non ancora. Ma tutte le autonome e non intenzionali implicazioni fatte da parenti e amici che, a lungo andare erano diventate sempre di più normale amministrazione, sembravano sempre puntare a quello. Il grande passo. Quello che Mika, sin da quando – appena adolescente – aveva iniziato a rendersi conto della propria attrazione per qualche compagno di scuola, vergognandosi come un ladro, era stato costretto a relegare in un buio e polveroso anfratto della propria mente. E se allora si era convinto, con una punta di amarezza, che per lui non ci sarebbero mai potute essere una navata rigogliosa di fiori, una torta bianca a più piani e un commosso "..ora può baciare la sposa", con gli anni aveva realizzato che forse tutto quello neanche lo voleva.
Non che si fosse mai fermato a pensarci, comunque.
E probabilmente, salvo forse sua madre, neanche gli altri lo avevano fatto. Semplicemente, veniva loro spontaneo presumere che prima o poi sarebbe successo.
"Tu e Andy avete già dei piani per le vacanze?", "Il prossimo Natale lo passeremo da voi, allora", "Quando arriverai ai fatidici 30 aspettati già prese in giro infinite da parte del tuo bel greco" e, una volta, in seguito ad una divertita discussione sul fatto che il libanese stesse iniziando a perdere quei bei ricci, così caratteristici del suo aspetto, Yasmine aveva tirato una lieve gomitata al biondo e aveva concluso dicendo: "Tra massimo una decina d'anni te lo ritroverai completamente calvo".

Mika non aveva mai fatto caso a quei commenti a tempo indeterminato, nei quali la possibilità di una rottura tra i due non era neanche stata contemplata. O almeno, non ci aveva fatto caso fino a quando, in un moto di impulsività che gli era venuto così spontaneo e naturale, non aveva chiesto ad Andy di andare a vivere con lui. Non che glielo avesse proprio proposto come una cosa ufficiale; si era semplicemente limitato a supporre che quella bella casa nuova che aveva finalmente comprato, sarebbe stata di entrambi. E quando il greco, con il suo solito fare sfacciato ed impertinente, gli aveva chiesto sorridendo furbo: "Mi stai per caso chiedendo di venire a vivere con te?", il cantante era dapprima impallidito, poi arrossito violentemente, e infine, dopo aver deglutito a vuoto un paio di volte, si era messo a balbettare imbarazzato che sì, se lui lo avesse voluto, se non pensava fosse troppo presto, se non gli scocciava traslocare di nuovo, non gli sarebbe dispiaciuto vivere insieme, come una coppia.
La prevedibile reazione del più giovane, che come da manuale lo aveva preso per mano e guidato fino alla camera da letto – da perfetto padrone di casa, oltretutto – aveva impedito a Mika di fermarsi un attimo e pensare lucidamente a ciò che quel piccolo passo significava. Si era reso conto solo la mattina successiva, svegliandosi beato tra le braccia del compagno con le lenzuola nuove attorcigliate tra le gambe.
Ovviamente era andato nel panico.
E se era troppo presto? E se avessero finito per litigare ogni giorno? E se il suo lavoro lo avesse trascinato non-stop in giro per il mondo e non fosse riuscito a tornare a Londra quanto avrebbe voluto? E se nel frattempo la distanza lo avesse indotto in tentazione? Come sarebbe potuto poi tornare a casa, a casa loro, e far finta di nulla?

Prendendosi la testa tra le mani e respirando profondamente nel freddo notturno del suo soggiorno, Mika cercò di fare chiarezza in quel caotico marasma di ricordi, sensazioni e ricordi di sensazioni che gli si agitavano nel petto e nella mente.
Lui amava Andy. Giusto?
Il concetto di amore gli sembrava così vuoto e finto, in quel momento. Non si trattava piuttosto di blando affetto, dettato dall'abitudine? O di staticità e pigrizia nel cercare qualcosa di nuovo, diverso ed avventuroso? Paura di rischiare, forse?

A notte fonda, seduto sul divano in agitazione e in preda ai sudori freddi, il giovane si rese conto che sì, tra tutte le emozioni che aveva provato nell'ultimo periodo, la paura era senza dubbio la più intensa.
Non paura del rischio, però. Puntando uno sguardo cieco verso il camino, dove – nonostante il buio pesto – sapeva si trovasse una vecchia foto di lui e Andy che sorridevano con gli occhi persi l'uno in quelli dell'altro, Mika capì che era paura dell'amore, la sua.
Era spaventato dall'idea di non essere davvero innamorato del greco, che per 3 anni la sua fosse stata solo un'illusione; il disperato bisogno di riempire un vuoto, colmato alla meno peggio dall'affetto che il giovane cameraman, disponibile e a portata di mano, aveva da offrirgli. Magari non era quello l'amore, magari il suo cervello aveva fatto tutto da solo, per mero istinto di sopravvivenza, per compensazione o per reazione chimica e biologica di due corpi attratti dal primordiale istinto animale di accoppiamento. E pensare che erano arrivati a quel punto, la convivenza, nodo focale di ogni rapporto adulto e maturo, semplicemente "frequentandosi e vedendo dove andava a finire". Perché, all'inizio di quella relazione, Mika non avrebbe scommesso un solo scellino sul loro futuro come coppia. Anzi, credeva che non avrebbero resistito neanche un paio di mesi, finendo per rendere le lunghe settimane di tour in giro per il mondo, imbarazzanti per tutta la crew. E invece, giorno dopo giorno, litigata dopo litigata, erano ostinatamente andati avanti, come se l'Universo cercasse di vincere un'infantile battaglia contro un pronostico che si era pronunciato sfavorevole. Forse aveva sprecato 3 anni della propria vita senza nemmeno saperlo, e ora si era intrappolato con le sue stesse mani in una casa troppo grande per uno, ma troppo piccola per due.

Ma, se questa possibilità lo spaventava, l'idea che invece il loro amore fosse concreto e reale... lo terrorizzava a morte.
Perché in quel caso tutte le frecciatine assolutamente involontarie, tutte le supposizioni lasciate in sospeso a riempire l'aria in modo assordante, tutte le conseguenze tanto scontate da non necessitare un'esplicitazione: era tutto fondato su solide basi, pronto ad avverarsi.
Se davvero era innamorato di Andy, il loro futuro era lì, scritto nero su bianco, senza possibilità di revisione. Ed era tutto così incredibilmente opprimente...
L'idea di tornare in quella stessa casa, ora immersa nel silenzio e nella cupezza più totale, ogni giorno per i prossimi 50 anni; dormire ogni notte nello stesso letto, con la stessa persona, vedendola invecchiare ed appassire di minuto in minuto e nel frattempo tenere puntato un occhio ansioso alle lancette che giravano e giravano, una lentissima tortura che finiva troppo in fretta, finché la morte non fosse venuta puntando il suo dito scheletrico e tutto fosse finito.

Il respiro gli si mozzò in gola, rendendogli impossibile la respirazione e facendolo tremare come una foglia.
Si sentiva chiuso in gabbia, con il peso di aspettative troppo alte a gravargli sulle spalle e un senso di oppressione che rendeva vana ogni profonda boccata d'ossigeno che incamerava nei polmoni, in un tentativo di calmarsi.
La testa gli girava, attraversata da milioni di domande che sembravano correre come treni, da una sinapsi all'altra, senza che il suo cervello potesse fermarle quell'attimo necessario per essere processate e capite appieno.
Era davvero quello che doveva aspettarsi? Avrebbe passato il resto della vita con Andy, come tutti sembravano aspettarsi da loro? E lui, lo voleva davvero? Sarebbe riuscito a sopportare il peso di un impegno così importante, dopo aver troncato negli anni più di una relazione che si stava facendo troppo seria, troppo in fretta? Lui che, mordace, determinato e combattivo nel lavoro, rifuggiva da ogni rapporto sentimentale, annichilito dall'idea di impegnarsi a fondo e di mostrarsi totalmente nudo e vulnerabile con qualcuno?
In più, a quel garbuglio indistricabile di pensieri, andavano unite la rabbia e la paura provate la notte dell'incidente di Paloma, che ancora gli rimbombavano nelle orecchie, pulsando e ribollendo nel sangue. Il sordo terrore che la sua situazione medica, appena uscita dalla zona di massima gravità ma pur sempre precaria, potesse avere una brusca ricaduta; e quel fastidioso formicolio alle estremità degli arti, la frustrazione di non poter fare nulla per aiutarla, neanche volendo.
Si sentiva come murato vivo nella sua stessa vita, con la pietrificante sensazione che questa si restringesse ogni secondo di più, fino a schiacciarlo definitivamente.
Il suo incubo si era trasformato in realtà.

Mika non era più neanche certo che un solo essere umano potesse provare così tante e svariate emozioni, tutte in una volta, con quell'intensità. Ogni giorno di più si sentiva sopraffatto e non sapeva come uscirne. Solitamente sarebbe ricorso alla musica ma, e forse era la cosa peggiore, l'ispirazione – la sua unica scialuppa di salvataggio in caso di emergenza – lo aveva abbandonato a sé stesso in un mare in tempesta. Se lui, un artista che era sempre rimasto a galla appigliandosi alla potenza della musica, non riusciva a prendere il meglio di una brutta situazione e farlo proprio per potersi salvare... nessun altro poteva farlo.
In quella poderosa corrente di disfacimento che stava trascinando giù con sé tutto ciò a cui più teneva, Mika si era reso conto di non sapere più chi fosse.
Cercando di salvare tutti gli altri, era finito con il perdere sé stesso.

Aveva bisogno di andare via, lasciarsi tutto alle spalle, arrampicarsi da solo fino alla cima più alta e, liberandosi di quel peso che gli schiacciava i polmoni come una pressa, ricominciare a respirare.
Fu con questi pensieri che, le mani che si muovevano autonomamente senza che il cervello ancora stordito potesse controllarle, Mika afferrò il portatile abbandonato sul divano la sera prima e, fingendo di ignorare le terribili, distruttive conseguenze della sua insensata avventatezza, prenotò il primo volo disponibile – sola andata – per il posto più lontano che gli venisse in mente in quel momento: Montrèal.









Hello EFP, my old friend.
I've come to bother you again.
Ora la smetto.
Ho questa storia chiusa nel cassetto da mesi e mesi, mi ci ero in qualche modo "affezionata" ma non so, non sono mai stata pienamente convinta di pubblicarla.
In realtà neanche adesso lo ero al 100%; diciamo che una storia recentemente pubblicata -per la precisione "Without You" di _leon_ (se non l'avete letta, fatelo perchè merita e date anche il benvenuto ad una nuova autrice)- mi ha dato quell'imput che mi mancava e mi ha fatto venir voglia di postare questa cosa.
Ovviamente il tema (scrivere su questo argomento è una sorta di tappa obbligata) è sempre la solita, discussissima fuga di Mika a Montreal. 
Ho voluto raccontare un piccolo scorcio della sua situazione emotiva e psicologica (totalmente inventata ovviamente, prendendo spunto da quello che dice) in quel momento così difficile.
Credo sia abbastanza diversa dalle storie che scrivo di solito, più introspettiva e in un certo senso più "violenta" e diretta, cercando però di non essere troppo specifica e "invasiva" riguardo l'incidente di Paloma perchè, insomma.. non mi andava.
Nulla, io continuo ad avere riserve su questa storia e fa quasi strano pubblicarla per davvero, soprattutto dopo tutto questo tempo; ditemi voi cosa ne pensate c:
Bye xX
  
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