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Autore: Bloody Alice    14/04/2016    2 recensioni
| Prima Guerra Mondiale | Angst | Two!Shot |
Si chiama anima del violino.
Un oggetto che, a sentire questo nome, fa pensare a qualcosa di grande, qualcosa che in un violino si nota subito, che è sotto gli occhi di tutti.
Ma l’anima del violino è solo un listello cilindrico di sei millimetri all’interno dello strumento: è fatto su misura, non è incollato. Eppure è a dir poco fondamentale per ottenere il suono migliore.
Sbagli di un millimetro ed è fatta, è la fine.
L’anima del violino è qualcosa di cui nessuno si accorge, ma è indispensabile affinché tutto funzioni per il verso giusto.
Genere: Angst, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quattro anni possono essere tutto o nulla. In quattro anni puoi riuscire ad incontrare qualcuno e finire per conoscerlo meglio delle tue tasche, oppure puoi trovarti davanti uno sconosciuto e far sì che rimanga tale anche senza che tu te ne accorga.
Per quattro anni.
E qui c’è chi si starà chiedendo come fai a parlare con uno sconosciuto per quattro anni. Non lo so nemmeno io, in realtà, sta di fatto che è accaduto.
Ma sì, non prendiamoci in giro, dimenticatevi tutte quelle cazzate degli amici inseparabili che si intendono con uno sguardo. Di Niccolò, tirate le somme, non sapevo nemmeno il nome – che doveva iniziare per R, o forse per A, e Dio non sa nemmeno quanto pagherei per scoprirlo, adesso.
Quanto pagherei per scoprire anche solo una delle cose che giravano per la testa di quel ragazzo. Ci ho sbattuto la testa per anni, ma tutto ciò che ho è solo una manciata di congetture, degli appunti scarabocchiati su un taccuino consunto e una tremenda emicrania.
Ma dovete pur capire che non è facile comprendere cosa cercasse dalla vita un violinista che preferiva mettersi a suonare sotto un temporale, invece di starsene a casa tranquillo.
Il punto è che non mi va giù che sia finita così. Che io sia stato cacciato nella lista di quelli che han la nebbia davanti agli occhi ogni giorno, che non riescono a cogliere nulla.
Eppure continuo a non avere molto se non timide idee e un’unica teoria un po’ meno ridicola delle precedenti.
A costo di apparire scontato, è possibile che in fondo Niccolò non volesse qualcosa di troppo complesso, che non pretendesse la luna, ma qualcosa di molto più semplice.
Forse l’avevo già intravisto, nei suoi occhi, ma non mi ero soffermato più di tanto, preso com’ero dal suo violino. A rifletterci un po’, però, poteva essere davvero l’indizio per risolvere il rompicapo.
Lo scintillio che c’era nel suo sguardo, quando mi parlava non tanto della musica, ma del suo amore per la musica e sembrava davvero che volesse dirmi “Vorrei solo essere amato come la mia musica, per Dio. Ho bisogno d’amore, amore, amore. E qualcuno che mi faccia sentire giusto, perché il mondo non mi par fatto per me”.
Ma non serve a nulla giungere a questa conclusione dopo quarant’anni, dovevo mettermi d’impegno prima, ed evitare tutto il resto, tutto lo schifo che è venuto dopo.
Che poi, da qualsiasi parte la possa girare, non vorrei che pensaste che la colpa fosse anche del violino.
Il violino, lui, mica aveva fatto qualcosa di male, sono state le persone ad aver sbagliato, sono sempre le persone. La musica di quello strumento avrebbe solo fatto miracoli, con Niccolò, ma esiste chi deve sempre rovinare tutto.
A tornare indietro, mi rimangerei centinaia di azioni, ma non quella frase.
Oh Dio, fa che non smetta mai di suonare, ti prego. Anche se poi l’ho pensata nei momenti più sbagliati fra tutti, davvero i peggiori, ma non riesco a rimangiarmela, perché fare musica era ciò che Niccolò era destinato a fare - ciò che avrebbe continuato a fare, se non esistesse chi deve sempre rovinare tutto.
Ricordo che Shakespeare scrisse “Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte” e io sono pienamente d’accordo.
E la parte di Niccolò era quella, lo era sempre stata, era scritta, impressa a fuoco sul libro del fato. Anche se a lui un po’ non piaceva quando tiravo fuori questa storia, che lui era destinato a prendere in mano un violino.
Diceva che «Nessuno è padrone di se stesso.», perché gli piaceva da morire Seneca – che chissà dove lo aveva studiato, non glielo chiesi mai – però lui voleva mandare al diavolo anche la massima del suo autore preferito e dire che lui, Niccolò, sarebbe riuscito a prendere la vita e farla sua.
A far sì che fosse vita vera e non solo tempo, a decidere quando era ora di iniziare cosa.
E quando era il momento giusto per finirla.
Tutto ciò che scriveva era un forsennato amore non corrisposto nei confronti del mondo.
Perché di certo il mondo non poteva amarlo, era sempre così per i geni: la Natura ti dà l’intelligenza e una sensibilità fuori dal comune, con cui puoi ribaltare il mondo dico io, rivoltarlo da dentro per davvero, ma questa tua capacità diventa anche la tua condanna.
La Natura non ti permette di essere geniale e felice. Evidentemente qualcuno deve averlo scritto di fretta da qualche parte, nel margine di una pagina, tra le regole del gioco, solo che si è dimenticato di farlo vedere da subito agli uomini, per non farli cadere dalle nuvole all’improvviso, per far sì che non si schiantino.
Alla fine se non impari questo dalla vita, finisce che la vita stessa ti fa schiantare con il naso contro il muro della realtà, tutta la realtà in una volta.
Lo capii davvero solo quando ormai era troppo tardi.
Perché sapete, quando è così, quando il mondo è in guerra e la morte ti bussa alla porta ogni mattina, per cambiare qualcosa qualcuno deve sempre pagare. Innocente o meno, deve pagare.
Ed il conto è sempre salato.


Il 28marzo 1918 la neve era arrivata in punta di piedi, candida, picchiettando lievemente alle porte della case quasi a voler chiedere permesso: fiocchi cadevano ora placidi ora impazziti, prima lenti come una discesa d’angeli poi turbinanti, quasi volessero travolgere e spazzare lontano ogni solitario passante, ogni esile lampione.
In tempo di guerra, che piova, che si metta a nevicare o persino grandinare, la fuga di notizie non si ferma, e non si era fermata nemmeno quel giorno.
Sono arrivate notizie dal fronte, altri soldati sono morti nella settima divisione.
Vogliono bombardarci. Vogliono distruggere Ypres per arrivare a Parigi. I tedeschi arrivano.
La settima divisione.
Corsi quasi a perdi fiato, con una tempesta che imperversava nella mia mente. Quando giunsi al parco, scorsi Niccolò accartocciato sotto la statua, nessuno gli era intorno, perché non aveva il violino tra le mani. Lo strumento era abbandonato sul gradino inferiore rispetto a quello su cui era seduto il proprietario, che stringeva tra le mani un pezzo di carta stropicciato.
Ecco, pensai, ci siamo, è fatta.
Niccolò si era accorto della mia presenza, ma non disse una parola per molto tempo ed io non avevo il coraggio di fiatare, però nella mia testa maledissi la guerra più e più volte, poi il violinista mi guardò.
«È arrivata oggi.» dichiarò lapidario «Però … forse l’avevo già capito. Una suora, all’orfanotrofio, diceva sempre che lo senti, quando chi ami davvero va in paradiso».
Mossi un passo verso Niccolò: lui si accartocciò ancora di più, con le gambe premute sul petto e le dita affusolate che stringevano il telegramma come se volessero stracciarlo, eliminare ogni prova della sua esistenza dal mondo, eliminare anche il fatto accaduto.
Ero certo che lo desiderasse con tutto se stesso.
«Io avrei voluto non innamorarmi così tanto.» mormorò, chiudendo gli occhi «Non so che fare…».
«Forse, ti aiuterebbe provare a rifugiarti nella musica del violino» tentai, ma Niccolò alzò di scatto la testa, con gli occhi rossi di lacrime versate ridotti a fessure «Non voglio suonare quel coso.» sibilò. Si alzò e fece per andarsene, ma raccolse comunque il coso da terra – perché era un suo regalo e per questo non riusciva ad odiarlo davvero.
Dopo qualche passo si voltò verso di me. «È solo che... credo di aver perso tutte le note.» lo disse con il tono di chi non ammette repliche, né tanto meno consolazioni, dopo di che si incamminò fuori dal parco, senza nemmeno rivolgermi uno di quei sorrisi malinconici.
Fu allora che capii che qualcosa doveva essersi spezzato.
 


Rividi Niccolò solo pochi attimi prima che l’inferno si scatenasse, un paio di settimane dopo. Era sul marciapiede, con il violino tra le mani, mentre intorno a lui le persone scappavano.
Stanno per bombardare la città, chi resta qui è morto.
Mi feci largo tra la folla e lo raggiunsi, ci separavano pochi passi. «Che stai facendo?!» gli urlai contro.
«Ho trovato le note e voglio suonarle…» sussurrò.
«E le vuoi suonare qui?! Ora?! Sei pazzo, stanno per bombardarci, vieni via con me, troviamo un rifugio, suonerai lì!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola, per sovrastare le sirene.
Mi sporsi verso Niccolò, allungando un braccio per afferrarlo e portarlo al sicuro, ma lui si ritrasse, quasi come se, toccandomi, avesse potuto scottarsi.
Passai lo sguardo da lui al suo violino e rimasi a fissare lo strumento, quasi disperato.
Non si trattava più di trascinare un pazzo in un bar per metterlo al riparo da un acquazzone. Si trattava di convincere un ragazzo a non rimanere nel mezzo di un bombardamento, ma non me ne ero reso conto. Le sirene mi perforavano i timpani, mi impedivano di ragionare.
Oh, Dio, fa che non smetta mai di suonare, ti prego. Non riuscii a formulare altro pensiero, nemmeno quando Niccolò mi chiamò per nome.
Una, due, tre volte, ma la mia mente era bloccata sullo strumento tra le sue mani.
«Guardami, ti prego.» mi supplicò. Alzai appena gli occhi, per un attimo, poi tornai ad osservare il violino. Lo sentii sospirare.
«Non posso venire, spero che prima o poi riuscirai a capirlo.» mormorò «Mi dispiace che questo latente noi sia durato così poco. Sai, per un attimo mi aveva dato un po’ di forza in più».
Chiusi gli occhi, feci un passo indietro.
Invincibile, è lo scrittore sulla carta, nulla gli sfugge e tutto si trasforma per il suo volere, per il suo più stupido capriccio. Ma lì non ero Dio, lì non c’era nessuna frase che potessi cancellare, nessun pensiero che potessi riformulare affinché mi garbasse.
Ero impotente, piccolo, e nella mia piccolezza non riuscii a compiere altro gesto se non l’azione codarda di voltarmi, con i miei timpani impazziti per il suono della sirena, e prima camminare e poi correre lontano.
E non mi voltai una volta. Non ci provai nemmeno.
Non ci avevo mai provato, a voltarmi, a guardare oltre il mio stupido naso, oltre quello stupido violino.
Tremava anche la terra stessa quando sentii per l’ultima volta il violino scheggiato e la persona che lo accarezzava con l’archetto.
Era una melodia che sovrastava anche il frastuono delle bombe e sembrava fosse lei a far rabbrividire l’asfalto, i lampioni, gli edifici, e per la prima volta non erano le emozioni di qualcun altro.
Era qualcosa di triste, anzi disperato, disperato da morire, e veniva dai recessi più oscuri dell’anima di Niccolò, era qualcosa che non aveva mai provato a suonare.
Qualcosa che aveva riservato, senza nemmeno saperlo, per il gran finale.
 


Muore giovane chi agli dei è caro. Non l’ho detto io, l’ha scritto un tale.
Si chiamava Menandro, forse, non lo ricordo. Ma ricordo che la frase era all’inizio di una poesia di Leopardi ed era in greco. La professoressa ce l’aveva fatta imparare a memoria, perché aveva una fissa strana per la Grecia, oltre che per Leopardi. Avevo dimenticato la maggior parte delle cose che riguardavano la scuola, ma quello no.
Muore giovane chi agli dei è caro.
Dio a quanto pare voleva così bene a Niccolò che aveva deciso di portarlo via che lui ancora non aveva compiuto ventinove anni, pochi mesi prima della fine di quello schifo.
All’inizio ero arrabbiato, con Dio, ma poi mi sono detto che era tutta quanta una cavolata.
Non era stato Lui a prendersi Niccolò, semplicemente Niccolò stesso aveva deciso che era il momento, che non aveva più note per il suo violino, perché le aveva già usate tutte.
Si dice che ci si accorge di quanto si tiene ad una persona quando la si perde, ma io non me n’ero accorto per anni.
Quando tutto quello schifo finì mi resi conto di aver rimpianto solo la musica di Niccolò, che alla fine invero non ero stato amico suo, ma della sua musica, che quel noi non era mai esistito davvero, da parte mia. Avevo infranto la promessa ancor prima che iniziasse ad esistere.
Mi ero illuso di aver capito come fosse realmente Niccolò, di aver raggiunto il medesimo traguardo della persona da lui amata, ma avevo sbagliato. Avevo sbagliato di grosso, come tutti gli altri, e Niccolò lo sapeva.
Non sarebbe mai rimasto in mezzo alla strada se avesse visto in me qualcuno capace di comprenderlo come la persona che amava, se avesse visto in me qualcuno con cui era possibile ricominciare da zero, di nuovo, tutto d’accapo, con cui era certo di potersi gettare nel baratro.
Si sarebbe trovato un rifugio con me, e quella melodia non sarebbe stata il suo addio al mondo.
Ma aveva capito che non poteva fare una cosa simile, si era convinto che non ci sarebbe più stato qualcuno capace di amare lui e non la sua musica, che non esistevano altri in grado di vedere l’anima del violino, di scorgere un particolare così piccolo.
Aveva capito che se si fosse spinto più in là, per un motivo che non comprendo, la sua vita sarebbe divenuta solo tempo e nient’altro, come quella di tutti gli altri.
Il mondo sarebbe cambiato e Niccolò e il suo violino scheggiato non erano pronti.
I violinisti comuni facevano musica, lui qualcosa di diverso. Qualcosa che non esisteva, che Niccolò estraeva dal cappello a cilindro all’improvviso e ti toglieva il fiato.
Speravo avrebbe continuato a soffocarmi per sempre.
Ma la Natura non ti permette di essere genio e felice.
Per questo l’anima del violino era caduta.



 




 
   
 
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