Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: TimeFlies    16/04/2016    4 recensioni
Scarlett, diciassette anni appena compiuti e un segreto piuttosto scomodo da nascondere, non potrebbe essere più felice di stare nella sua adorata ombra, lontana da sguardi indiscreti e da problemi presenti e passati che non vuole affrontare.
Adam, riflessivo eppure anche avventato, ha sempre avuto un'innata curiosità e una gran voglia di sapere.
Quando vede Scarlett per la prima volta non riesce a fare a meno di sentirsi attratto dall'aura di mistero che la circonda. Vuole conoscerla, svelare ciò che si nasconde dietro quella facciata di acidità e vecchi rancori.
Tutti i tentativi della ragazza di allontanarlo da sé finiranno per avvicinarli ancora di più portandoli dritti ad un preannunciato disastro. O forse no, perché nei momenti di difficoltà possono nascere le alleanze più impensate, soprannaturale e umano possono trovare un punto d'incontro.
E quando il pericolo si avvicina, l'unica cosa che vuoi è avere qualcuno al tuo fianco. Poco importa se solo poco prima eravate perfetti sconosciuti, se lui è entrato nella tua vita con la grazia di un uragano, se non volevi niente del genere.
A volte, un diciassettenne un po' troppo insistente è tutto ciò che hai, è la tua unica speranza. E tu la sua.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Under a Paper Moon- capitolo 25


                                                         

                                                    Image and video hosting by TinyPic

 




25. Scarlett

Sollevai lentamente le palpebre non senza una certa fatica.
La prima cosa che mi passò per la mente fu il dolore: mi sembrava che mi fosse passato sopra un autobus. Avevo tutti i muscoli irrigiditi e contratti per essere stati costretti a lungo nelle stessa posizione. Restava da capire quale posizione.
Cercai di tornare completamente lucida nonostante un mal di testa lancinante che lo rendeva piuttosto difficile. L’ambiente in cui mi trovavo era buio e umido; la superficie sotto di me era fredda e dura, sembrava cemento o qualcosa del genere. L’unica fonte di luce era qualcosa sopra la mia testa, piuttosto in alto, ma non riuscivo a capire cosa fosse: era tenue, flebile, chiara.
Quando riuscii a recuperare un po’ di senso dell’orientamento mi resi conto che ero sdraiata su un pavimento ruvido e sporco, di un colore grigio smorto. Ed ero piuttosto sicura che non fosse dove dovevo essere.
Posai le mani a terra e provai a fare forza sulle braccia per mettermi seduta con l’unico risultato di scatenare una fitta di dolore all’altezza del fianco destro. Mi lasciai sfuggire un gemito sorpreso: non ricordavo di essermi fatta male, né di essere caduta. Però non ricordavo neanche di essere mai entrata in quella stanza così claustrofobica. Che stava succedendo?
Mi portai una mano al fianco apparentemente ferito e trasalii, sia per il dolore che per la sensazione di avere qualcosa di bagnato e viscido sulle dita. Abbassai lo sguardo sentendo il mio cuore accelerare. E vidi rosso, letteralmente: la mia mano era sporca di sangue, lucido e fresco.
«Oddio…» Mormorai sentendo crescere il panico.
Il mio respiro si fece spezzato, affannoso. Improvvisamente mi tornò in mente tutto: la vista a sorpresa di Miles, il mio scatto di rabbia, la mia fuga causata dalla frustrazione, quei tre ragazzi strani e armati… E il colpo di pistola.
“Mi hanno sparato?”, pensai frastornata dall’assurdità di quella situazione: che c’entravo io con quei tre pazzi che si divertivano a girare con un negozio di armi addosso? Cosa volevano da me? Dov’ero?
Faticosamente riuscii a tirarmi su a sedere appoggiando la schiena al muro e trasalendo per il dolore al fianco. Davanti a me c’era un corridoio buio e vuoto. A dirla tutta, e me ne resi conto solo dopo qualche secondo, prima del corridoio c’erano delle sbarre di metallo, spesse e dall’aria vissuta. Ero in gabbia.
Un terrore gelido e prepotente si fece strada in me lasciandomi senza fiato. Deglutii a vuoto sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Mi coprii la bocca con la mano per soffocare un singhiozzo: odiavo piangere, cercavo di non farlo mai. Qualcosa mi diceva che in quel momento potevo anche permettermelo, in fondo potevo essere vicina alla morta, un pianto sarebbe stato liberatorio, persino giustificato. “No”, mi rimproverai, “niente lagne”.
Dovevo andarmene di lì, non perdere tempo a compiangermi. Appoggiai i palmi contro il muro alle mie spalle e cercai di nuovo di fare forza sulle braccia per alzarmi in piedi. Appena mi sollevai da terra, però, le gambe cedettero e una nuova fitta di dolore mi attraversò il corpo facendomi boccheggiare. Era normale che un colpo di pistola facesse tanto male? Insomma, i licantropi guariscono in fretta, la ferita doveva già essersi rimarginata…
Quanto ero stata priva di conoscenza? Ore? Giorni? O solo minuti? Poi una verità agghiacciante e terribilmente ovvia si fece strada nella mia mente: il proiettile poteva ancora essere… dentro di me. Questo avrebbe spiegato il dolore persistente e il fatto che la ferita non fosse guarita. Un moto di nausea mi strinse la gola. E adesso? Non potevo sperare di fuggire con un pezzo di metallo nel mio corpo. Ma non potevo neanche restare lì, alla mercé di quei tre pazzi. Chissà dov’erano in quel momento…
«Ti sei svegliata finalmente.» Borbottò una voce maschile.
Sollevai lo sguardo e il biondino che mi aveva aggredita era dall’altra parte delle sbarre. Era vestito come l’ultima volta che l’avevo visto, quindi doveva essere passata solo qualche ora da quando avevo perso i sensi.
Mi studiava con aria strana, come se fossi stata chissà quale creatura esotica. C'era anche un'ombra in fondo ai suoi occhi nocciola. Quella sua espressione incuriosita mi fece venire voglia di mollargli un calcio.
Fece un passo indietro e richiamò qualcuno con un cenno. Rumore di passi, grugniti, nuovi respiri e due grossi uomini tarchiati affiancarono il biondo. Avevano entrambi i capelli scuri tagliati molto corti e la barba ispida. Indossavano pantaloni militari, vecchie magliette scolorite e anfibi dall’aria consumata. Senza sapere il perché, osservai distrattamente i miei jeans, ora sporchi e strappati, pensando che, per una volta, ero quella vestita meglio.
Il biondino tirò fuori delle chiavi dalla tasca della giacca e aprì la serratura della mia cella. La mia mente elaborò velocemente un piano di fuga in stile scatta-colpisci-corri, ma il mio corpo mandò in frantumi quella possibilità riversandomi addosso altro dolore, che si propagava dal fianco ferito e risaliva fin quasi a stordirmi.
Il biondo fece un altro cenno ai due uomini che entrarono nella cella e mi vennero incontro con aria minacciosa. Istintivamente, mi schiacciai contro la parete mentre l’istino preparava gli artigli a spuntare: anche se fisicamente non ero in grado di farlo, non mi sarei arresta tanto facilmente, avrei lottato con le unghie e con i denti. In modo piuttosto letterale.
«Più ti ribelli e più sarà difficile. Più che altro per te, ma anche per noi sarà una scocciatura.» La voce del biondino suonava atona, come se avesse imparato le parole a memoria ma non gli importasse di quello che significavano.
Mentre i due uomini coprivano la poca distanza che ci separava, lui mi studiava di sottecchi. Sembrava essersi incupito.
Quando i suoi amichetti mi furono di fronte, si chinarono e mi afferrarono ciascuno per un braccio. Mi strattonarono in piedi senza che potessi fare niente per fermarli: il dolore si riversò dentro di me come un fiume in piena mozzandomi il fiato e annebbiandomi la vista.
«Sanguina.» Commentò uno dei due uomini.
“No, ma davvero?”, pensai ironica nonostante fossi mezza svenuta.
«Capita alle persone a cui sparano.» Replicò il biondo da un punto imprecisato davanti a me. Il suo tono sembrava stanco, quasi avesse voluto essere ovunque meno che lì.
L’uomo rispose con un mugugno infastidito e non aggiunse altro. Insieme all’altro, mi trascinarono in avanti e poi fuori dalla cella. Non erano per niente delicati, sentivo ogni scossone come raddoppiato e continuavo ad inciampare nei miei stessi passi. Da una parte volevo prenderli a pungi, tutti e due, tre contando il biondino, ma, nello stesso tempo, stavo lottando contro me stessa per non cedere alla nausea quindi una rissa era fuori questione. I due uomini si fermarono e per un attimo la terra sembrò aver cominciato a girare al triplo della velocità normale. Poi si fermò di colpo e riuscii a mettere a fuoco, più o meno, il ragazzo davanti a me. O meglio, i suoi stivali.
«Che ne facciamo di lei?» Chiese uno dei gorilla aggrappato al mio braccio.
«Il capo vuole vederla.» Rispose il biondo. «Portatela nella stanza numero 3.»
“Non suona bene…”, pensai, “ma neanche malissimo”. E chi era questo capo? Il ragazzo che mi aveva sparato? Si era comportato come se fosse stato superiore ai suoi due compagni quella mattina quindi poteva essere lui. Restava da capire cosa potesse volere da me.
I due uomini annuirono e ripresero a trascinarmi lungo il corridoio con la loro solita grazia paragonabile a quella di un elefante zoppo. La lucidità andava e veniva, così come la vista: uno scontro era impensabile in queste condizioni. Se ci aggiungiamo il fianco ferito potevo tranquillamente dire che non avevo la minima possibilità di difendermi.
Avrei voluto dire qualcosa, chiedere spiegazioni magari, ma respirare mi costava un sacco di fatica, ogni boccata d’ossigeno era preziosissima e sprecarne, anche se fosse stato per cose importanti, mi sembrava da pazzi.
Continuarono a trascinarmi, passo dopo passo, metro dopo metro, fino a fermarsi davanti ad una porta di legno chiaro con la maniglia d’acciaio. Un grosso 3 campeggiava sulla superficie liscia. I miei due accompagnatori spalancarono la porta e, senza tante cerimonie, mi scaraventarono dentro.
Sbattei contro il pavimento lasciandomi sfuggire un mugolio di dolore accompagnato da un’imprecazione che avrebbe fatto impallidire persino la mia prof di matematica. Grazie al cielo ero atterrato sul fianco buono quindi non fu poi così devastante. Sentii l’impatto con il pavimento propagarsi in tutto il corpo, ma riuscii a tenere duro. In effetti, devo ammettere che credevo sarei svenuta.
«Mmh… Sei parecchio giovane.» Disse una voce maschile da qualche parte nella stanza.
Tossii alla disperata ricerca d’aria e provai a sollevarmi sulle braccia mentre il fianco ferito protestava pulsando di dolore. Strinsi i denti, ma non riuscii comunque ad alzarmi. Dopo qualche altro tentativo, che mi lasciò ansimante e madida di sudore, decisi che dovevo optare per qualcosa di più semplice: mi girai sul fianco buono puntellandomi sul gomito per essere un po’ sollevata da terra.
Sbattei le palpebre e riuscii a guardarmi intorno: davanti a me c’era un tavolo di legno scuro con due sedie, una di fronte all’altra, come nelle sale interrogatori dei telefilm polizieschi. E, dall’altra parte, le gambe di un uomo fasciate da jeans scuri. Era stato lui a parlare. Era lui il capo di cui parlava il biondino?
Si spostò fino a trovarsi davanti a me si inginocchiò per avere il viso alla stessa altezza del mio. Sussultai sorpresa e impaurita, mia malgrado. L’uomo aveva i capelli neri tagliati corti, un accenno di barba sulla mascella, gli occhi grigi e l’aria severa. Teneva le labbra strette in una linea dura e impassibile. Era così vicino a me che sentivo il suo respiro sfiorarmi la pelle. Mi faceva venire i brividi.
Dopo avermi osservata per qualche secondo, sospirò e si alzò. Si mise a camminarmi davanti con le mani intrecciate dietro la schiena, come se stesse riflettendo. «Sai perché sei qui?» Domandò senza degnarmi di uno sguardo.
“Perché siete tutti dei pazzi furiosi?”, pensai cercando di costringermi a respirare con regolarità. Quando l’uomo tornò a guardarmi, in attesa di una risposta, scossi piano la testa, cauta.
Lui aggrottò la fronte e trasse un respiro profondo. «Vogliamo delle informazioni da te.» Aggiunse continuando a camminare.
Evidentemente non aveva mai sentito parlare di cose come le conversazioni o le domande: non doveva mica rapirmi per parlare con me.
«Che genere di informazioni?» La mia voce era roca e flebile.
«Sul tuo branco.» Disse semplicemente.
«Branco?» Ripetei confusa. «Non ho un branco.»
Si fermò di colpo e mi guardò con gli occhi socchiusi. «Come no? I lupi sono animali sociali, sentono il bisogno di stare in branco.»
Cercai una posizione più comoda visto che cominciava a farmi male il gomito. «Beh, io no.»
Sembrò scettico. Inarcò un sopracciglio e sospirò di nuovo. «Chi ti ha morsa allora? A meno che tu non sia nata così.»
Abbassai lo sguardo sul pavimento. «M-mi hanno morsa. Anni fa.»
Che senso aveva mentire? Se avesse anche solo sospettato che stavo nascondendo qualcosa mi avrebbe uccisa, il calcio della pistola che sporgeva dalla sua cintura ne era la prova.
«Chi è stato?» Chiese lui con voce incolore.
Chiusi gli occhi e scossi la testa: rivivere quel momento era più difficile del previsto. «Non lo so. Era buio… Non lo so.»
Dall’uomo giunse un accenno di risata soffocata. «E dovrei crederti?»
Lo guardai, incredula e nervosa. «Sì, è la verità.» Non riuscii a nascondere una nota di disperazione.
Lui si fermò e mi osservò con astio malcelato. «Nessun lupo sopravvive per anni senza un branco o almeno un altro licantropo con sé. È impossibile. Quindi smetti di mentire e di’ la verità: coprirli non servirà a niente.»
«Non sto coprendo nessuno.» Ringhiai: stavo arrivando al limite, dopo la paura, la frustrazione, la sofferenza, arrivava la rabbia, prorompente e bruciante.
Con velocità sorprendente, lui attraversò la stanza e mi afferrò per la maglietta sollevandomi da terra. Una nuova scossa di dolore mi attraversò il corpo annebbiandomi la vista. «Voglio i nomi!» Sbottò l’uomo a pochi centimetri dal mio viso. «Adesso! Altrimenti ti uccido, chiaro?»
Da qualche parte trovai la forza di guardarlo negli occhi, sfidandolo apertamente. «Allora credo proprio che dovrai uccidermi: non ho nessun nome da darti.»
Mi sbatté con forza contro il muro. Gemetti piano, senza fiato, e sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi. Il dolore si era fatto così forte che mi sembrava di essere sul punto di svenire. L’uomo fece per dire qualcosa, ma fu interrotto dal rumore della porta che si apriva. Attraverso le ciocche di capelli che mi erano ricadute sugli occhi, riuscii ad intravedere chi aveva disturbato l’ennesimo pazzo furioso della giornata: si trattava di una ragazza giovane, avrà avuto dodici, tredici anni. Aveva lunghi capelli neri lasciati sciolti sulle spalle, la pelle chiara e gli occhi marroni. Indossava una felpa e dei jeans. Non sembrava neanche lontanamente pericolosa, quindi perché era lì, insieme a tutti quegli aspiranti psicopatici?
«Papà?» Mormorò esitante.
L’uomo mollò la presa di colpo e io ricaddi a terra. L’impatto si riverberò dalle ginocchia fino alle spalle e mi fece sbattere i denti. Ansimai in cerca d’aria e mi rannicchiai su me stessa come se potessi in qualche modo difendermi.
«Denise, che ci fai qui?» Domandò l’uomo in tono sorpreso e teso.
La ragazza spostò lo sguardo su di me per un attimo prima di tornare a guardare il padre. «Io… avevo bisogno di una mano per i compiti.»
L’uomo sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Non potevi chiedere a Nathan?»
«No.» Denise fece una smorfia. «Non lo sopporto quando fa il superiore.»
«Tesoro, io ho da fare. Roba di lavoro…» Replicò lui.
“La roba di lavoro te la do io”, pensai scoccandogli un’occhiataccia dal pavimento. Sì, forse non ero nella posizione migliore, sia in senso metaforico che letterale, ma potevo ancora farmi valere. In qualche modo.
Denise mi guardò di nuovo. «Lei è…?»
Suo padre si spostò di lato in modo da nascondermi alla vista della figlia. «Non è importante. Adesso vai, cercherò di finire in fretta, mmh? Poi vengo ad aiutarti.»
La ragazza annuì anche se non sembrava convinta. «Okay…» Indugiò per un attimo sulla soglia prima di fare un passo indietro e chiudere la porta.
L’uomo aspetto qualche altro secondo, per assicurarsi che se ne fosse andata, prima di voltarsi verso di me. Il suo sguardo tradiva un certo disgusto, come se si fosse trovato davanti un insetto ripugnante.
«Non ho finito con te, sappilo. Ma adesso ho altro da fare.» Ringhiò.
Mi tirai su a sedere ignorando l’ennesima ondata di dolore e ricambiai la sua occhiata piena d’astio. Per un attimo sembrò sorpreso dalla mia sfida, ma si ricompose subito. Attraversò la stanza, aprì la porta e si affacciò. Parlò a bassa voce con qualcuno prima di scostarsi: i miei due accompagnatori spuntarono sulla soglia, impassibili come sempre. Un cenno del capo e mi si avvicinarono.
Mi irrigidii istintivamente, ma sapevo di poter fare ben poco contro due orsi come loro, soprattutto con il fianco che pulsava e la testa che doleva. Mi afferrarono di nuovo per le braccia e mi trascinarono verso la porta. Prima di uscire, però, dovevo fare un favore a me stessa.
Nel momento in cui stavo attraversando la porta, urlai da sopra la spalla: «E, per la cronaca, hai la cerniera abbassata!»
I due uomini si affrettarono a trascinarmi fuori mentre il loro capo mi guardava con gli occhi sgranati e la bocca aperta in un’espressione incredula. Attraversammo il corridoio nella metà del tempo che ci avevamo messo per andare. Il biondino era di nuovo davanti alla porta della mia cella, appoggiato al muro con una spalla, e sembrava quasi sorpreso. Mi osservò con un sopracciglio alzato, come se stesse contemplando un qualche animale esotico. Ma quell'ombra nel suo sguardo c'era ancora.
«È ancora viva, vuol dire che ha parlato?» Chiese spostando lo sguardo su uno degli uomini.
L’interpellato scosse la testa. «Non credo: ad un certo punto è arrivata Denise…»
Il biondo si lasciò sfuggire un verso scocciato. «Oddio, quella ragazzina… Non capisco perché si ostina a tenerla qui: combina solo guai.»
L’altro uomo scrollò le spalle scuotendo anche me. «Sua moglie l’ha lasciato, lo sai, Nathan. Stanno cercando di non farglielo pesare.»
“Quindi è lui il Nathan di prima”, pensai. Il biondino sbuffò e incrociò le braccia al petto e per un attimo mi apparve più giovane di quanto non fosse. I suoi occhi si posarono su di me, esitanti.
Dopo un attimo di tentennamento, sospirò, quasi rassegnato, e fece un cenno col mento verso la cella. «Rimettetela dentro.»
Non se lo fecero ripetere due volte: dopo aver aperto la porta, mi spinsero dentro e richiusero la grata con un tonfo sordo e metallico. Mugolai piano, senza fiato per quell’ennesima ondata di dolore. Le voci dei tre uomini fuori dalla cella si fecero confuse, lontane. Mi sembrava di star fluttuando, come se il mio corpo avesse perso la sua consistenza e il suo peso.
Nonostante l’idea di perdere i sensi di nuovo mi mettesse nel panico e mi sembrasse da ingenui, non riuscii a reggere oltre. Feci appena in tempo a rannicchiarmi su me stessa prima di svenire di nuovo.



SPAZIO AUTRICE: Ehilà!
Prima di tutto volevo dirvi che a Maggio pubblicherò una nuova storia incentrata su un servizio segreto degli Stati Uniti e con molta introspezione. Spero possa interessarvi <3
Passando a questo capitolo, è più breve di quelli che l'anno preceduto, ma ci da una visuale più ampia sui cacciatori che hanno preso la nostra Scar. Cacciano licantropi perché è stato insegnato loro a temerli fin da piccoli e voglio arrivare al branco di Scarlett, anche se lei non ne ha uno. Non ancora almeno.
Vi consiglio di tenere gli occhi aperti, uno dei personaggi che appaiono qui potrebbe rivelarsi diverso da come è apparso. E potrebbe sorprendervi...
Il prossimo capitolo sarà molto più lungo, è sulle 6000 parole circa, in pratica il doppio. Anche se ancora deve passare l'editing, quindi forse diminuiranno un po'.
E niente, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Cosa pensate che succederà adesso? Scarlett scapperà da sola o riceverà un aiuto esterno?

A presto,
TimeFlies
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: TimeFlies