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Autore: Rynarf    16/04/2016    0 recensioni
Rin è originario del Galles da parte della madre e nasce presso Newport, trascorrendovi i suoi primi due mesi di vita assieme alla sorella Eirlys, maggiore di due anni, la genitrice Caron ed il padre Stanley (usualmente chiamato Stan) di nazionalità Americana. A causa di forti diverbi con i discendenti materni, il giovane nucleo familiare decide di trasferirsi nel luogo natale di Stan: New York.
Le annate trascorrono lineari e gaie tra vacanze estive passate dai nonni Gallesi e comuni ricordi di famiglia, sino a quando un susseguirsi di date non comincia a consumare di vite di ogni singolo.
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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21 Febbraio 2010 – New York – 05:38 a.m.



 
 È stato un attimo, un battito di ciglia,
sulla mia destra non vi è altro che un accartoccio di rottami dai quali spuntano ciocche maltrattate, zuppe di cremisi. 
“ Eirlys? Eirlys sei lì? “
Muovo le labbra tremule, ma filo spinato sostituisce l’aria nella trachea per irradiarsi poi nell’ambiente angusto sotto forma di rochi e velati lamenti. 
Trascino il dolente braccio destro verso il presunto luogo ove doveva essere situato il mio più caro famigliare. Il capo rimbomba, rotea in fiamme d’agonia miste all’ancor vivo inebriarsi dell’alcool in corpo. Tasto questa fredda ed umidiccia ferraglia, scruto le estremità delle dita imbrattate da sangue in fase di coagulazione. La mia vista è di un rosso acceso, sfocata e confusa come la realizzazione di ciò ch’era avvenuto prima. Un vociare estraneo aumenta di tono, lì all’esterno del veicolo ci sono delle persone. Per me non hanno volto, farfugliano semplicemente ai telefoni, gesticolano come stessero danzando all’inferno.
Le membra sono un continuo strazio, muovendo il volto pare che le carni dal collo al bacino si dilanino, impossibile spostare le gambe, incastrate al di sotto dell’irregolare abitacolo, maciullate in una pressa anomala. 
“ Eirlys, vieni a darmi una mano … sto soffrendo “, scruto fuori nonostante le palpebre mi si chiudano, senza scorgerla. 
Sono in macchina, questo l’ho afferrato. Perché sono qui dentro? 
È tutto ammassato nella testa come se qualcuno ce l’avesse ficcato di forza, tramite calci o spintoni durante un concerto metal. 
Il respiro fievole mi sa di pesante nella bocca, ha il sapore di cocktail rugginoso. Ho individuato per casualità lo specchietto retrovisore, fracassato e distorto come la sagoma faticosamente messa a fuoco al suo interno: è la mia. Il viso in una maschera di sangue, tumefatto, mostruosamente irreale quanto la situazione attuale. Poi la coscienza vien illuminata da bagliori distanti, blu e rossi, l’udito appannato è straziato da grida acute e meccaniche. Soltanto qualche istante prima di ricadere nell’oblio più totale, riconobbi quelle urla,

non erano null’altro che sirene. 
– 03:36 a.m.

“ - Guidare tu? Pazzoide! Già sei una frana da sobria, figuriamoci ora da ubriaca.
- Sono lucida!
Ma poi ti sei visto allo specchio? Rey, devo guidare io. Non sei di certo messo meglio di me. Rey, ce la faccio ti ho detto.
- Ci farai ammazzare, barcolli come una scimmia funambola. 
- Io sono la maggiore, ho certe responsabilità.
- Gnegnegné! Per una volta scrollati di queste fantomatiche responsabilità! Ho diciannove anni e reggo sicuramente meglio di te l’alcool. Sono solo un po’ brillo, dai! Me la vedo io. 
- … Va bene, unicamente per questa volta. Perché hai ragione, sto davvero male. “ 

Sebbene il tasso alcolico sia superiore alla media e le palpebre le si chiudano placidamente, Eirlys sforza se stessa pur di restare cosciente, lì seduta al lato passeggero. Il capo segue l’ondeggiare della vettura e lo sguardo, fisso dinanzi a sé oltre lo spesso parabrezza, risulta del tutto assente. 
Io ho le mani rigide sul volante e la testa andante verso il relax, nonostante ciò non posso perdere la concentrazione. In precedenza avevo guidato parecchie altre volte, perfino ubriaco, di norma cavandomela anche meglio rispetto allo stato da lucido! Eppure il fatto ch’ella non voglia darmi fiducia, riesce a distrarmi. 
“ - Se devi vomitare ci fermiamo. 
- No, non devo. 
- Okay. 
Perché non provi a dormire durante il tragitto? Sei stanca.
- Sto bene così, Rey. 
Accendi lo stereo, dai. 
- A quest’ora dovrebbero trasmettere roba decente. 
- Mhmh. 
- Lys? 
- Cosa? 
- Rilassati. Stiamo tornando a casa. “
Si lascia convincere, in fine. Coccolata gradualmente da morfeo e cullata da chissà quali sensazioni distorte date dall’alcool. 
È domenica, l’orologio analogico situato al centro del quadro strumenti del cruscotto segna le 04:11 del mattino. La radio ritiene opportuno trasmettere “Sunday Morning “ dei Velvet Underground, tanto per renderci partecipi –o rimembrarci– in quale giorno ed orario stiamo vivendo. Il brano con il suo cullante ritmo ha successo nell’intento di catturarmi la mente, tendo a ridestarmi ogni due o tre secondi per non prender sonno al volante! Carezzo l’idea di accostarci per scongiurare spiacevoli inconvenienti. Il pensiero stava per essere attuato, dunque calai un momento la vista per inserire le quattro frecce; rialzandolo due occhi gialli sbucarono al centro di strada, immobili nello scrutare l’avvicinarsi dell’auto in corsa.
Non distinsi la bestia suicida, ma quelle orbite oculari erano luminose ed accecanti, malevole nella loro innocenza. 
Freno e sterzo non furono un’ottima idea! 
In una frazione di caos intercetto lo sguardo verde di mia sorella, sgranato,
poi buio.
Bellevue Hospital Center (NY) – 19:22 p.m.

Luce. 
Odore di ammoniaca invade le narici aggredendo i polmoni e confondendo i pensieri. Barlumi bianchi ma soffusi, colori tenui ed al contempo glaciali.
Una figura a me ben nota siede cupa di fianco al letto ospedaliero, mantenendo lo sguardo fisso sulla sagoma del proprio figliolo con espressione di resa, senza osservarlo realmente. Batte le palpebre flemmaticamente incrociando poi le nostre iridi, tanto simili quanto diverse, distanti. Corrode l’animo tramite quell’occhiata assente, lustra dal dolore. Prima che potessi proferir parola, terminò di distruggermi usufruendo d'una singola frase: 
“ Hai ucciso mia figlia “.
  
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