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Autore: Blakie    19/04/2016    3 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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and we'll be good 7

And we'll be good
capitolo 7




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Daryl e Aaron tornarono ad Alexandria poco più di una settimana dopo, il mercoledì successivo. Nel tempo che i due reclutatori passarono fuori dalle mura, la mancanza di Daryl e la preoccupazione per la sua sorte mi seguirono dappertutto, costantemente. Eppure, non riuscirono a scalfire nemmeno per un attimo la mia fiducia in lui, la mia speranza, la mia certezza che sarebbe tornato. Che lui e Aaron, insieme, sarebbero tornati.
Mentre Daryl era via, mi scusai con Aiden, con la signora Neudermeyer e anche con la mia famiglia, liberandomi di un gran peso. 

La vita ad Alexandria proseguiva tranquilla: la mia famiglia stava cominciando ad abituarsi alla vita tra quelle mura e ne fui felice. Rick impose a Deanna di stabilire dei turni di guardia in modo da sorvegliare il perimetro dalle torrette, e non solo davanti al cancello. Lei, per calmarlo, acconsentì subito, studiando in fretta un ciclo di turni assieme a Maggie, che era diventata la sua consigliera di fiducia. Insistetti per prendervi parte anche io, perché volevo rendermi utile anche fuori dalle mura. Maggie e Deanna me lo concessero, anche se ebbi tanto l'impressione di aver ricevuto un contentino. Un paio di giorni prima, infatti, avevo avanzato la richiesta di partire con uno dei gruppi che andava a cercare le provviste, ricevendo un rifiuto gentile ma secco da parte di Deanna. Mi fece presente che il mio aiuto era necessario all'interno delle mura, a scuola e in ambulatorio e che i gruppi di ricerca erano già stabiliti e andavano bene così.

Lì per lì, mi arresi, convinta che avrei ritentato. Prima dovevo migliorare la mia abilità con le armi, perciò mi ripromisi di seguire il suggerimento di Noah e chiedere a Daryl, a Carol o a chiunque altro sarebbe stato disposto, di insegnarmi ad utilizzare un'arma al meglio. Dovevo solo aspettare che Daryl tornasse.

Per non sentire troppo la mancanza dell'arciere e non soffrire la solitudine, mi circondai di persone: passai più tempo possibile con Maggie, con Noah e con il resto del gruppo. Raddoppiai il mio turno di insegnante di musica per i bambini, cominciando ad andare il mercoledì e il venerdì, affezionandomi sempre di più a Samantha e ai miei piccoli allievi. Suonare per loro e con loro, insegnargli ciò che mia madre, a suo tempo, aveva insegnato a me e portare un po' di leggerezza nella loro infanzia mi faceva sentire bene. Inoltre, Samantha aveva solo otto anni più di me e questo contribuì a farci diventare amiche. 

Quel mercoledì rimasi a scuola fino al tardo pomeriggio, aiutando Samantha a sistemare i materiali che avevamo usato coi bambini. Le chiesi se, quella sera, le avrebbe fatto piacere cenare assieme alla mia famiglia; accettò di buon grado, ringraziandomi con un ampio sorriso. Era bella, col naso e le guance costellati di lentiggini e una folta chioma di capelli rossi e ricciuti a contornarle il viso. E un'espressione dolce che non la lasciava mai; nessun'altra, nella comunità e fuori, avrebbe potuto fare la maestra al di fuori di Samantha. 

Prima di arrivare da Rick, decidemmo di fare tappa ognuna a casa propria per rinfrescarsi e fare una doccia prima di uscire per cena. Ci ritrovammo davanti a casa mia dopo esserci sistemate e ci incamminammo fianco a fianco, chiacchierando.

Quando arrivai davanti a casa di Rick e gli altri, mi morirono le parole in gola e mi fermai, fissando la persona che stava fumando sotto al portico.

Il cuore iniziò a battere furiosamente nel mio petto molto prima che realizzassi di avere Daryl lì, a pochi passi da me.

Daryl era tornato. Stava bene. Era vivo.

Si accorse di me pochi secondi dopo, ricambiando il mio sguardo con un'espressione indecifrabile. Forse me lo immaginai soltanto, ma mi sembrò che le sue labbra fossero curvate in un piccolo sorriso. Lasciai il fianco di Samantha e corsi sotto al portico, attenta a non inciampare.

«Daryl! Sei tornato!», esultai, parandomi di fronte a lui e sforzandomi in tutti i modi di non saltargli in braccio.

Mentre era via, avevo immaginato molte volte come sarebbe stato rivederci. Nelle mie fantasticherie, solitamente, gli buttavo le braccia al collo e lo stringevo in un abbraccio soffocante, ricambiata e stretta a mia volta tra le sue forti braccia. La realtà fu molto diversa e non seppi spiegarmi perché. Forse dovevo ancora capire fin dove potevo spingermi, con le dimostrazioni d'affetto nei confronti di un uomo così freddo e sprezzante del contatto fisico.

«Te l'avevo detto», rispose, inspirando una boccata di fumo. 

«Stai bene?», domandai, avvicinandomi a lui senza rendermene conto. 

«Mmmh-mmh», annuì, senza scomporsi. 

«E Aaron?», domandai di nuovo.

«Sta bene, sta bene», mi rassicurò, stiracchiandosi in un gesto casuale.

Osservai i suoi occhi, le sue labbra, i suoi capelli, le sue mani, le sue spalle: Dio, quanto mi era mancato. Tutta l'ansia, la preoccupazione e la paura che mi avevano seguita in quei giorni si dissolsero dalle mie spalle, come se non le avessi mai provate.

«È bello rivederti, signor Dixon. Bentornato a casa», mormorai, sorridendogli.

I suoi occhi si legarono ai miei, per qualche attimo, persi in uno sguardo intenso che disse più di mille parole.

Poi sbuffò e guardò da un'altra parte, a disagio. «Quante smancerie», sbottò, buttando la sigaretta ormai finita.

Risi, intenerita, poi mi voltai verso Samantha, che aveva assistito al nostro scambio con un sorrisetto divertito. Ci raggiunse sotto il portico e si presentò a Daryl, che si sforzò di essere gentile. Avevo così tanta voglia di chiedergli di raccontarmi com'era andata là fuori, cosa lui ed Aaron avevano fatto o visto, ma mi sarei sentita in imbarazzo a parlargli così tanto in mezzo agli altri. Io e Maggie non avevamo più discusso l'argomento che ci aveva fatte litigare, ma sembrava che mia sorella stesse accettando l'idea. Mi era stata molto vicina nel periodo di lontananza da Daryl e le fui grata per questo. 

Sentivo il bisogno di stare con Daryl, da soli, perché era solo da soli che riuscivamo a trovarci a nostro agio in reciproca compagnia. Quando eravamo insieme al resto della nostra famiglia, non ci parlavamo molto. Non arrivavamo ad ignorarci, questo no, ma limitavamo le nostre interazioni allo stretto necessario. Non sapevo se Daryl lo facesse per non destare sospetti su di noi - sospetti per cosa, poi? - o per altri motivi. Sapevo solo che volevo assecondarlo, nonostante pensassi che non ci fosse nulla da nascondere. O forse era lui che temeva di far trasparire qualcosa di cui mi sarei accorta anche io?

Passammo una bella serata, comunque, di nuovo tutti insieme. Samantha si ambientò bene e parlò molto con la mia famiglia, mettendomi addirittura in imbarazzo, mentre decantava le mie doti di "maestrina di musica". Io abbassai lo sguardo, borbottandole, imbarazzata, di smetterla. Non mi sfuggì il ghigno divertito di Daryl, che mi osservava dall'altra parte del tavolo. Lo guardai male, col solo risultato di divertirlo ancora di più. Maledetto

Per evitare di strozzarlo, pensai piuttosto a quando e come chiedergli di insegnarmi a usare le armi, a cacciare, a qualsiasi cosa sarebbe servita a tenere in vita me e gli altri in caso di bisogno. Forse potevo chiedergli di accompagnarmi a casa, senza preoccuparmi di cosa avrebbe pensato la nostra famiglia vedendoci andare via assieme. Sarebbe stato più sospetto se avessimo continuato a quasi-ignorarci in quel modo.

Con una faccia tosta di cui non mi credevo capace, mentre la serata stava volgendo al termine e bellamente circondata dagli altri, avanzai verso Daryl, che stava giocando con Judith sul tappeto del soggiorno. Mi fermai un secondo ad osservarli: la piccola stava giocherellando coi bicchieri di carta, il suo gioco preferito sin dai tempi della prigione. Daryl, seduto a gambe incrociate di fronte a lei, l'assecondava, impilando i bicchieri e facendoli poi cadere, scatenando le risate della bambina. Risate che, ogni volta, facevano comparire un piccolo sorriso sulle labbra dell'arciere.
Poche cose mi facevano tremare il cuore quanto vedere un uomo così forte e dall'aspetto talvolta poco rassicurante, giocare con un esserino fragile e piccolo come Judith.  Per un secondo, mi domandai intimamente come se la sarebbe cavata Daryl nei panni di padre. Sorrisi tra me e me, conoscendo la risposta: egregiamente.

Scacciai presto quel pensiero e mi avvicinai a loro, accomodandomi dietro la piccola Judith. «Cosa state facendo?», domandai, prendendo la bambina in braccio.
Da quando lavoravo in ambulatorio e a scuola, non avevo più modo di stare con lei spesso quanto avrei voluto, e la cosa mi dispiaceva. Era una bambina dolcissima, occuparsi di lei non era mai stata una fatica, alla prigione.

«Stiamo giocando coi bicchieri, roba seria», scherzò Daryl, dando un buffetto alla guancia di Judith e allungandole un altro bicchiere.

«Accidenti, roba serissima!», esclamai, chinandomi e cercando lo sguardo della piccola, come se mi stessi rivolgendo a lei. Judith mi guardò con gli occhi di Lori e si aprì in un sorriso smagliante, agitando la coppa rossa, divertita.

Mi beai della morbidezza di quel piccolo miracolo che stavo stringendo tra le braccia, poi guardai Daryl. «A proposito di cose serie, puoi accompagnarmi a casa? Devo parlarti», gli dissi, senza smettere di sorridere. 

Lui mi lanciò un'occhiata perplessa. «Sei ancora ubriaca e hai bisogno di qualcuno che ti trascini a casa?», domandò, aprendosi in un ghigno.

Avvampai, tappando le orecchie a Judith e sussurrandogli un «vaffanculo» a denti stretti. Tra le sue risate, cercai di continuare. «Per favore Daryl, è importante».

L'arciere mi studiò, diffidente. «Cos'hai combinato mentre ero via?».

Alzai gli occhi al cielo, esasperata. «Non puoi semplicemente fidarti di me e accompagnarmi senza fare tutte queste storie?!».

«Va bene ragazzina, come vuoi», si arrese in modo sbrigativo, visibilmente seccato. Credetti che volesse solo farmi stare zitta e non attirare troppe attenzioni su di noi. Paranoico.

Quando, una mezz'ora dopo, uscimmo di casa assieme - Sam se n'era andata prima - vidi le spalle di Daryl rilassarsi vistosamente, mentre camminavamo lentamente fino a casa mia. Che si trovava nello stesso vialetto, quindi dovevo sbrigarmi e trovare subito il coraggio di chiedere quello che dovevo all'uomo accanto a me. Il rumore dei nostri passi sull'asfalto era l'unico sottofondo, nel silenzio della sera.

«Sei stato così sbrigativo prima, riguardo la tua missione con Aaron. Sei sicuro che si andato tutto bene?», esordii, spezzando il silenzio.

Daryl si voltò a guardarmi. «Si tratta di questo, quindi? Vuoi farmi il terzo grado?», domandò. Il suo tono era tranquillo, nonostante tutto. Meno sulla difensiva di quanto lo fosse prima.

«No, Daryl, sto solo facendo conversazione», scandii. «Sai, è una cosa che le persone fanno».

Si strinse nelle spalle. «Sono stato sbrigativo perché non è successo niente che valga la pena di essere raccontato. Siamo tornati indietro prima per un motivo».

«Avete trovato qualcosa di utile? Provviste?», domandai, curiosa.

«No. Evidentemente, siamo andati nella direzione sbagliata».

Annuii, senza sapere bene cosa rispondere. Dopo qualche momento di silenzio e quando, ormai, eravamo arrivati davanti a casa mia, presi il coraggio a due mani e parlai. «Comunque, ti ho chiesto di accompagnarmi per chiederti una cosa», proferii confusamente, parandomi di fronte a lui.

Daryl non disse niente ma mi guardò negli occhi, aspettando che parlassi.

Feci un respiro profondo, prima di avanzare la richiesta. «Volevo chiederti se puoi aiutarmi a migliorare con le armi».

La sua espressione rimase impassibile, ma notai un sussulto di sorpresa che gli scosse appena le spalle. «Armi?».

«Sì. Da fuoco, se possibile», spiegai, raddrizzando la schiena e mostrandomi determinata.

«Vuoi imparare a sparare», indagò. «Non ti ricordi più nulla dell'addestramento alla fattoria?», domandò. Per un istante, ebbi l'impressione che stesse parlando di una vita fa. Quanto tempo era passato, quante persone si erano unite alla nostra famiglia, quante ne avevamo perse...

«Certo che sì. So usare la pistola, ma non bene come vorrei. Anzi, non bene come serve. Devo migliorare la mira, imparare a utilizzare al meglio armi come fucili e cose così. Devo imparare a cacciare e a seguire le tracce».

«A cosa ti serve tutto questo, qua dentro?».

La sua domanda mi sorprese. «Mi serve là fuori».

Serrò la mascella. «Tu non esci dalle mura». Dal tono, più che una considerazione, sembrò un ordine.

«Ora come ora no, ma potrei, un giorno. Per qualsiasi motivo. Anche qua dentro potrebbe essermi utile essere brava come voi. Voglio imparare a difendere me stessa e gli altri, Daryl. Non è possibile che io ancora non ne sia in grado, dopo tutto questo tempo. Carl è più piccolo di me eppure è già esperto, perché a me non è concessa questa competenza?!», esclamai, con una nota di esasperazione nella voce.

«Tu sai difenderti e sai come difendere gli altri», replicò, studiandomi serio.

«Ah sì? Con qualche colpo di pistola sparato a caso e un coltello? Questo non mi aiuterà se dovesse essere necessario difendermi a distanza».

«Credo che tu non abbia bene idea di quello che mi stai chiedendo, Beth».

«Ti sto semplicemente chiedendo di aiutarmi a non essere un peso», replicai, accorata.

Daryl affilò lo sguardo. «Lo sai che sarai costretta ad uccidere? Non solo vaganti, ma anche essere umani. Soprattutto essere umani».

La cruda realtà che Daryl mi mise davanti agli occhi mi ammutolì per qualche secondo. Non riuscivo nemmeno a immaginare di essere in grado di togliere la vita a un'altra persona viva. Certo, all'ospedale avevo provocato la morte di Gorman, ma era stata Joan a ucciderlo. Impugnare una pistola e premere il grilletto sarebbe stata tutta un'altra cosa.
Se qualcuno di crudele, come il Governatore, o Dawn, rappresentava una minaccia, avrei dovuto essere pronta a uccidere. Non tanto per salvare la mia vita, quanto quella della mia famiglia. Erano loro la cosa più importante e la loro sicurezza aveva un prezzo.

Un prezzo che ero pronta a pagare. Finalmente mi sentivo davvero pronta.

«Lo so, Daryl. Ma se uccidere significa proteggere la mia famiglia... sono pronta a farlo. Non voglio mai più assistere alla morte di qualcuno di voi come ho dovuto fare con mio padre. Mai più», terminai sussurrando e abbassando lo sguardo per reprimere le lacrime. Quando lo rialzai, vidi che Daryl mi stava osservando intensamente, combattuto, come se si stesse preoccupando più del dovuto della mia innocenza, della mia bontà. Dimenticandosi che lui stesso, pur essendo una delle persone più buone, generose e disinteressate che avessi mai conosciuto, aveva ucciso delle persone. E non si poteva fargliene una colpa, perché, se non l'avesse fatto, sarebbe toccato a qualcuno di noi morire.

«Okay», disse, alla fine, con la voce esausta. 

Il mio cuore iniziò a battere forte. «Grazie, Daryl. Significa molto per me».

Lui borbottò qualcosa di incomprensibile, salendo le scale del mio portico e sminuendo la cosa con un gesto della mano. «Domani ne riparliamo. Ci saranno da chiedere le armi a Olivia ed il permesso per uscire da questa gabbia», affermò, per distogliere l'attenzione dalla mia gratitudine.

«Da quando sei il tipo di persona che chiede il permesso?», domandai ironica, appoggiando le mani sui fianchi.

Daryl grugnì. «Devo chiederlo per te, ragazzina», sottolineò, sprezzante. «Io posso uscire quando diavolo mi pare».

Scoppiai a ridere per l'espressione indisponente che gli animò il volto. «Daryl Dixon, il Ribelle dell'Apocalisse», lo sbeffeggiai, stringendo i pugni ed allargando le spalle, tutta impettita.

«Fila a letto, prima che la tua simpatia mi faccia cambiare idea», disse con un ghigno, indicando la porta di ingresso con un cenno del capo.


«Sissignore!», esclamai, scoccando un saluto militare.

Daryl alzò gli occhi al cielo, ma accennò appena a un sorriso. «'Notte», si congedò, dandomi le spalle e avviandosi verso casa.

Rimasi a guardarlo, mentre si stava allontanando. Poco dopo, inaspettatamente, qualcosa tremò dentro di me, formicolandomi nelle dita e spingendo le mie gambe a muoversi.
Appena prima che Daryl scendesse il primo scalino del portico, afferrai la sua mano. Preso di sorpresa, si voltò verso di me, ma non gli diedi il tempo di dirmi nemmeno una parola.
Gli circondai la vita con le braccia e mi strinsi a lui, affondando il volto nella sua camicia. 

Mi era mancato il suo odore, il suo corpo contro il mio, il battito del suo cuore sotto il mio orecchio. Averlo lì, tra le mie braccia, al sicuro da un mondo dal quale, là fuori, non potevo proteggerlo, mi fece sospirare di felicità.

«Beth...», protestò debolmente. Avvertii i battiti del suo cuore aumentare e il suo respiro farsi più pensante.

«Stai zitto», mormorai contro la stoffa della sua camicia, stringendolo ancora di più a me.

Contro ogni aspettativa, dopo qualche momento di indecisione, Daryl abbandonò le braccia sulle mie spalle e mi strinse a sé. Poi appoggiò il capo contro al mio, in un abbraccio protettivo. Era tutto intorno a me. Deglutii, per trovare il coraggio di esprimere quello che stavo per dire.

«Voglio proteggerti, Daryl. Non mi importa di nient'altro. Se non posso farlo quando sei lontano da me, voglio riuscirci quando siamo insieme», sussurrai, talmente piano che, per un momento, temetti che non mi sentisse. Quando finii di dirlo, però, avvertii Daryl respirare profondamente e stringermi, subito dopo, un po' più forte. Come in un muto ringraziamento.

Ripensai alle parole rabbiose che mi aveva rivolto in quel capanno che avevamo bruciato insieme.

«Non ho mai contato su nessuno per farmi proteggere. Cazzo, non ho mai contato su nessuno per niente!».

Non avrei mai potuto comprendere fino in fondo la sofferenza che aveva dovuto sopportare Daryl, sin da giovanissimo. Me lo immaginai da bambino, con un padre violento, una madre troppo debole per proteggerlo e un fratello che non aveva mai saputo come essere un vero fratello.
Pensare a tutto quello che doveva aver passato mi strinse il cuore in una stretta dolorosa, soprattutto perché Daryl non si era meritato l'infanzia che aveva avuto.
La sua unica colpa era stata quella di nascere in una famiglia che non aveva saputo prendersi cura di lui, amarlo, proteggerlo. E quella consapevolezza mi faceva male.

Era questo che ammiravo così tanto in Daryl: nonostante il suo passato difficile, le ferite profonde che, lo sapevo, non avrebbero mai smesso di bruciargli dentro, era diventato una delle persone migliori che avessi mai conosciuto. E anche una delle più fragili.

Daryl pensava di aver cambiato idea sulla bontà delle persone grazie a me, in realtà era successo l'esatto opposto: ero io a non poter perdere speranza nell'umanità, se mi ero ritrovata accanto un uomo come lui. Era stato grazie a lui se le mie speranze non erano morte del tutto. E grazie a mio padre, a Rick, a tutte le persone buone che avevo incontrato sulla mia strada.

Avrebbe potuto tentarne di ogni per allontanarmi, non mi sarebbe importato: gli sarei stata vicina, in qualsiasi modo possibile. Ci sarei stata per lui, lo avrei protetto, lo avrei fatto sentire importante e degno di essere amato. Volevo che capisse che esisteva qualcuno a cui importava davvero di lui. Non sarebbe mai riuscito a tenermi lontana, mai.

Rimanemmo allacciati in quell'abbraccio per un tempo che, a me, parve infinito. Avrei potuto davvero rimanere così per sempre. L'arciere, invece, fu in grado di sopportare quella vicinanza fino ad un certo punto. Dopo un po', in silenzio, mi lasciò andare; mi guardò negli occhi senza dire nulla e si voltò, tornando a casa.
Mentre osservavo la sua schiena
che si allontanava, coperta dal giubbotto con le ali d'angelo, pensai che avevo fatto la scelta giusta chiedendogli di insegnarmi a sopravvivere.
Avevo troppo da perdere.

Troppo per cui combattere.

¨¨¨

La mattina dopo, mentre camminavamo fianco a fianco verso casa di Deanna, il nervosismo mi pervase, perché non ero affatto sicura che la mia richiesta sarebbe stata accettata. Sapevo che avrei trovato anche Maggie, a casa Monroe: lei e Deanna stavano lavorando ad un progetto sulle sementi da andare a cercare nei dintorni della zona sicura, in modo da iniziare a coltivare pomodori, patate e altre verdure. Un po' come quando eravamo alla prigione: io, Maggie e Rick avevamo avuto l'insegnante migliore.

«Tutto bene?», domandò Daryl, dopo il mio ennesimo sbuffo agitato. Forse aveva notato quanto fossi silenziosa; maledetto lui ed il suo spirito di osservazione.

«Sì, sì. Sto solo pensando a quali parole usare per convincerle a lasciarmelo fare», risposi, provando a contenermi.

Alzò le spalle con fare strafottente. «Dici loro che lo vuoi fare e che lo farai, punto».

Scoppiai a ridere, divertita dal suo finto tono arrogante. «Convincente, ma ti ricordo che solo tu puoi permetterti questo tipo di approccio», replicai, guardandolo. 

Lui mantenne un'espressione burbera per qualche momento, poi ridacchiò a sua volta, scuotendo la testa e continuando a camminare. «Anche questo è vero».

La presenza di Daryl, nonostante tutto, mi rassicurava e mi trasmetteva la calma che mi serviva. Rimase in piedi, quando Deanna ci fece accomodare nel suo salotto, come un angelo custode che mi guardava le spalle. Provai a parlare con calma, a spiegare le mie ragioni e cercai di non dare troppo peso all'espressione preoccupata di Maggie, seduta sul divano di fronte a me. Riuscivo a capire quello che pensava: era in ansia, ma sapeva che avevo ragione. Dovevo puntare su quello, era l'unica che poteva capirmi. Deanna non aveva mai vissuto quello che avevamo passato noi, perciò non poteva comprendere cosa mi spingesse a fare loro quella richiesta. Secondo lei, mi stavo mettendo in pericolo inutilmente.

«Beth, noi abbiamo bisogno di te qui», mi ripeté, come quando le avevo chiesto di poter andare in missione.

«Per fare cosa? Controllare che nessuno entri in ambulatorio? Non abbiamo quasi mai niente da fare lì, Deanna. Ed è un bene, significa che nessuno ha bisogno delle nostre cure perché sta bene. Josie mi sta insegnando tanto e adoro lavorare a scuola con i bambini, ma ho bisogno di altro. So com'è il mondo fuori da quelle mura e voglio essere in grado di affrontarlo», ribattei, accorata. 

Lei mi studiò, l'espressione corrucciata e la postura rigida. Non era arrabbiata, lo capii, solo non sapeva come ribattere. Perché avevo ragione. Si voltò verso Maggie, per chiedere la sua opinione o per ricevere aiuto per riuscire a convincermi, non riuscii a comprendere. Lo sguardo di mia sorella gravitò da me a Deanna, poi di nuovo si posò su di me e, infine, su Daryl. L'arciere aveva assistito a tutto lo scambio, senza dire una parola, ma ascoltando concentrato.

Maggie sospirò. «L'idea non mi entusiasma, ma non posso oppormi. Questo posto è sicuro, ma va comunque difeso e serve gente per questo», spiegò Maggie, mentre il mio cuore cominciava ad accelerare. Maggie si voltò verso di me, guardandomi negli occhi e sorridendo. «Ognuno di noi ha un compito», aggiunse ed era quello che ci diceva sempre papà. Le sorrisi di rimando, sperando che potesse vedere il ringraziamento nei miei occhi.

Deanna sospirò. «E va bene», si arrese. «Se per il signor Dixon non è di disturbo».

Ci voltammo tutte verso Daryl contemporaneamente, mentre lui si stringeva nelle spalle, come se non desse importanza alla questione. 

«Per il signor Dixon non è un disturbo», rimbeccò l'arciere, con tono annoiato. Il mio sorriso si allargò a dismisura: avrei voluto stringere sia Daryl che Maggie in un abbraccio soffocante, tutti e due nello stesso momento.

Io e Daryl ci recammo da Olivia per chiederle di dare un'occhiata all'armeria, dopo averle assicurato che disponevamo del benestare di Deanna. Mi ritrovai assieme a Daryl di fronte a quel muro zeppo d'armi. Non ne avevo mai viste così tante tutte assieme; quando avevo visitato Alexandria il primo giorno, avevo intravisto l'armeria solo dall'esterno.

«Cos'hai usato fino a questo momento?», domandò l'arciere. Senza pensare, si toccò il mento con le dita, mentre ispezionava tutti quegli armamenti con fare interessato. 

Provai a fare mente locale. «Uhm, pistola e fucile d'assalto. E balestra», aggiunsi, rivolgendogli un sorrisetto.

«La balestra non conta, hai fatto schifo quella volta», ghignò Daryl, scansandosi prima che potessi colpirlo in qualche modo. «Ti sei trovata meglio con la pistola o il fucile?».

«Pistola. Riesco a prendere meglio la mira», risposi senza pensarci, sfiorandone una con le dita. «Quale credi che sia meglio?».

«Beh, in teoria col fucile d'assalto hai più margine d'errore, visto che vengono esplosi più colpi, ma la pistola va benissimo. Devi allenare la mira. Ogni proiettile è importante».

«Pensi che ci siano armi più adatte a me?», domandai, sentendomi improvvisamente insicura di me stessa.

«Qualsiasi arma è adatta se devi sopravvivere. Un fucile d'assalto, un fucile a pompa, una carabina: non fa differenza», ribatté Daryl. «La pistola è un buon punto di partenza. Quando avrai migliorato la mira e ci avrai preso la mano, maneggerai ogni arma con più sicurezza e ti troverai bene anche con quelle più impegnative», spiegò. 

Non lo avevo mai sentito parlare così tanto e in modo così appassionato. Era davvero bello, avere finalmente qualcosa di cui discutere in modo tanto fluido. Aveva preso sul serio il suo ruolo di "mentore" e ci teneva che mi sentissi tranquilla, rispetto le mie capacità, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Ero davvero fortunata.

Nonostante Daryl a volte si dimostrasse irruento e preda facile di attacchi d'ira, quando insegnava qualcosa era la persona più paziente e disponibile con cui avessi mai avuto a che fare. Ne avevo già avuto prova quella volta che aveva iniziato a insegnarmi a cacciare, e lì ad Alexandria ne ebbi nuovamente conferma. Passò le successive tre settimane ad addestrarmi ogni volta che eravamo liberi entrambi. 

Mi insegnò come migliorare la mira, usando una pistola silenziata simile a quella che aveva Carl. Avevamo un posto tutto nostro, un piccolo spiazzo tra gli alberi, dove operare. Solitamente utilizzavamo dei barattoli vuoti come bersagli: Daryl li posava su un tronco d'albero tagliato ed io li dovevo colpire da varie distanze. Quando mi sentii più sicura della mia mira, iniziai anche ad esercitarmi con i vaganti, che fungevano da bersagli mobili. In quel caso, per non sprecare troppe munizioni, utilizzavo molto spesso la balestra di Daryl. Non ero diventata brava come lui, ma almeno non aveva più pretesti per prendermi in giro. A Maggie non avevo detto nulla per non farla preoccupare, io stessa non ero preoccupata: con Daryl mi sentivo al sicuro. Mi sarei sempre sentita al sicuro. Avevo persino ampliato le conoscenze base su come seguire le tracce, sulla sopravvivenza e anche un po' di autodifesa se mi fossi trovata in situazioni particolarmente ostili. 

In quelle settimane, sentii il mio legame con Daryl rafforzarsi ancora di più. Era bello passare così tanto tempo in sua compagnia, uniti da un obiettivo comune. Lui non aveva iniziato ad essere più espansivo o affettuoso, ma riuscivo a capire che, finalmente, si sentiva a suo agio in mia presenza. La sua postura era meno rigida, meno pronta alla ritirata in caso di contatto fisico, e la sua espressione era rilassata. Qualche volta ci era anche capitato di ridere assieme dopo un mio errore o una battuta. Il suo viso cambiava totalmente, quando rideva: la prima volta che lo fece me lo sognai persino la notte. 

Anche le prime lezioni sulla postura da tenere per migliorare la mira, le sognai. Semplicemente perché, per farmi capire meglio come dovevo posizionarmi, Daryl si era messo alle mie spalle. La sua bocca era vicino al mio orecchio, il suo petto a pochi centimetri dalla mia schiena: quella vicinanza mi scatenò istantaneamente dei brividi per tutto il corpo. Aveva allungato le braccia accanto alle mie, chiudendo le mani sull'arma che stavamo stringendo entrambi per guidarmi alla posizione corretta. 

«È meglio se tieni le braccia così», mi aveva istruita, mentre io mi concentravo, invece, sul suo tono di voce: mi era sembrato più basso e meno fermo del solito.

«O-Okay», avevo balbettato, col suo respiro che mi solleticava l'orecchio. 

Quando era stato il momento di rispolverare la balestra, mi aveva aiutato a sollevare meglio il gomito e a ruotare le spalle, posandomi anche le mani sui fianchi per sistemarmi la postura. Quegli avvicinamenti erano stati così improvvisi che, per un momento, mi avevano frastornata. Avevo sentito la pelle percorsa da piccole scosse di elettricità, non riuscivo a stare ferma e calma, sapendolo così vicino a me. 

Non riuscii mai a capire se si accorse dell'effetto che mi fece averlo così vicino a me. 

Ad ogni modo, il mio addestramento si interruppe quando Daryl venne ingaggiato da Aaron per una nuova missione di reclutamento. Me lo disse dopocena, due giorni prima della sua partenza.

«Lunedì parto», disse soltanto, avvicinandosi a me mentre stavo cullando Judith per conciliarle il sonno, sul divano di Rick.

Mi voltai verso di lui e gli sorrisi. «Va bene», risposi a voce bassa, per non dar fastidio alla piccola.

Lui mi osservò per qualche momento, con le mani infilate nelle tasche e i suoi occhi blu che mi scrutavano. Stava tentando di capire se ci fossi rimasta male? «Ho chiesto a Carol se può allenarti lei, mentre io sono via», mi informò, e notai una nota di apprensione nella sua voce neutra.

«Carol ha già il suo bel da fare, dovendo cucinare per mezza Alexandria», replicai, con voce ferma. «Non ti preoccupare Daryl, aspetterò che torni», aggiunsi, addolcendo il tono. Lo sguardo che gli rivolsi non riuscì a sostenerlo; balbettò qualcosa e se ne uscì a fumare una sigaretta, senza aggiungere altro.

Sorrisi tra me e me, riportando l'attenzione su Judith, ancora stretta, in dormiveglia, tra le mie braccia. Facendo attenzione a non sballottarla troppo, mi alzai in piedi e salii le scale, per riporla nel suo box. La appoggiai con delicatezza sul lettino e le rimboccai le coperte, chinandomi per darle un bacio sulla sua testolina bionda. Salutai la mia famiglia e tornai a casa con un'idea che mi ronzava in testa. 

Il giorno dopo, l'ultimo prima della partenza di Daryl, avrei dovuto fare addestramento di mattina. Pensai, quindi, che sarebbe stata una bella idea fare colazione insieme nel bosco. Preparai dei pancake, usando la ricetta che mi aveva insegnato mia madre tanto tempo fa. Me li faceva trovare nel piatto la mattina, per colazione, ma io ero sempre in ritardo per la scuola e li trangugiavo mentre correvo verso l'autobus. Sorrisi al ricordo, poi mi domandai se qualcuno avesse mai preparato qualcosa di simile per Daryl. Poco importava: lo avrei fatto io, adesso.

La mattina successiva mi presentai davanti ai cancelli di Alexandria con i pancake ben conservati in un contenitore. Nessuno aveva trovato dello sciroppo d'acero da mettere nella dispensa comune, quindi mi ero arrangiata portandomi dietro del burro d'arachidi e la marmellata della signora Abbot. Nel thermos che avevo riposto nello zaino, vi era del tè che sarebbe servito a scaldarci. Infatti, quando ci allenavamo di mattina, Daryl preferiva sempre uscire poco prima che sorgesse il sole. Faceva freddo, ma le albe a cui avevo assistito in quelle settimane difficilmente me le sarei dimenticate.

«Cos'hai lì dentro?», mi domandò Daryl, una volta usciti dalle mura, alludendo a ciò che tenevo stretto tra le mani.

«Qualcosa di buono», risposi, scoccandogli un sorrisetto furbo.

«Vuoi forse avvelenarmi?», chiese, ghignando e sistemandosi meglio la balestra in spalla.

Alzai gli occhi al cielo. «Mi hai beccata», sbuffai, fingendomi infastidita.

Raggiungemmo il nostro solito posto, sedendoci su un tronco per consumare la nostra colazione. Appoggiai il contenitore ed il thermos nello spazio tra noi, posandoli sopra un tovagliolo. L'aria era ancora freddo, ma il sole stava già iniziando a sorgere, rischiarando tutto il resto. C'eravamo solo io, Daryl e la quiete tutta intorno a noi. Aprii il contenitore e allungai a Daryl il coltello per spalmare i pancake, lasciando che fosse il primo ad assaggiarli.

Mentre divorava il primo, osservai estasiata la sua solita eleganza, sforzandomi di non ridere. Quando lo finì, si leccò le dita sulle quali era rimasto del burro d'arachidi. Si accorse che lo stavo osservando.

«Cosa?», bofonchiò, ingoiando l'ultimo boccone. 

Ridacchiai, prendendo il mio pancake e scuotendo la testa. «È sempre una soddisfazione cucinare per te».

Rimanemmo in silenzio a gustarci la colazione, osservando il nuovo giorno nascere. Sarei rimasta così per sempre, con Daryl, in quel bosco, a godere della bellezza dell'alba. 
Lo osservai mentre beveva il tè: avevo una cosa da dirgli, prima che andasse via. Anche se non sapevo come avrebbe reagito, dentro di me coltivavo la speranza che non si sarebbe opposto troppo duramente.

«Daryl», chiamai la sua attenzione.

Lui si voltò verso di me. «Mh?».

Feci un respiro profondo prima di parlare. «Partirò anche io, tra una decina di giorni», confessai, tenendo lo sguardo fermo nel suo.

Se fossimo stati ai tempi della fattoria o della prigione, quando ancora non lo conoscevo così bene, non avrei notato l'irrigidirsi delle sue spalle. Fu un cambiamento quasi impercettibile, ma io lo notai subito. I suoi occhi mi guardavano, illeggibili. «Sì?».

Annuii, abbassando lo sguardo sulla terra bagnata ai miei piedi. «È solo una di quelle spedizioni che finiscono in giornata. Parto col gruppo di Glenn, è riuscito a convincere Maggie e Deanna a darmi una possibilità».

Lui rimase in silenzio qualche istante. «Ci sono anche quegli idioti di Nicholas e Aiden. Era la loro squadra, o sbaglio?». 

Cazzo. Speravo che non se lo ricordasse. «Sì, ma--».

«Stai attenta. Quei due non sono affidabili», disse l'arciere, sistemando il thermos nella sua sacca e raccogliendo ciò che avevamo usato per la colazione. Sembrava che non volesse approfondire l'argomento; e non capivo quanto c'entrasse Aiden di per sé, o il fatto che già una volta Daryl avesse quasi fatto a botte con Nicholas o se fosse semplicemente preoccupato per la loro inadeguatezza durante le spedizioni. Glenn non ne aveva mai parlato bene e temeva che quei due potessero mettere in pericolo sé stessi e l'intera squadra. Rimasi in silenzio, senza sapere bene cosa rispondere. Certo che sarei stata attenta. 

«Hai paura?». 

Mi voltai verso Daryl e notai che mi stava fissando, col capo inclinato, provando a capire cosa mi stesse passando per la testa. Raddrizzai le spalle e sbuffai. «Certo che no!».

Lui abbozzò un sorriso, trasmettendomi coraggio e sicurezza in me stessa con la sola forza del suo sguardo. «Ne ero sicuro», ribatté, e il mio cuore accelerò il suo battito. 

Dopo quelle settimane scandite dalla presenza costante di Daryl nelle mie giornate, fu ancora più difficile guardarlo andare via. Come l'altra volta, non ci dicemmo addio, odiando entrambi quella parola. Lo accompagnai semplicemente ai cancelli, la mattina in cui partì; ci scambiammo un lungo sguardo e poche parole. Ci trovai della preoccupazione, nel fondo delle sue iridi cobalto e sapevo che aveva a che fare con la mia spedizione, anche se Daryl non aveva più detto niente a riguardo. 

«Continua ad allenarti», fu l'unica raccomandazione che mi rivolse, prima di andarsene. 

«Quando tornerai, sarò talmente brava che non avrò più bisogno di te», risposi, sorridendogli. Lui sorrise di rimando e si voltò, raggiungendo Aaron fuori dalle mura.

Avrei voluto abbracciarlo, ma mi trattenni: avrei conservato quell'abbraccio per il suo ritorno. Doveva tornare, ed ero sicura che l'avrebbe fatto. Ci saremmo rivisti, saremmo andati entrambi in missione e saremmo tornati a casa, sani e salvi. 

Ero sicurissima che sarei partita per la spedizione, finché, la mattina prima della partenza, non mi svegliai con febbre, male alle ossa e gola che bruciava. Imprecai tra me e me, mentre mi trascinavo al piano di sotto per indossare la giacca più pesante che avevo e mi recai da mia sorella - che, finalmente, si era trasferita in una casa tutta sua assieme a Glenn - per dirle di avvisare suo marito e Deanna: non sarei potuta partire per la missione.

Ero furiosa col mio maledetto sistema immunitario, specialmente perché non sapevo quando mi sarebbe capitato di ricevere di nuovo il permesso di uscire con una delle squadre di spedizione. 

«Lo vedi che il tuo posto è qui?», mi prese in giro mia sorella, mentre mi preparava un infuso caldo. Io, avviluppata in una coperta e priva di forze, la mandai a quel paese dal suo divano. Maggie, infatti, aveva insistito affinché rimanessi da lei, così si sarebbe potuta prendere cura di me.  

«Hanno trovato qualcuno che mi sostituisca?», domandai, senza nascondere il malumore. 

Lei si sedette sul tavolino di fronte al divano e mi allungò la tazza. «Noah si è offerto di prendere il tuo posto», mi informò.

Mandai giù la prima sorsata dell'infuso. «Se stasera lo vedi per cena, puoi chiedergli di passarmi a salutare domani mattina?», domandai, continuando a bere.

«Stasera restiamo con te, ma tranquilla, glielo dirà Glenn domani mattina», disse Maggie, accarezzandomi la nuca in un gesto affettuoso; io annuii, senza aggiungere altro. Era da moltissimo tempo che non mi ammalavo in quel modo; persino quando c'era stata quella terribile influenza alla prigione, ero riuscita a rimanere immune. Sospirai, arrendendomi ai fatti e mi accoccolai su me stessa, vinta dalla spossatezza.



¨¨¨


Anche l'impensabile, alla fine, accadde.

In quei mesi che avevo passato ad Alexandria avevo cambiato atteggiamento nei confronti della nostra quotidianità: ero più tranquilla, guardavo a tutto come se il pericolo non fosse più l'elemento principale delle nostre vite. Certo, ero preoccupata comunque per la sorte della mia famiglia, ma ogni giorno mi alzavo con la certezza che fossero al sicuro, dietro le alte mura che proteggevano la città. E anche quando uscivano per cercare rifornimenti, avevo troppa fiducia nelle loro capacità di sopravvivenza, per preoccuparmi più del dovuto. 

Non avevo perso consapevolezza del pericolo, avevo semplicemente cercato di essere ottimista. Mi ero adagiata, avevo abbassato appena la guardia, e quello fu l'errore più grande che potessi fare. 

Lo capii quando Glenn tornò dalla missione alla quale avrei dovuto partecipare anche io.

Al mio secondo giorno di influenza, non ero ancora abbastanza forte per uscire fuori di casa, ma lo ero abbastanza per andare in cucina a prendermi un bicchiere d'acqua. Avevo mandato giù il primo sorso, quando sentii la porta di casa aprirsi. Mi recai all'ingresso lentamente, per vedere di chi si trattasse.

Entrò Glenn, con i vestiti sporchi, il volto emaciato e lucido di sudore. Non lo avevo mai visto così. Gli andai incontro, preoccupata: quando gli fui più vicina, notai che aveva le mani imbrattate di sangue.  

«Oh mio Dio, Glenn, le tue mani!», esclamai, reggendo il bicchiere in una mano e afferrandogliene una con l'altra, per controllare che non fosse stato ferito o morso. Non appena toccai la sua pelle, mi accorsi che stava tremando.

Lo guardai in faccia, incontrando la sua espressione sconvolta. «Cos'è successo?», domandai, l'ansia che si stava espandendo in ogni parte di me. Alle mie spalle udii Maggie scendere le scale.

«Cosa diavolo è successo?», quasi urlò Maggie, allarmata. 

Lo sguardo di Glenn gravitò da me a lei, poi tornò a me. I suoi occhi si riempirono di lacrime, mentre mi guardava con l'espressione stralunata, frastornata, confusa. Dispiegò le labbra e cercò di parlare, ma era talmente sconvolto che non uscì alcun suono. 

Maggie mi spinse gentilmente da un lato per prendere il viso di suo marito tra le mani. «Glenn, guardami», gli ordinò. Tremava anche lei.

Per qualche motivo, respirare iniziò a diventare difficile. C'era qualcosa che non andava. Qualcosa di tremendamente sbagliato, che mi gravò sul petto tutto in una volta. Ma cosa?

«Glenn, dimmi cos'è successo», disse ancora mia sorella, la voce rotta.

Glenn le prese le mani con le sue, imbrattate di sangue, e le abbassò, per potersi voltare nella mia direzione. Il suo sguardo perforò il mio con una disperazione straziante. Lasciò le mani di Maggie e, con un'ampia falcata, si parò di fronte a me.

Prima che potessi parlare, respirare o tapparmi le orecchie, mi strinse forte a sé. «Mi dispiace Beth, mi dispiace tanto», sussurrò, la voce rotta dal dolore.

La mia mano lasciò andare il bicchiere, che cadde sul pavimento e si frantumò in mille pezzi, assieme a una parte di me.

«Noah-», proferì, ma non gli lasciai completare la frase.

Sentii le mie braccia allontanarmi dal corpo di Glenn, le gambe cedermi e le mie ginocchia sostenere il peso del mio corpo; udii l'urlo straziante e le lacrime bruciarmi sulle guance; vidi Maggie afferrarmi le spalle e sostenermi come se fossi un pezzo di materia inanimata. Vidi tutto, come se guardassi me stessa dal di fuori del mio stesso corpo. Non era vero, non poteva esserlo. 

Noah è morto.
















| Angolo autrice |

Eeee iniziamo con le parti deprimenti, sigh.
Lo so che, essendo una fanfiction, una what if, avrei potuto decidere di salvare Noah, ma... No. Ho preferito che Beth vivesse questo dolore, in questo contesto. Perché capisse che non sempre tutto va bene come si pensa. Vi posso già dire che si sentirà in colpa, perché al posto di Noah ci doveva essere lei e, beh, non la prenderà bene. Ma ne parleremo al prossimo capitolo.
Non so quanto a voi piaccia Noah (a me piace, non è uno dei miei personaggi preferiti ma lo apprezzo!), ma spero che la parte triste sia stata ben compensata dalla luuunga parte pucciosa prima. Dato che nel capitolo 6 Daryl non si è praticamente visto, ho voluto rimediare a questo giro ;)  spero che le parti fluffose e sdolcinate vi siano piaciute! Ci volevano, dopo quel dannato finale di stagione. AAARGH, le sofferenze.

Ad ogni modo, niente, il capitolo è questo! Nonostante non sia successo nulla di che, mi ha divertito scriverlo, soprattutto perché è mooolto incentrato sui nostri piccioncini!
Ho fatto uno schizzo della parte in cui Beth e Daryl giocano con Judith, attenzione, rischio diabete:

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Ultima cosa! Sto traducendo una fanfiction molto conosciuta nel fandom Bethyl anglofono, 18 Miles Out!
Se vi va di darci una letta, la sto pubblicando in questo account: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=933022! (La aggiorno ogni venerdì!)

E niente, per oggi mi fermo qui perché mi si stanno incrociando gli occhi davanti allo schermo.
Grazie per le vostre letture, recensioni, seguite, preferite :) significa molto per me!
Un abbraccio, alla prossima!
Blakie

   
 
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