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Autore: Adeia Di Elferas    22/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 Andrea Bernardi stava pulendo il rasoio con un movimento fluido della mano e si guardava attorno annoiato.
 Era sempre più raro che qualche forlivese andasse nella sua barberia come cliente. Ormai erano più gli uomini che si presentavano nel negozio per avere notizie fresche che non per farsi sbarbare.
 Anche se non ne comprendeva il vero motivo, il Novacula aveva visto i suoi affari ridursi all'osso in brevissimo e ormai faticava a far quadrare i conti.
 Era successo senza che se ne potesse fare una ragione. Semplicemente, la moda era cambiata e la sua barberia non era più una barberia in cui qualcuno andava a scambiare due chiacchiere. Ormai era un ritrovo pubblico in cui raramente qualcuno di faceva radere il viso.
 Inoltre Andrea soffriva molto per un fatto personale di cui si vergognava un po'. Aveva creduto che la Contessa si sarebbe presentata presto al suo negozio, dopo la fine dei tumulti. Dopo la partenza dell'esercito milanese, il Novacula era stato più che certo di veder entrare dalla porta la sua signora e di poter parlare con lei di tutto quello che era accaduto in quei giorni.
 Invece non aveva ancora ricevuto nessuna sua visita. Nemmeno un messaggio, un ringraziamento di qualche tipo...
 Andrea sospirò, continuando a pulire la lama del rasoio, anche se ormai brillava. Stavano arrivando un paio di anziani pettegoli che, viste le loro guance glabre, erano solo in cerca di nuove dicerie.
 “Perché non ve ne andate da Cobelli – sussurrò tra sé Andrea, appena prima che i due uomini entrassero nella bottega – dite tutti che è uno storiografo e un cronista migliore di me, quindi andate a rompere l'anima a lui...”
 “Allora, che si dice di nuovo, Novacula?” chiese uno dei due anziani, appena varcò la porta.
 Andrea si accigliò e rispose, scontroso: “Nulla che sia di interesse per la gente comune come noi, mio caro concittadino...”

 Giovanni Bentivoglio, alla fine, aveva stabilito di tornare a Bologna senza far visita alla figlia Francesca. C'erano in giro ancora troppe voci sulle inquietudini di quella donna e sui suoi dissapori col marito.
 Se si fosse saputo che Giovanni era corso nella città dei Manfredi, in molti avrebbe tratto rapide e ingiuste conclusioni. Rischiava, con la sua presenza, di suscitare dubbi e allontanare Galeotto Manfredi da Bologna. Troppi avrebbero pensato, infatti, che Giovanni si era affrettato a raggiungere la figlia solo per spalleggiarla e dar contro al marito.
 Francesca aveva vent'anni, era madre di un figlio che avrebbe ereditato il titolo di Galeotto Manfredi, e a detta di tutti era una donna decisa. Non aveva bisogno di rivedere suo padre.
 Così sul finire di maggio Giovanni predispose ogni cosa, salutò calorosamente Caterina Sforza e il Bergamino e si apprestò ad affrontare il lungo viaggio fino a Bologna.
 Una volta tornato in patria avrebbe scritto a sua figlia per spiegarle meglio il perchè della sua mancata visita, ma era già sicuro in partenza che Francesca non avrebbe dato peso a quella sua assenza.
 Non erano mai andati d'accordo e Giovanni sapeva bene che la colpa era di entrambi. Se da un lato lui aveva sbagliato, nemmeno lei era stata da meno. Sua figlia Francesca lo aveva sempre tenuto a distanza e anche quando era tornata a casa, per allontanarsi dal marito, non era riuscita a condurre nemmeno una chiacchierata con lui senza finire a litigare.
 Il suo astio, Giovanni lo capiva bene, anche se non lo giustificava affatto, nasceva dalla delusione che Giovanni aveva provato nel veder nascere un'altra femmina. Dopo la prima, sperava ardentemente in maschio, che era giunto solo un anno dopo la nascita di Francesca.
 Di quella seconda, inutile figlia non era mai riuscito a curarsi con interesse o amore e appena aveva potuto, il giorno prima del quattordicesimo anno di Francesca, l'aveva data in sposa a Manfredi e finalmente ne aveva ricavato qualcosa.
 Sua moglie Ginevra non condivideva la visione che Giovanni aveva del mondo e dell'uso politico delle figlie, ma il capofamiglia era lui e sua moglie, una Sforza, certo, ma pur sempre una donna che lo aveva sposato solo dopo essere rimasta vedova e con due figli del primo marito, poteva far la voce grossa quanto voleva, tanto non l'avrebbe mai avuta vinta.

 Tommaso Feo ricambiò il sorriso di Bianca Landriani, più per gentilezza, che non per sincero trasporto. La sua mente era occupata da altro, non aveva tempo per pensare a quella ragazzina che aveva cominciato a dedicargli una serie di piccole attenzioni che, sì, lo lusingavano, ma lo mettevano anche in difficoltà.
 Anche in quel momento, mentre la sorella della Contessa gli passava accanto con uno dei nipoti per mano, Tommaso non la guardava con interesse.
 Stava pensando a Giacomo e alla Contessa. I suoi erano solo sospetti e non aveva avuto ancora il coraggio di chiedere a suo fratello qualcosa in merito.
 Non li aveva mai visti insieme, ma aveva notato il modo in cui si guardavano, quando si incontravano per caso nella rocca o nel cortile. Sapeva riconoscere quella luce negli occhi di entrambi...
 Per lui ogni loro imbarazzato scambio di sguardi era una pugnalata nello stomaco. Di tutti gli uomini che esistevano al mondo, perchè la sua signora si stava infatuando proprio di suo fratello?
 Era già abbastanza penoso sapere di non essere altro che un fedele servo e un buon amico, per lei, era già troppo doloroso essere coscienti del fatto che in alcun modo lei lo avrebbe mai considerato come un possibile compagno di vita... Ma vedersi superare così da un fratello più giovane e meno capace era davvero una sofferenza indicibile.
 Si era accorto che la Contessa a volte si metteva a una delle finestre, un po' nascosta, per spiare gli allenamenti di Ottaviano. All'inizio Tommaso era rimasto ben impressionato da quel fatto, credendo che la sua signora volesse accertarsi dei progressi del figlio. Solo dopo aveva compreso che quell'interesse era tutto per Giacomo e per come giocherellava con Ottaviano, conquistandosene la stima e la simpatia.
 Anche quello sarebbe stato un problema, a lungo andare, Tommaso se lo sentiva. Ottaviano era un bambino rancoroso, del tutto simile al suo defunto padre, almeno in quell'aspetto. Se mai avesse capito che sua madre e Giacomo...
 No, Tommaso non voleva pensarci. E poi per il momento era probabile che non fosse ancora accaduto nulla, dunque perchè fasciarsi la testa prima di essersela rotta?
 In fondo, che poteva fare Tommaso, se non continuare a vegliare su entrambi, sperando di poterli fermare, prima che la situazione fosse precipitata?
 “Signora castellano – gli disse uno dei suoi uomini, raggiungendolo quando era quasi alla porta del suo studiolo – la Contessa chiede di voi per discutere delle nuove forniture di munizioni.”
 Tommaso sospirò: “Ditele che arrivo tra un momento.” e si chiuse nelle sue stanze per qualche minuto, cercando di calmare la mente e ritrovare un minimo di equilibrio.

 Era il 31 maggio di quel 1488 e Faenza era preda dell'afa più pressante. Dalle campagne arrivava odore di terra secca e nelle vie della città si respirava la polvere delle strade, sollevata dai passi dei pochi che osavano sfidare il sole del primo pomeriggio.
 Erano circa le due. Al palazzo dei Manfredi regnava il silenzio. Si era pranzato presto, per permettere a tutti di sfuggire le ore più calde della giornata rintanandosi nelle proprie stanze a godere dell'ombra e del ristoro di un sonno post prandiale.
 Fin da quel mattino, Francesca Bentivoglio aveva annunciato di essere indisposta e aveva anche convinto il medico di corte a dichiararla impossibilitata a presenziare a tavola a mezzogiorno.
 Galeotto era rimasto un po' infastidito da un simile contrattempo, perchè sapeva che gli sarebbe toccato andare nella camera della moglie, per rispettare l'etichetta, e fingere di volerla consolare e rinfrancare per favorirne la guarigione.
 Tuttavia, doveva ammettere che quell'indisposizione improvvisa gli era anche favorevole. Avrebbe infatti potuto così passare il pomeriggio a intrattenersi con chi preferiva senza dover temere un'improvvisa incursione della moglie nelle sue stanze.
 Si era accordato appena prima di pranzo con un paio di giovani cortigiane, dicendo loro che le avrebbe raggiunte appena dopo la visita nella camera della moglie.
 Sarebbe stata una cosa rapida, due parole, una manciata di minuti, tanto per dimostrare alla corte che la coppia era ancora unita e che al marito importava moltissimo della salute della moglie e poi sarebbe stato libero di folleggiare con chi preferiva fino a sera.
 Con passo sciolto, cercando di farsi notare da più cortigiani possibili, Galeotto raggiunse la porta della stanza della moglie e si annunciò: “Sono venuto a vedere come sta la mia amatissima moglie...”
 Sentì la voce di Francesca rispondere qualcosa e così entrò, richiudendosi subito l'uscio alle spalle.
 Non fece in tempo a capire quello che stava accadendo, che qualcuno gli fu addosso.
 Rigo e Mengaccio, benché fossero tutt'altro che due sprovveduti, furono fin da subito in difficoltà.
 Francesca, stesa nel letto con indosso solo una leggera vestaglia da notte, per avvalorare la pantomima, assisteva senza parole alla lotta senza quartiere che Galeotto e i due sicari avevano ingaggiato proprio davanti a lei.
 Rigo teneva le braccia allacciate al tronco del signore di Faenza, mentre Mengaccio tentava di staccare le mani di Galeotto dal proprio collo.
 Nessuno di loro emetteva suoni, se non qualche gemito e in breve il signore di Faenza era riuscito a disarmare Mengaccio e ad assestare un calcio a Rigo, che lo lasciò di colpo, sopraffatto dal dolore.
 Galeotto cercò di uscire dalla stanza, tanto affannato da non riuscire neppure a chiamare soccorso, ma mentre faceva ciò, Rigo tornò in sé e lo afferrò per la collottola, riportandolo indietro.
 Mengaccio estrasse il pugnale e riuscì a ferire il signore di Faenza a una gamba. Era, però, solo una ferita molto superficiale e Galeotto parve non accorgersene nemmeno.
 Francesca era senza parole. Con tutti i soldi che aveva sborsato per non doversi sporcare le mani in prima persona...!
 Esasperata nel vedere come suo marito stava per sopraffare i due assassini professionisti – o almeno così si erano presentati loro – Francesca balzò giù dal letto.
 Strappò la spada di mano da Rigo e mentre Galeotto si divincolava una volta di più da Mengaccio, Francesca gli conficcò la punta dell'arma nell'addome.
 Galeotto spalancò gli occhi e la fissò, mentre il sangue cominciava a imbrattargli la veste ricamata in oro.
 Francesca spinse la spada ancor più dentro alla carne del marito, rigirandola continuamente, per procurargli il maggior danno e il più grande dolore possibile.
 Alla fine, la donna aveva spinto la lama tanto a fondo da sentire l'elsa premere contro la pancia di Galeotto, che, trovandosi così vicino a lei, ebbe un ultimo fiato per chiedere: “Perché...?”
 Francesca, completamente dimentica della presenza dei due sicari, lo guardò dritto negli occhi, rigirando una volta ancora la spada nella ferita rispose: “Perché mi hai pubblicamente offesa e tradita...”
 Galeotto tentò di dire qualcosa in sua discolpa, ma il sangue cominciava a risalirgli nella gola, impedendogli non solo di parlare, ma anche di respirare.
 “Hai continuato a prenderti gioco di me e te ne vantavi anche con i tuoi cari cortigiani...” continuò Francesca, mentre la luce iniziava ad abbandonare gli occhi del marito: “E ora sappi che morirai per colpa tua, tua soltanto...”
 E con quelle ultime parole, Francesca ritirò fuori la spada dal corpo ormai esangue di Galeotto, che ricadde in terra, pesante e senza vita.
 La donna allora alzò lo sguardo e si ricordò di Rigo e Mengaccio. I due uomini la stavano fissando attoniti, sconvolti dalla ferocia che le avevano visto sul volto mentre uccideva il marito.
 “E voi... Sappiate che rivoglio fino all'ultimo centesimo dell'anticipo che vi avevo versato.” disse piano Francesca, lasciando cadere la spada, che, colpendo il suolo, riempì la stanza con un fastidioso rumore metallico.
 Rigo e Mengaccio tenevano ancora gli occhi puntati sulla loro signora, fradicia di sangue dell'uomo che aveva appena assassinato. Così esile eppure così letale...
 “Ora rendetevi utili in qualche modo...” fece Francesca, cercando il necessario per scrivere: “Chiamate qui le guardie che mi sono più fedeli, che mi difendano. Intanto io scriverò a mio padre Giovanni Bentivoglio, che dovrebbe riuscire ad accorrere subito qui... E fate in modo che la balia mi raggiunga assieme a mio figlio.”
 Rigo e Mengaccio non si fecero ripetere gli ordini e mentre Francesca cominciava a scrivere, uscirono di corsa dalla stanza per chiamare le guardie più fedeli della loro signora.
 La donna, nel frattempo, aveva concluso la stringata lettera per il padre. Lui l'aveva sempre odiata, ma non avrebbe potuto permettersi di perdere Faenza. L'avrebbe soccorsa senza dubbio, se non altro per avidità.
 Francesca guardò il corpo senza vita di Galeotto e poi si accorse di essere completamente zuppa del sangue di quell'uomo odioso che finalmente aveva smesso di rovinarle la vita con le sue amanti e le sue battutacce ignoranti.
 Con un sospiro, Francesca prese un nuovo pezzo di carta e decise di scrivere a un'altra persona che l'avrebbe capita e quindi aiutata, e non solo per pura convenienza.
 Intinse la penna nell'inchiostro e poi cominciò a scrivere: 'Caterina, mia cara cugina...'
 
 Quel giorno, di mattina presto, era arrivata una lettera da Ravenna, scritta di proprio pugno da Antonio Maria Ordelaffi e indirizzata alla Contessa Sforza Riario, signora di Imola e Forlì.
 Nelle prima righe, l'uomo porgeva le proprie condoglianze e si dichiarava fedele servo di Caterina,  disposto a tutto pur di preservarne in eterno la supremazia in Romagna.
 Quell'eccesso, pensò subito Caterina, stonava parecchio con tutte le piccole e grandi congiure in cui il nome di Antonio Maria Ordelaffi aveva fatto la sua comparsa in quegli anni. Dichiararsi fedele servo, dopo aver cercato di rovesciarla con ogni mezzo, non era certo il massimo della sincerità.
 Tuttavia in politica la sincerità non è un valore, ma un difetto, dunque la Contessa sorvolò e passò oltre.
 La seconda parte del messaggio era di tono molto diverso, più privato, per così dire.
 L'Ordelaffi praticamente implorava di poter visitare Forlì, città che gli mancava terribilmente, a suo dire, per poter parlare di persona con Caterina ed esporle una questione che di certo l'avrebbe interessata moltissimo.
 Non si spiegava di preciso in cosa consistesse quella questione, ma dal ripetuto uso fatto dall'uomo di parole come 'ammirazione' e 'vivo interesse', Caterina un'idea se l'era fatta.
 Si era chiesta quando sarebbero arrivate le prime proposte di matrimonio, in effetti. Le sue città, con la loro posizioni e le loro rocche, avrebbero fatto subito gola a molti. Una donna di venticinque anni con figli piccoli e vedova da poco era una preda ambitissima. Poteva generare altri figli, prima di tutto, essendo ancora giovane e poi si presupponeva che una donna sola fosse più o meno inutile e quasi del tutto incapace. Dunque un uomo poteva sperare di meglio?
 Caterina accartocciò subito la lettera di Antonio Maria Ordelaffi, ma decise di rispondere. Non voleva mostrarsi troppo ostile, temendo che quell'uomo avesse ancora qualche alleato potente in città di cui lei ignorava l'identità.
 Lo avrebbe tiepidamente incoraggiato, gli avrebbe permesso di farle visita, ma poi avrebbe trovato un pretesto qualsiasi e avrebbe diradato le visite, fino a sospenderle del tutto.
 Non conosceva l'Ordelaffi di persona. Di lui sapeva solo quello che le era stato riferito. Percepiva trecento fiorini l'anno da Venezia, come vitalizio e si era rintanato a Ravenna da un suo amico per poter correre a Forlì non appena qualcuno gli avesse spianato la strada. Lo descrivevano tutti come un giovane ventiquattrenne scattante, prestante e dal viso magnificamente regolare.
 Caterina aveva sentito più di una donna – sia a Forlì, sia a Imola – lodarne la bellezza e glorificarne il fascino.
 Era di certo un motivo in più per accettare qualche incontro, ma non abbastanza per farsi intrappolare.
 L'assiduità con cui quel giovane uomo aveva cercato per anni di riprendere il trono dei suoi avi era sufficiente sintomo per dichiararlo assetato di potere e carico di risentimento nei confronti di Caterina, che, assieme a Girolamo, gli aveva strappato di mano ogni cosa, dal titolo alla casa.
 Se fosse caduta nella sua rete, di certo si sarebbe trovata di nuovo ingabbiata in un matrimonio privo di fondamento. Ne aveva abbastanza di sacrificare la propria vita privata per quella pubblica.
 Si sgranchì il collo e allungò la mano verso la penna per scrivere, quando qualcuno bussò alla porta ed entrò senza aspettare il suo permesso.
 Era Tommaso.
 Da qualche giorno aveva cominciato a prendersi con lei quel tipo di piccole libertà. Entrava senza aspettare il permesso, a volte la faceva attendere quando lei lo faceva chiamare e più di una volta le aveva parlato con troppa franchezza senza che ve ne fosse un vero motivo.
 Giusto il giorno prima, per esempio, le aveva detto: “Credo che abbiate fatto un errore a dare una promozione a mio fratello. Non è in grado di svolgere il suo compito e questa cosa lo mette in difficoltà. Dovreste pensare più attentamente, prima di prendere certe decisioni.”
 Caterina si era risentita e gli aveva detto di non permettersi più di criticarla a quel modo, a meno che le circostanze non fossero abbastanza serie da permetterlo. Tommaso si era scusato e l'episodio si era concluso lì, ma aveva comunque lasciato Caterina molto perplessa.
 “Ditemi pure...” fece la Contessa, quando il castellano fu nella stanza.
 “Mia signora – fece l'uomo, porgendole una lettera – è appena arrivato questo messaggio da Faenza. È indirizzato a voi, da parte di Francesca Bentivoglio.”
 All'inizio Caterina non comprese il motivo della preoccupazione, palpabile nella voce di Tommaso, ma, quando ebbe tra le dita la missiva, comprese.
 Quel pezzo di carta era completamente macchiato di sangue.
 Senza perdere tempo per farsi domande, Caterina ruppe la ceralacca e cominciò a leggere. Arrivata all'ultima riga scattò in piedi e corse fuori dalla stanza, per andare a cercare il Bergamino, l'unico che potesse aiutarla davvero in quel frangente.

   
 
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